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Accendersi di vita sull’isola di Taiwan

Ogni angolo di Taipei urla: esistiamo! Contro le rivendicazioni cinesi, contro l’indifferenza, contro la paura di una guerra, si combatte con la cultura, l’orgoglio, l’allegria. Un viaggio tra generazioni e diritti, a partire da una libreria leggendaria, aperta tutta la notte

Read 24 hours». La scritta all’ingresso della eslite nel distretto di Xinyi, a Taipei, racconta quasi tutto di questa città. Forse nessuno di noi alle cinque del mattino o alle due di notte avrebbe voglia di andare a prendere un libro, a leggerselo su uno dei divanetti del terzo piano, davanti al bar sempre aperto: c’è un motivo se esistono Google, Amazon, il kindle, i documentari su casi di cronaca dimenticati. Eppure la sola idea che esista la possibilità di uscire di casa per andare in un luogo preciso, costruito apposta per far sentire le persone meno strane, meno sole, è rassicurante. La eslite – rigorosamente con la e minuscola – è una catena di librerie leggendaria a Taiwan, fondata nel 1989 da Robert Wu, un imprenditore immobiliare con problemi di cuore che a trentasei anni, dopo un intervento chirurgico, decise di smetterla con i palazzi e di creare «un rifugio per l’anima» aperto ventiquattro ore su ventiquattro. Come in quasi tutte le librerie nelle grandi metropoli asiatiche, è come se il negozio di libri avesse mangiato negli anni un intero centro commerciale, centimetro dopo centimetro, e non il contrario come avviene a Roma o a Milano. Sei in mezzo ai volumi di musica e, uno scaffale dopo, i colori cambiano all’improvviso, e capisci di essere finito nel reparto superstite, tra gli snack confezionati e le bibite energetiche (è un dettaglio importante: la verità è che le librerie sempre aperte in Asia sono molto meno romantiche del ritrovo per insonni che crediamo e voleva Robert Wu. Sono il risultato della domanda di una società che non dorme per necessità, per competizione, perché i suoi figli studiano fino a tardi, e se alle cinque del mattino hanno bisogno di un libro?, e se vivono in una casa troppo piccola per studiare fino a tardi?). Una signora mi tira il braccio: vieni ad assaggiare il tè taiwanese, compra questa confezione in promozione da cinquecento tazze. No signora, grazie, niente tè per me, il tè è lento, è contemplativo, bisogna aspettare tantissimo prima di poterlo bere e io ho l’Adhd, il disturbo da deficit di attenzione, e quando provo a prepararlo poi lascio l’infuso troppo a lungo e diventa tossico.

Ogni volta che atterro a Taipei mi domando: ma uno che ci va a fare a New York? Anche qui ci sono i taxi gialli, e i grattacieli, e i parchi nel centro della città, i negozietti vintage, ed è vero, non c’è il MoMa o il Guggenheim, ma c’è il National Palace Museum – praticamente l’intera storia della cultura cinese dentro a un palazzo – e decine di gallerie d’arte, mostre permanenti, gruppi di scuole di pittura che si organizzano online per passare la domenica mattina a ritrarre tutti insieme lo stesso angolo di edificio.

Solo che a Taipei, e non solo a Taipei ma in tutte le grandi città taiwanesi da Kaohsiung a Taoyuan passando per Tainan, ogni dettaglio è orgoglio, identità, rivendicazione. Taiwan, l’isola che la Cina considera parte del proprio territorio anche se il Partito comunista cinese non l’ha mai governata, oggi è riconosciuta come paese indipendente, e quindi con il suo governo, la sua bandiera, il suo nome, soltanto da dodici paesi nel mondo.

E qui invece ogni cosa dice: esistiamo. Al terzo piano dell’eslite di Xinyi – quello che noi chiameremmo il secondo piano, ma in Asia il piano terra è il piano numero uno, quindi il primo, e ho sempre pensato che avesse senso – ci sono i libri di storia, anche contemporanea. Quando entro la selezione della libreria, esposta all’ingresso del settore, offre Sinostan: China’s Inadvertent Empire, un saggio degli analisti Alexandros Petersen e Raffaello Pantucci sulla presenza predatoria cinese in Asia centrale, una biografia del missionario gesuita italiano Matteo Ricci, un saggio del famoso storico americano Jonathan Spence sulla Cina contemporanea, e un paio di libri sulla potenziale invasione della Repubblica popolare, Se la Cina attacca e Il pericolo viene dal mare. Sono tutti libri scritti in quello che viene definito il cinese tradizionale: a Taiwan non c’è stata la riforma voluta da Mao Zedong per promuovere l’alfabetizzazione, e quindi l’introduzione dei cosiddetti caratteri semplificati. A Taiwan, come a Hong Kong e a Macao, si scrive in caratteri tradizionali, ed è piuttosto facile per un cinese o un taiwanese mediamente istruito leggere e capire in entrambi i formati. Ma i caratteri tradizionali fanno parte dei dettagli, quelli che dicono: esistiamo.

