Cerca

Una manciata di parole per onorare la tenerezza

In Ucraina le persone lavano i neonati con le stesse mani con cui seppelliscono i vicini: è così che racconta la guerra nei suoi versi Ilya Kaminsky, ucraino, ebreo, sordo, cresciuto alla fine dell’Urss. I dibattiti in cucina a Odessa, la scoperta delle voci e del silenzio, la scuola per bambini poeti. Quando non abbiamo nient’altro, la poesia è uno scampolo d’aria nei polmoni

«Che cos’è un bambino?» scrive Ilya Kaminsky in Repubblica Sorda (2019), raccolta profetica di versi, prosa e linguaggio dei segni: «Una pausa tra due bombardamenti». Anche una bambina è un intervallo tra le bombe, come lo sono una donna e un uomo. La storia può avere questa forma e dalla storia non puoi separarti – «è un parente da cui non puoi divorziare». Mentre scrivo l’intervista al poeta ucraino visionario che racconta i bambini e la guerra – e ai bambini in guerra insegna a scrivere poesie – arrivano le immagini di Okhmadyt, l’ospedale pediatrico di Kyiv colpito dal missile russo. Non guardo le macerie, l’ammasso dei mattoni, i macchinari in pezzi; mi concentro sulla fila di sedie ordinate fuori dall’ospedale, i ragazzi calvi con le flebo della chemio ripristinate miracolosamente, i piccoli in braccio alle madri o ai medici, attenti a ripararli dai fotografi. Penso alla vita ostinata, a quanto mi ha detto Ilya Kaminsky nella chiusura della nostra intervista: «dobbiamo onorare i momenti di tenerezza umana che consentono alle persone di sopravvivere. Non dobbiamo parlare solo di crisi ma anche di sopravvivenza, per onorare la sopravvivenza». La guerra è fatta di macerie e sopravvivenza, lo sguardo deve comprenderle entrambe ma la lingua può scegliere la forma delle immagini che diventano versi. Le immagini per lui sono lingua madre, luogo delle origini, come ha mostrato giovanissimo nella raccolta d’esordio Danzare a Odessa, libro premiato e tradotto in più di venti lingue. Ebreo ucraino, nato a Odessa quando era parte dell’ex Unione sovietica, perde l’udito a quattro anni a causa di una parotite malcurata – «il medico disse che era solo un raffreddore». Il primo apparecchio acustico arriva a sedici anni, quando la famiglia si trasferisce negli Stati Uniti: fino ad allora può solo leggere le labbra, dunque, ha a che fare solo con le immagini. Non possiamo che partire da qui, dalla lingua incontrata da adulto che ha reso visibile il silenzio.

Com’è stato l’incontro con la lingua, le voci, i suoni?

Prima dell’apparecchio acustico, camminando per la città, osservavo le persone; le orecchie erano sempre aperte, non avevano tappi. Ero curioso di sapere come potevano essere i suoni. Il fruscio. Il sibilo. Il fischio. Il rumore delle chiavi che girano nella serratura o dell’acqua che si muove nelle tubature due piani sopra di noi. Osservavo come le persone intorno a me si parlavano con gli occhi senza che se ne rendessero conto. Dopo ho capito come la gioia, la sorpresa, l’irritazione o la perplessità vivono nella lingua, nei denti, negli zigomi, nel battito degli occhi di chi parla. Osservo tutto questo perché leggere il labiale non ha a che fare solo con i movimenti delle labbra. Solo il 30-45 per cento dell’inglese è leggibile sulle labbra. Osservo le tue spalle e le tue mani, il modo in cui tieni la testa. Non alzare la voce con me, la lettura labiale è più facile con i toni dolci. Ma alcune vocali sono difficili da distinguere, in altre consonanti la forma delle labbra si assomiglia, ad esempio la “f ” e la “v”. Quando leggo imparo a dare un nuovo senso alla lingua, nonostante gli spazi vuoti tra le parole, nonostante i suoni mancanti: mentre le labbra si muovono, l’occhio le segue; la tela dell’incomprensione trema, si lacera – io vedo attraverso di essa.

