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A Parigi è tutto carissimo

Chi è lo scrittore? Un tizio pallido e grasso in una stanza riscaldata che dice: lasciatemi in pace, ho bisogno di silenzio. Conversazione con Rachel Cusk su arte, egoismo, uomini e donne. Il tentativo di non essere borghese, la noia di Knausgård e i maschi americani nel Marais

Nel bar di Palazzo  Grassi,  vista sul Canal  Grande.  Rachel  Cusk è a Venezia per leggere un saggio, inedito, in occasione de “Lo stato dell’arte”, una serie di incontri per riflettere sull’arte contemporanea. Cusk ha  raggiunto  la fama internazionale grazie alla trilogia uscita tra il 2014 e il 2018 (Resoconto, Transiti e Onori). La sua scrittura, rapida, intima e ipnotica, ha avuto un grande impatto sulla narrativa contemporanea.  Il suo ultimo libro, Second Place, che uscirà quest’anno in Italia per Einaudi, racconta di M che ospita nella sua dépendance un celebre pittore, L, per una sorta di residenza artistica.

In Second Place un personaggio  a un certo punto dice: “Spesso ho pensato che fossero i padri a creare i pittori, mentre gli scrittori vengono dalle madri”. Lo credi davvero?

È una teoria a cui ho iniziato a pensare quando stavo scrivendo The Last Supper, che non credo è mai stato  tradotto  in Italia perché il mio editore italiano  dice che nessun italiano sarebbe mai interessato a leggere uno sguardo esterno sull’Italia. Comunque, stavo leggendo Vasari ed ero molto interessata a quanto la biografia di un artista possa diventare parte dell’esperienza artistica. Quello che ho amato di Vasari è che va molto sul personale e ti racconta delle malattie veneree di Raffaello e di quanti soldi avessero le persone e di com’era il loro carattere. Ogni capitolo di Vasari inizia raccontando come questa persona diventerà Cimabue o Giotto, come si diventa artisti, e sempre il padre ha deciso di accettare questa propensione artistica del bambino, e avendola accettata piazza il figlio presso un maestro. E c’è questa sorta di autorità paterna, o paternalistica, nell’affidare tuo figlio a un altro uomo. E così quando ho iniziato a pensare a quello che sapevo degli artisti, degli artisti visuali, molto spesso mi sembrava esserci un’influenza paterna. E quindi ho allargato la mia teoria pensando a come sono gli scrittori, a livello di carattere, rispetto agli artisti, e quale linguaggio c’è dentro di noi. Mi sembra che l’installazione del linguaggio sia qualcosa di problematico che potrebbe creare l’attività dello scrivere. E c’è tanto della voce della madre, e della visione del mondo della madre e della sua infelicità segreta che il bambino può ascoltare, e lui la raccoglie e la recupera nella scrittura. Quindi diventa una forma di espressione molto diversa e sotterranea.

Secondo  le  biografie,  molti  autori non andavano d’accordo col padre, soprattutto   nell’Ottocento,   mentre la madre era la persona che li esponeva alla lettura, alla cultura, all’arte.

Con la significativa eccezione delle uniche donne che hanno avuto successo come scrittrici prima dell’era moderna. Cioè Virginia Woolf, le sorelle Brontë e George Eliot. Tutte loro avevano un rapporto atipico con il padre. E nessuna madre, o almeno nessun rapporto con lei. Il padre le ha educate e le ha essenzialmente trattate come maschi. Penso che  sia  una  teoria che funziona e riguarda il linguaggio, e la differenza tra le due cose: il dipinto, un oggetto che esiste in forma concreta, e la scrittura.

 

“Scrivere è economico e non ti serve talento per farlo”, dice un personaggio nel tuo libro.

È molto vero. Se leggi qualcosa  scritto da un artista visivo è meglio del novanta per cento di quello che viene scritto dagli scrittori. Uno scrittore può dipingere? No. Uno scrittore sa  suonare  il  pianoforte? No.

