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Scrivere e basta, senza fare tante stories

«Eh ma questo è lavoro», ci giustifichiamo mentre contiamo le ricondivisioni su Instagram, chi ha messo un cuore e chi ha visualizzato silente. Qual è il costo personale di questa autopromozione? Ti improvvisi trapezista ma il tuo numero fa schifo e hai pure paura del vuoto. Nessuna strategia ti restituirà quelle otto ore al giorno (se va bene) di utilizzo dell’iPhone, figuriamoci l’algoritmo

Il martedì è un giorno complicato, ogni martedì lo è. Il martedì sera, quando controllo il tempo di utilizzo dell’iPhone,

i numeri che trovo mi fanno paura: 7, 8 ore, anche 9.

Il martedì è il giorno in cui esce il podcast che faccio tutte le settimane, ed è il giorno in cui lo comunico sui miei social. Molte di quelle ore che mi fanno paura le passo su Instagram a rispondere ai commenti che ricevo in direct, a ripostare chi ne parla, a controllare il numero di condivisioni e visualizzazioni delle stories di Instagram. E, siccome certe volte controllo chi mi mette like, un po’ di quel tempo se ne va anche a provare gratitudine, o dispiacere per chi, invece, il like non l’ha messo. «Sei pazza?», mi chiede mio figlio: «Davvero ti metti a leggere i nomi?». Solo certe volte.

Certe volte sono pazza.

Sul mio tesserino da giornalista ho la faccia da bambina, i bollini annuali che adesso sono diventati virtuali e un tempo, invece, erano appiccicosi e colorati mi ricordano che faccio ufficialmente questo mestiere da 26 anni per 20 dei quali scrivere è stato, almeno per me e per molti altri, sufficiente. Per gli altri 6 no, non è stato abbastanza, perché intanto il mondo era cambiato e la soddisfazione per il proprio lavoro aveva smesso di essere una questione in un certo senso privata, ed era diventata il riflesso di una risposta collettiva, sbriciolata, fuori controllo. Le edicole chiudevano e intanto aprivamo tutti profili social su cui vendere i nostri pezzi – e pezzi di noi – al convenientissimo prezzo di un like, o nemmeno quello. Che a piacere fosse il contenuto dell’articolo, uno slogan ripostato sul tema di indignazione del giorno, o la foto dei nostri figli in spiaggia, a un certo punto non ha fatto più davvero la differenza.

Like dopo like, come da un mare in tempesta, da Instagram sono emersi, immensi come mostri marini, quelli che sono riusciti a fare di sé stessi dei personaggi. Non parlo degli influencer, gente pagata per vendere prodotti; parlo di persone normali come me, onesti lavoratori delle parole e dei pensieri, venditori di niente altro che non sia la loro firma.

Una mia amica che scrive su un quotidiano nazionale mi ha detto: «Pensavo: scrivo su X, che cosa vuoi di più di scrivere su X se fai la giornalista? Eppure sento che è inutile: non esisto perché non ho abbastanza follower». Ci siamo poi messe a elencare quelli che conosciamo e che, invece, esistono perché intanto sono diventati personaggi. Non siamo stronze, ma non a tutti siamo riuscite a riconoscere meriti che andassero oltre l’istinto del surfista che vede arrivare l’onda e capisce che è bene saltarci sopra. Non siamo nemmeno invidiose perché, ci siamo dette, noi «quella roba lì» non la sapremmo (non la sappiamo) nemmeno fare.

Tra i personaggi nati sui social c’è Francesco Oggiano, giornalista o, meglio, digital journalist («le persone mi definiscono così, mi piace perché vuol dire che posso scrivere 10 mila battute o creare un meme», dice) da 150 mila follower su Instagram e 99 mila su TikTok. «La mia miglior vetrina è stata la newsletter che faccio dal 2019. Poi è arrivato Will che mi ha reso una faccia nota, ma la vera svolta sono stati i miei canali social». Da qualche parte, racconta, ha letto la frase «il self branding è ciò che fai» ed è molto d’accordo. «Il primo gesto per promuovere sé stessi è: metti il culo sulla sedia e lavora». Mentre aspetta che sia pronto il suo nuovo sito dove ci sarà anche una sua IA con cui si potrà dialogare, sta sui suoi canali cercando di non farsi coinvolgere da quello che chiama «il performattivismo: non usare sé stessi per promuovere una causa, ma la causa per promuovere sé stessi. Un fenomeno in cui il confine tra altruismo e narcisismo è molto labile». Anche per questo i social, ammette, possono essere posti molto frustranti in cui ti senti sempre tirato per la giacca. Ma se finissero, se li chiudessero?, chiedo un po’ sognando. «Vivo con questo timore dal primo giorno, per questo bisogna diversificare i contenuti: LinkedIn, podcast, newsletter».

Ci vuole una strategia.

Tecnicamente non sono una boomer, sono una Gen X, la tecnologia non mi spaventa, due cose le so fare, la comunicazione sarebbe anche il mio mestiere, ma non c’è niente che mi dia un senso di prostrazione dolorosa (dolore fisico collocato tra le scapole) quanto parlare di strategie social con un giovane che per mestiere si occupi di strategie social. Il Giovane che si Occupa di Strategie Social è in grado di demolire il tuo sbattimento autopromozionale con due rapidi cenni della testa. Le storie devono essere singole, mai più di una al giorno, meglio se non tutti i giorni. I post? Una sola foto, niente caroselli. Ma i miei follower… Quali follower? Qui si lavora per l’algoritmo.