Cominciamo dall’infanzia a Odessa, quali sono i ricordi che prevalgono?

Ovviamente, quando lasci la città a 16 anni, nell’Unione sovietica degli anni 90, mentre l’impero sovietico e post sovietico sta crollando, non sei veramente un bambino, e non vivi in una famiglia: vivi nella storia. La storia è quel parente che si ostina a camminare a fianco a noi e che ci impedisce di recidere i nostri legami, no? Quando torno a Odessa – cerco sempre di andarci una volta l’anno – passo per le strade che non esistono più; alcune hanno nomi diversi, ma altre sono scomparse. Le percorro comunque, salutando i vicini che un tempo vivevano in questi edifici ormai immaginari in una zona oggi rasa al suolo e vuota. Un poeta non nasce in un paese, nasce nell’infanzia. E chi è fortunato resta in quel dominio. L’infanzia non si ferma quando si ottiene un passaporto al compimento del sedicesimo anno di età, quando il paese crolla improvvisamente e poi inizia la guerra in Moldavia, lontana solo due ore. L’infanzia non si ferma quando gli amici di tuo padre vengono fucilati per strada solo perché sono giornalisti che scrivono di cose sbagliate in un momento sbagliato. L’infanzia continua. In Urss leggevo libri, certo, ma la mia educazione era la città stessa, il mondo che mi circondava. Da bambino sordo ho vissuto il mio paese come una nazione senza suoni. Ho ascoltato l’Urss crollare con i miei occhi.

Ecco qualche ricordo: la domenica i miei genitori e i loro amici si riuniscono al tavolo della cucina, gridano fino a notte fonda: chi è meglio, Achmatova o Cvetaeva? Che ne sarà delle riforme di Gorbaciov? Esiste un Dio? Di giorno, mia madre e mio padre fanno la fila per il latte, camminano con cautela intorno ai loro supervisori sovietici. Ma di notte c’è sempre qualcuno che grida: «Non sono religioso ma credo ci sia qualcosa di divino in noi»! I grandi dibattiti della mia infanzia riguardano sempre bicchierini di vodka al pepe e di vodka alle prugne che papà porta ai suoi amici su un piccolo vassoio. Se c’è una chiesa a cui sono disposto a iscrivermi, è la Chiesa del Tavolo da Cucina in via Sovetskaya Militsia 33, appartamento n. 1 a Odessa. È lì che la domenica sera si affollano intorno a un tavolo e si gridano a vicenda: c’è un Dio?

Quanto ha pesato l’antisemitismo? Ne hai parlato spesso nelle interviste.

Sono un ebreo sovietico. Ho lasciato l’ex Urss a 16 anni e da quelle parti a 16 anni si hanno già le idee abbastanza chiare sulla vita. Poi certo, posso parlare solo per quelli della mia generazione, cresciuti negli anni Novanta, che sono diventati adulti vedendo il loro paese andare in frantumi e i tanti conflitti etnici moltiplicarsi un po’ ovunque entro i nostri confini.

Allora: perché la mia famiglia se n’è andata? È stato l’antisemitismo.

Torniamo alla poesia, necessaria anche in guerra, necessaria ai bambini. Puoi raccontare del Kids Poetry Studio, il Laboratorio di poesia di Odessa che hai fondato lo scorso anno?

Lascia che ti dia la visuale giusta. L’architettura di Odessa è in scala ridotta, “a misura umana”, c’era un Teatro dell’Opera prima che ci fosse l’acqua potabile. Odessa ama l’arte e ama le feste.