Second Place in parte riguarda la contrapposizione tra un artista, maschio, e una scrittrice.

In parte il libro è basato su un cliché: l’artista maschio è il modello supremo di libertà, di egoismo impenitente, di carenza di  interesse  per  gli  altri,  dell’incapacità di occuparsi degli altri. E parte di quello che c’è sotto, storicamente, penso sia una sorta di violenza verso sé stessi, una specie di povertà del sé, dell’incapacità di occuparsi di qualcun altro, di  prendersene cura, e ti fa rendere conto che l’egoismo è qualcosa di molto più selvaggio e violento. Ed essenzialmente è antiborghese. E scrivere è così borghese. Quindi penso che la potenza del turbamento e il fascino della figura artistica sia lo sprezzo per gli strumenti della vita borghese, della sicurezza e delle comodità personali. L’identità artistica diventa quindi pericolosa ed è molto attraente per lo scrittore, che solitamente è una persona grassottella con la faccia pallida seduta in  una  stanza  riscaldata che dice: “Lasciatemi in pace, ho solo bisogno di silenzio!”. Quest’elemento di pericolo nella creatività si perde facilmente nell’impresa della scrittura. Si perde molto più facilmente rispetto alla creazione di un’immagine.

Quindi non  possiamo  considerare lo scrittore un artista?

È quello che lo scrittore dovrebbe essere. Ma la scrittura ha la necessità di essere compresa da un pubblico, da un ampio numero di persone, e c’è la tentazione di compiacere gli altri. Il problema del libro è che, per esistere, richiede che qualcuno lo legga. È uno sforzo diplomatico. Non si possono spingere troppo i confini della scrittura prima che qualcuno dica “no, no, nessuno lo  leggerà”. Quindi si tratta di un’interfaccia agonizzante. E quest’interfaccia, teoricamente, è l’editore che dice: “Difenderò questo scrittore anche se, al momento, solamente dieci persone capiscono il suo libro, perché credo che a un certo punto tutti se ne renderanno conto e saranno in grado di leggerlo”. È il modo in cui il tempo agisce sulla scrittura, così come sulla pittura,  perché rende comprensibili le cose,  dopo.  Ma per gli scrittori è particolarmente difficile perché un libro non esiste davvero finché qualcuno non l’ha letto. Penso che invece un dipinto esista, anche se non  viene visto da nessuno.

Il tempo ha un ruolo molto importante nella tua scrittura e in Second Place. La protagonista è in un momento di calma della sua vita dove riesce a rivedere molto chiaramente il proprio passato e ad analizzare i propri pensieri.

È esattamente il tema del libro, il momento di liberazione dall’identità biologica. Essere una femmina biologica vuol dire essere obbligati a vivere nel presente, sempre. E parte di quello che M, la protagonista, si sta chiedendo è: “A cosa servo? Mi rendo conto che sono sempre servita a qualcosa, che sono stata utilizzata biologicamente, senza nemmeno rendermi conto di cosa mi stesse succedendo”. Questa sensazione di essere scartata, è libertà? È sentirsi trascurate? È un esilio? È stato difficile  trovare  una  forma  in cui mettere questi pensieri, scrivere di questo periodo della vita che è così informe. Le donne passano attraverso diverse fasi della vita che sono molto comunitarie, dove il tuo corpo quasi appartiene al gruppo, che sia in modo sessuale o perché sei una madre, e poi di colpo c’è questo momento in cui ogni donna sta  un  po’ per conto suo. A un certo punto le donne non hanno più una narrativa che le lega e nessun modo per confrontarsi tra loro o di collocarci nella femminilità.

 

E perché hai scelto questa forma, in cui la narratrice racconta la storia a qualcuno che conosce in un modo così intimo?