Insomma ti sei fatta assumere al circo, improvvisata trapezista, pensi in continuazione di scappare nottetempo perché hai paura del vuoto, e poi scopri pure che il tuo numero fa schifo. Bene.

Tra gli onesti lavoratori della parola e dei pensieri ci sono anche, e soprattutto, gli scrittori. Jonathan Bazzi (49 mila 600 follower) ammette di avere sempre avuto con i social un rapporto che definisce «significativo» perché, spiega, «sono stati un buon filtro per la mia timidezza e la mia balbuzie». Sui social ha anche iniziato a scrivere e a farsi conoscere. «Ma negli ultimi 3 o 4 anni ho notato che dentro di me, e anche in una dimensione più collettiva, si è venuto a creare un contrasto, si è esplicitato un ricatto. È diventato evidente che per stare sui social devi seguire le regole dei social che non sono affatto strumenti neutri come si può credere. Usandoli capisci che cosa funziona e che cosa no. E siccome vogliamo tutti essere visti, seguiti, amati, tendiamo a sintonizzarci sulle cose che vanno di più, sia in termini di temi sia di modalità». I social, spiega Bazzi, sono conservatori e ripetitivi, ti obbligano ad abdicare alla dimensione critica e alla ricerca. E anche se appartieni a una comunità (per lui quella Lgbtq+) che, grazie ai social, ha beneficiato di spazi nuovi, in realtà non sei libero per niente. «Se sei omosessuale sui social devi interpretare il ruolo dell’omosessuale, ripetere sempre gli stessi slogan. Qualsiasi posizione non polarizzata, qualsiasi tentativo di guardare le cose da un punto di vista diverso verrà punito o con l’invisibilità o con lo shitstorm». Alla fine, Bazzi su Instagram ci sta meno di prima, e si è dato una regola: «Prendo parola solo se ho qualcosa di nuovo da aggiungere. E sono disposto a rinunciare a un pezzo di consenso, alle occasioni di autopromozione per salvaguardare chi sono».

Paolo Giordano non è molto attivo sui social, ma, dice: «Ci penso più di quello che sembra». Qualche tempo fa ha pubblicato su Instagram una serie di stories in cui interloquiva su questioni filosofiche con ChatGPT e, racconta, è stato cazziato da un Giovane Esperto. «Mi ha detto che era un contenuto da 2021» (io ho ancora vestiti del 2021, che cosa diavolo sarà cambiato dal 2021 a oggi su Instagram? Forse diventare vecchi è questo: smettere di accorgersi dei movimenti del mondo). Quelle stories sono state una specie di eccezione perché lui Instagram (24 mila 400 follower) non lo frequenta molto «perché lì mi sento goffo, non ho naturalezza con il mezzo». Ma le motivazioni più importanti per giustificare questa distanza sono altre. «Riconosco la superiorità dell’algoritmo su qualunque forma di resistenza mentale. Più sono consapevole di questa superiorità, più mi sembra importante scegliere di oppormi all’idea di mondo che i feed ci propongono. È totalmente inutile pensare di poter domare quel mezzo incastrando al suo interno contenuti di complessità, di ambiguità e di nudità. Che, guarda caso, sono esattamente le cose che, come scrittore, cerco». Quindi scrittura e social sono inconciliabili? «Chi scrive fa una ricerca sulla verità e questa ricerca non è compatibile con l’immagine della tua forma nel mondo, molto lucidata, che Instagram richiede». C’è voluto del tempo a Paolo Giordano per capire e accettare questa verità, un tempo in cui, dice, si è sentito fuori dal mondo. «Mi sono posto la questione a lungo e adesso posso dire di aver fatto pace con questa incompatibilità». Il prezzo per stare sul cartellone pubblicitario e dire: ehi, esisto anch’io (nota karma: Esisto anch’io era il nome della oscura testata su cui ho scritto i primi pezzi ai tempi dell’Università) non è basso. C’è la fatica di abitare un posto malsano, se va bene noioso, se va male irritante, se va peggio deprimente. C’è il tempo, tempo che personalmente sento rubato alla conta dei miei giorni, il cui ammontare ignoro come tutti, ma che se anche fossero tantissimi non giustificherebbero questo sciupio di vita. C’è lo sforzo nel gesto atletico della trapezista che volteggia nell’aria e sa che non deve pensare a niente, soprattutto non deve pensare che non è lì che vorrebbe essere né in quel momento né mai.

Fra tutte le dipendenze che ho schivato nella vita (non molte per la verità) questa dei social è certamente quella con cui sto facendo più fatica («Ancora su Instagram?», «Ma che vuoi? Sto lavorando, io»). Leggo tantissimo in materia (per lo più lo faccio, ehm, sui social), ascolto, penso, ne scrivo come ho fatto qui. Servirà? Vediamo martedì prossimo. Ma come ve lo dico? Magari ci faccio una story su Instagram.

Silvia Nucini (Milano, 1969), giornalista, scrittrice e autrice. Cura “Voce ai libri” (Chora), podcast settimanale di interviste a scrittori e scrittrici.