La città ha una sintonia particolare con la letteratura. Ci sono più monumenti agli scrittori che in qualsiasi altra città abbia mai visitato. La festa più importante non è il Natale, ma il 1° aprile, il pesce d’aprile, che chiamiamo Humorina. L’umorismo fa parte della nostra resilienza. «Mi sono svegliato per le esplosioni», mi ha scritto mio cugino Petya, «Stavano bombardando la spiaggia. Chi pensano di colpire? Non è mica stagione di vacanze!». Un amico ha scritto «L’occidente ci osserva. Questo è il loro reality della guerra, sono curiosi di vedere se continueremo a vivere o se moriremo».

Da quando è iniziata l’invasione su larga scala sono tornato a Odessa diverse volte. La mia famiglia vive ancora lì, è anziana e ha bisogno di aiuto. Ci sono stati bombardamenti sui civili quando ero lì? Sì. L’elettricità andava e veniva? Sì. È quello che succede in tempo di guerra.

Molti bambini sono figli di rifugiati di guerra provenienti da altre città dell’Ucraina: Mariupol, che è stata cancellata, Nikolaev, che è stata pesantemente bombardata e non ha più acqua potabile, Kharkiv, che a un certo punto è stata occupata e dove si sono verificati eventi orribili. I genitori rifugiati di questi bambini passano la giornata a cercare freneticamente un lavoro, un appartamento, i ragazzi restano seduti nei rifugi antiaerei, da soli. Così abbiamo avviato uno studio per insegnare ai bambini a scrivere poesie, in modo che non si sentano più soli, che abbiano una comunità, un foglio e una penna, che possano condividere le loro esperienze con gli altri, sulla pagina e con la loro voce. E perché la poesia? Quando si scappa da un edificio bombardato non si ha in mano un romanzo da mille sterline. Non funziona così. Però potresti avere in testa qualche verso di una poesia o di una canzone per consolarti, per darti un ritmo, per dare un senso alle parole che ti terrorizzano e ti intorpidiscono. La poesia è oggi più che mai necessaria. Non perché sia bella o elegante. Ma perché ci aiuta ad articolare i momenti più impossibili: ci dà un sussulto, uno scampolo d’aria nei polmoni. Quando non abbiamo nient’altro, possiamo ancora conservare una manciata di parole nella nostra memoria, una melodia, e potrebbe essere tutto ciò che abbiamo per sopravvivere, non lo sappiamo ancora. Ma se siamo fortunati, c’è. Tenetela al sicuro, questa musica verbale. Memorizzate nuove poesie, se potete. Potreste averne bisogno un giorno, aerei da guerra o meno. Quando ci si trova di fronte al muro bianco della crisi, tutti hanno bisogno di un po’ di musica, di un balsamo.

Ecco una poesia scritta da Maryna, una ragazzina di 14 anni:

Buon pomeriggio, sorella, come va
In cielo? Tranquillo vero?
Senza paura e senza notte. Noi siamo
nel seminterrato, parlando
di te, sorella. Esplosioni
Ancora e ancora, mamma sussurra:
«Tuoni…» Mamma insiste: «Temporale».
Ma guarda la guerra ci fissa.
Posso ancora vedere gli uomini con le armi,
la tua figura esile, le grida di mamma.
E la mia anima zigzaga verso il cielo.
Accanto a Dio
è calmo e nessuno ci tortura, sorella.
Solo la tua bambola è goffa
senza di te. Molte bambole
senza bambini vivono qui. Qui in questo
Paese: molte bambole goffe,
macchine, orsi in giacche logore,
vestiti, pantaloni. Noi ricordiamo
te. Noi siamo senza di te. Qui, in Ucraina.

Il silenzio è un tema molto presente nelle tue poesie: il silenzio di Repubblica sorda, che permette ai soldati di non sentire e non ubbidire agli ordini, il silenzio imposto dalla menzogna, il silenzio della complicità. Lo definisci «l’invenzione dell’udito», ma sembra avere un ventaglio molto ampio di significati, è così?