Immagino che il motivo sia questo: dopo aver scritto la trilogia era come se non mi fosse  permesso  di  tornare  a  “Quel  giorno è successo questo e questo…”, che avevo usato prima. E penso che sia una sorta di sviluppo filosofico dal modo di espressione della trilogia. Per la forma ho usato un memoir fuori catalogo di Mabel  Dodge Luhan che scrive della sua relazione con

D.H. Lawrence. Ho letto il libro e ho pensato: è perfetto. È un libro ignorato, dimenticato: ci sono entrata dentro come ci si trasferisce in una casa  abbandonata  e ho iniziato a riempirlo con le mie cose. Mi è sembrata una giustificazione estetica perché per me la scrittura assomiglia molto all’urbanizzazione selvaggia. La gente costruisce questi grossi libri orribili e rovina il paesaggio, quindi la disponibilità e l’uso del silenzio è un po’ un dilemma morale. Se diciamo: “Gli altri devono poter parlare, devono avere l’opportunità di dire quello che vogliono”, per me, qualsiasi luogo si scelga di occupare col proprio libro non dovrebbe prendere lo spazio che potrebbe essere usato da qualcun altro. Forse è una cosa che ho solo io in testa e che non ha alcuna connessione con la realtà, ma usare questa forma mi è sembrato meno egoista.

La narratrice, in Second Place, ma anche in altri tuoi romanzi, è solitamente più dura con sé stessa di quanto non lo sia con le persone che la circondano. Lo facciamo tutti?

Non lo fanno tutti,  magari.  Ha  a  che fare con il destino e con l’identità, con il problema di ereditare una struttura personale composta da così tanti elementi diversi e che include così tante risposte preformulate al mondo. Parte  di  quello che è successo nei miei libri è un esame della domanda: “Perché non sono libera? Come divento libera? Cos’è la  libertà?”. Una parte è il desiderio di fuggire da quell’elaborazione del sé e dell’identità, e la destinazione finale dovrebbe essere di non giudicarsi, di non giudicare nessuno duramente. Ho paura della soggettività e dell’egoismo. E il minuto in cui inizi a parlare del tuo lavoro, o qualcuno inizia a dirti che gli piace il tuo lavoro, smetti di vedere alcune cose e inizi a pensare di essere più importante di questa o di quell’altra persona. Parte di quello che Second Place vuole dire è: L, questo artista, sembra un mostro di egoismo, ma in qualche modo sta mantenendo la propria integrità di artista comportandosi in modo spiacevole. Non cerca l’approvazione degli altri.

 Ti piace l’opera di Annie Ernaux?

Sì, molto. L’ho appena intervistata. Sto scrivendo di lei.

La verità è un tema centrale anche nei tuoi libri. Libri che spesso possono essere definiti “autobiografici”. Cosa pensi di questa “autofiction”? Hai anche citato Knausgård …

Penso che questi scrittori siano meno oppressi dalla sensazione di santità del romanzo. Per me è diverso. Nei miei libri sembra spesso che io parli semplicemente di me, ma la mia traiettoria è stata invece un tentativo classico di avere padronanza del romanzo letterario, e ho finito per costruire romanzi letterari prendendo materiali molto, molto, diretti. Il bisogno di farlo è diventato sempre più ovvio col tempo, per via di questo problema della falsificazione e della difficoltà di inserire scelte personali radicali nella  forma  e nella struttura del romanzo. Ho lottato proprio con questo processo, e il risultato è stato Resoconto. Come si fa a usare questa forma per esprimere cose che sono al di fuori di essa, o che vuoi mantenere a una certa distanza? Per me la risposta è stata: vedere queste cose attraverso gli altri, sentirle attraverso altre persone. Annie Ernaux e Knausgård – che sono molto diversi uno dall’altra, ma non così diversi rispetto a quanto lo siano entrambi da me – vengono da una posizione completamente diversa, cioè la comprensione della legittimazione del sé: sapere che il libro è uno spazio completamente tutelato per l’espressione del sé. Fondamentalmente se si parte dall’autoritratto nell’arte visiva,  tutti  possono  avvicinarcisi,  tutti ne hanno diritto,  non  c’è  alcun  giudizio se non sul modo in cui crei il tuo autoritratto, o su cosa dici  di  te  stesso.  La forma in sé è legittima. Quindi questi scrittori hanno preso questa idea, e il motivo è che devi essere in grado di scrivere senza partecipare alla cultura borghese. Questo è il perché dell’autofiction. Puoi iniziare a scrivere da quel punto, e dire “sono il testimone di me stesso e questa è la mia testimonianza”. Puoi iniziare subito. C’è molta energia in questo genere e molte potenzialità nel girare intorno al romanzo. Se si guarda l’opera di Annie Ernaux lei dice in un libro: scrivendo in questo modo rifiuto per sempre a me stessa il piacere della liricità, il piacere della metafora, il piacere della poesia. Queste cose non mi sono permesse. Knausgård non è così austero, non è formalmente interessante quanto lo è lei. Knausgård è come un’installazione, ha fatto una cosa e l’ha fatta troppo a lungo. È molto facile usare l’autofiction in un modo completamente sbagliato, solo come modo per raccontare la tua storia. Ma io non rientro in questa categoria. In particolare con  Second  Place  ho  ricominciato a godermi la scrittura dei paesaggi, per esempio. E probabilmente andrò più verso quella direzione.