Per mia fortuna, Repubblica sorda ha avuto un’ottima traduzione italiana, così i lettori possono dare un’occhiata al libro e vedere se è qualcosa che li appassiona. È una sorta di ibrido, che unisce diversi generi. Succede quando hai bisogno di dire qualcosa che non può essere detto altrimenti, qualcosa per cui non sembra esserci una forma pronta, ma che deve essere detto.

Se sei un rifugiato, questa è più o meno la tua situazione: i generi consolidati non raggiungono ciò che vuoi dire: non sei in Ucraina, non vieni esattamente dall’America – come puoi smettere di essere un immigrato, anche se vivi qui da più di vent’anni? La difficoltà con i generi ibridi è creare un modello che parli sia alla tua parte ucraino-ebraica sia alla tua parte americana?

Molte di queste domande sul genere per me sono domande tecniche, che hanno a che fare con i dispositivi poetici. I poeti scrivono nella lingua dei dispositivi poetici; non scrivono in inglese, o in russo, o in yiddish, o così via. Allo stesso modo in cui Marc Chagall pensa in rosso, verde e blu. La sfida consiste nel renderlo evidente al lettore. Le poesie possono contenere informazioni, ma non si tratta di informazioni. Una poesia non parla di un evento, ma è un evento. Per me, gli espedienti poetici come le immagini possono costruire il mondo intero. Le immagini vengono dalla vita. Le immagini sono i nostri sogni, e anche i nostri giorni. Sono anche la nostra prova di aver vissuto. Un esempio: qui in occidente, la gente pensa «Oh, lì, nel paese esotico chiamato Ucraina, ci sono violenza e rovina, rovina, rovina». Gli occidentali guardano la vita in un’altra parte del mondo, come dèi greci che osservano il resto dell’universo dal monte Olimpo.

Ma questa non è la realtà. In realtà, se vai in Ucraina proprio ora, come ho fatto io a luglio, in mezzo alla guerra vedrai immagini di persone che seppelliscono i loro vicini nei cortili di casa perché i cimiteri sono stati bombardati, sì. Ma vedrai anche persone che ancora si sposano, le spose che danzano vicino al mare, i padri felici che prima di entrare nell’esercito vanno in ospedale a prendere i loro neonati. Sono immagini che ho visto con i miei occhi. Le persone lavano i loro neonati, e con le stesse mani, in un giorno diverso, lavano i corpi dei loro vicini morti prima di sotterrarli, leggono fiabe ai bambini prima che vadano a dormire. A mio avviso Repubblica sorda riguarda anche questo. È una storia in versi su una donna incinta e suo marito in un momento di crisi. Vedono un soldato sparare e uccidere un ragazzo sordo e vedono l’intera comunità che decide di alzarsi e protestare contro le autorità rifiutando di ascoltarle. Così inizia la storia. C’è molta tragedia, ma anche molta tenerezza.

La testimonianza non è al cento per cento testimoniare l’orrore. Quella non è una testimonianza onesta. È anche testimoniare persone che si prendono cura l’una dell’altra nonostante quell’orrore. Abbiamo storie perché qualcuno è sopravvissuto per raccontarle.

Noi vivevamo felici durante la guerra

E quando bombardavano le case degli altri, noi

protestavamo. Ma non abbastanza, facevamo opposizione ma non

abbastanza. Io ero
a letto, intorno al mio letto l’America

cadeva: casa invisibile dopo casa invisibile dopo casa invisibile –

Nel sesto mese
di un regno disastroso nella casa del denaro

nella strada del denaro nella città del denaro nel paese del denaro, il nostro grande paese del denaro, noi (perdonateci)

vivevamo felici durante la guerra.

Fabrizia Giuliani (Roma, 1966), insegna Filosofia del linguaggio e Studi di genere alla Sapienza di Roma. Tra i suoi ultimi lavori: “La lingua di Gentile” (Treccani, 2016) e “Le parole per non dirlo, la violenza nella lingua del giudice” (FrancoAngeli, 2021). Dallo scorso maggio coordina il comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla violenza contro le donne.