C’è un certo livello di comicità nei tuoi libri. È doloroso rileggerti? O ti diverti?

Scrivere ti appaga moltissimo, è un vero piacere, se fai quello che avevi intenzione di fare. Ma non rileggo mai le cose dopo che le ho scritte, se dovessi farlo probabilmente mi arrabbierei molto con me stessa.

Quanto ci metti a scrivere?

Il mio processo di scrittura, fino a Second Place compreso, è sempre stato molto performativo. Una volta che so cosa sto facendo e l’ho risolto nella mia testa allora posso sedermi e scrivere tutto il giorno e tutta la notte fino a che non ho finito. Ho scritto Resoconto in un tempo straordinariamente breve, avendo prima capito completamente che cosa avrei fatto. E la parte di scrittura ha un lato, quasi come una performance, che in realtà è molto godibile. Ma questo vuol dire che per il resto del tempo non ho nulla da fare. (Ride).

Di recente ti sei  trasferita  a  Parigi.

Sì, ed è uno stile di vita completamente diverso e un modo di essere diverso e mi sento in una fase creativa diversa. Diversa da qualsiasi abbia mai vissuto prima. Ci sono delle cose che mi sono sentita quasi obbligata a rappresentare, soprattutto riguardanti la femminilità, ma adesso non sono nello stesso flusso sul genere. Quindi la domanda è: “Sono qui per scrivere cosa?”. Al momento mi è molto poco chiaro.

Stai scrivendo? O stai pensando a cosa scriverai?

Ho scritto questo breve saggio, che è la prima cosa da parecchio tempo. [L’ha letto al Teatrino di Palazzo Grassi: tratta dei pittori Baselitz, Norman Lewis e Paula Modersohn-Becker e dell’essere stata attaccata in strada da una sconosciuta, mentre camminava per Parigi, senza motivo]. È stato un bel passo avanti per me. Spero sia l’inizio della nuova direzione che prenderò. C’è poi da dire che ora sto esistendo all’interno della cultura francese e  al livello del linguaggio sta succedendo qualcosa di molto invadente nel mio cervello. Ci vorrà del tempo e non so quali saranno i risultati. Ma ora mi sento come  se  ci fosse una certa distanza tra me e l’inglese. Ora leggo in francese, leggo solo in francese e non mi piace più leggere in inglese. In questa fase terribile il mio francese, a livello di lettura, è abbastanza decente, ma molto lontano dall’essere naturale. Non voglio leggere in inglese quindi ora sono come chi ha un livello linguistico molto sotto la media. E poi quando parlo francese faccio un’esperienza piuttosto strana, di retrocessione: è come essere spinta giù dalla piramide della lingua.

Nella serie Modern Family il personaggio interpretato da Sofia Vergara, una colombiana che vive negli Stati Uniti e che fatica con l’inglese dice proprio: “Ti rendi conto di quanto sono intelligente in spagnolo?”.

Esatto. È quasi come  tornare  indietro ed essere un uomo primitivo in una caverna che si chiede “Come faccio a trasformare questo sasso in una punta di freccia?”. È molto energizzante, se non ti distrugge. E alla mia età si può andare in entrambe le direzioni, potrebbe anche interrompere del tutto il mio sviluppo mentale. Sto leggendo molto Marguerite Duras, e mi sta aiutando parecchio. Mi sento una versione sfocata di me stessa quando parlo francese.

Ti sei trasferita nel Marais,  però, che è pieno di persone che parlano inglese.

Ci sono delle persone, soprattutto uomini anglofoni, in particolare americani, che pensano semplicemente: “Vivrò in questo museo e se qualcuno vuole  qualcosa  da me parlerò nella mia lingua a voce molto, molto alta”, e di solito se la cavano. Mi è successa una cosa piuttosto divertente. Second Place era appena uscito con Gallimard, il mio primo libro pubblicato con loro. Gallimard è una casa editrice che funziona come una corte veneziana nel Rinascimento, piena di intrighi e regole e pugnalate alla schiena. Un giorno ricevo una telefonata da loro che mi dicono: notizia incredibile, sei stata invitata nel programma televisivo La grande librairie con Annie Ernaux. E aggiungono: “Ovviamente rallenta troppo le cose avere un interprete, quindi dovrai parlare francese”. E io rispondo: “No è impossibile, non posso. Faccio errori nelle boulangerie, non posso andare in un programma nazionale a parlare francese”. Ma loro insistono e dicono “andrà tutto bene”. Così ho dovuto imparare a memoria tante cose diverse che avrei potuto dire in risposta a possibili domande, e quando sono arrivata lì, davanti alle telecamere, non capivo una parola di quello che dicevano. È stato terribile. Non sono una brava attrice e quando è finito il programma mio marito era tutto rosso in faccia e mi ha detto “non so come hai fatto”. A un certo punto durante il programma mi sono limitata ad annuire. Alla fine è andata bene, ma non oso riguardare la puntata.

Ti manca l’Inghilterra?

Bè, l’Inghilterra non esiste più davvero. L’hanno distrutta. La gente sta malissimo. Negli ultimi otto anni l’istruzione è stata completamente trascurata.

Parigi è fantastica.

E carissima. Quando stavamo partendo per venire qui in Italia ho chiesto a mio marito: “Pensi che Venezia ci sembrerà economica?”. Un bicchiere di vino a 4 euro, wow.

Un’ultima cosa. Ci sono sempre dei cani nei tuoi libri. Hai un cane?

No.

Hai mai avuto un cane?

No.

Vorresti un cane?

No.

E allora perché ci sono sempre dei cani nei tuoi libri?

Perché mi fanno sempre ridere. Hanno una funzione particolare, è come se dimostrassero come funziona la  scrittura,  è una cosa tecnica. E Second Place  è  la prima volta in cui c’è un cane ipotetico in un mio libro. La presenza del cane mostra come funziona la rappresentazione, si può usare anche un bambino piccolo. Se guardi cosa fa un cane alla scena, porta le persone ad autorappresentarsi, iniziano a  dire delle cose a voce alta che non direbbero normalmente. Il cane è il testimone e la cosa a cui ti relazioni, ma lui non  può usare il linguaggio. E poi c’è l’idea  di amore e fedeltà, e di come gli umani vogliono mostrarsi quando sentono queste emozioni. È un po’ come quando un bambino usa una bambola come oggetto transizionale, permette di diventare autonomi e di autorappresentarsi. Si potrebbe usare anche un criceto, ma il cane  è  il  meglio che c’è.

Giulio Silvano (Lerici, 1989)  è  redattore di Nuovi Argomenti, ha  tradotto  alcuni libri (tra cui Bernard Malamud e Anne Carson), collabora con il Foglio.