Un corridoio intero del terzo piano della eslite è dedicato alla politica interna della Repubblica popolare, l’altra Cina. E non solo perché qui a Taipei c’è tutto l’interesse di studiare e capire il funzionamento di un paese che continuamente minaccia quella che il leader Xi Jinping definisce «l’inevitabile riunificazione». C’è un motivo più sottile, un significato nascosto in quei libri così posizionati. Fino a qualche anno fa se una persona con passaporto cinese avesse voluto sbirciare i titoli di una libreria libera, e comprare uno degli innumerevoli libri censurati da Pechino in lingua cinese, sarebbe potuta arrivare a Hong Kong, la magnifica ex colonia inglese. Poi, tre anni fa, la mano lunga dell’autoritarismo di Pechino è arrivata anche lì, per punire i ragazzi che protestavano e riempivano le strade e le piazze per chiedere di conservare quel pezzetto di autonomia, che significava un pezzetto di libertà in più rispetto alle altre città della Cina. Hong Kong è stata punita per i suoi privilegi di città libera, ed è stata completamente inglobata nel modello autoritario che vuole la leadership di Pechino, cioè il Partito comunista cinese. E così le librerie libere sono state chiuse, e i libri critici fatti sparire. Oggi la eslite di Taipei, le altre grandi catene di librerie e le oltre duecento librerie indipendenti che esistono sul territorio taiwanese – oltre a qualche bookshop delle metropoli del sud-est asiatico, come Bangkok – sono tra i pochi posti in cui i turisti o gli uomini d’affari cinesi si possono trovare di fronte libri in cinese sull’autoritarismo di Pechino o sui suoi sistemi repressivi (anche se comprarli e portarli a casa potrebbe essere un problema “di sicurezza nazionale”).

«Che cringe il tuo albergo», dice una mia amica riaccompagnandomi al mio alloggio nel quartiere fighetto di Da’an, dove i prezzi degli appartamenti negli ultimi cinque anni sono quasi raddoppiati. È passata la mezzanotte, un poliziotto cammina sul nostro marciapiede con una torcia accesa in mano, nonostante il viale sia tutto illuminato:

«Vedi? Poi dicono che il sistema di sorveglianza in Cina è il migliore del mondo».

«Perché è cringe il mio albergo?», domando.

«Guarda le bandiere, l’allestimento, la moquette, i colori: è tutto molto RoC». Non intende il genere musicale, ma l’acronimo di Republic of China, la Repubblica di Cina, che poi sarebbe il nome formale di Taiwan. Il fatto è che oggi i ragazzi – come la mia giovane amica, che frequenta ancora la scuola di Pubblica amministrazione – considerano la Repubblica di Cina qualcosa di legato al passato complicato di Taiwan: dalla fine della Guerra civile con i comunisti guidati da Mao, quando i nazionalisti fuggirono sull’isola, il generalissimo Chiang Kai-shek qui impose un modello di governo altrettanto autoritario. Taiwan ha vissuto una delle leggi marziali più lunghe della storia (dal 1949 al 1987) di cui si è liberata progressivamente poco più di trent’anni fa. Una generazione fa. La cultura RoC è quella delle persone legate a quel passato e a quel genere di paese, nazionalista, anticomunista, la cui identità era pressoché una: essere l’altra Cina.

Sono serviti trent’anni ai ventitré milioni di persone che popolano l’isola e gli isolotti tutt’intorno per costruirsi di nuovo da zero un’identità che oggi è democrazia, è cultura, e che è vita, una linea di demarcazione che non delimita i confini geografici ma il proprio modo di essere e di vivere. È stato un processo lungo trainato dalle nuove generazioni, che negli ultimi anni ha avuto un’accelerazione con l’arrivo alla presidenza dei progressisti. E allora sulle strade di Taipei sono comparse le biciclette sharing, che stanno sostituendo man mano il traffico dei motorini, e la Casa rossa, lo storico teatro di Ximen che un tempo era il simbolo delle lotte per i diritti civili perché prima area gay friendly della città, oggi è un museo dei diritti. Mentre la Cina, dall’altra parte dello stretto di Taiwan, vieta le app per incontri omosessuali, le bandiere arcobaleno ai concerti ed edita i film che fanno riferimento all’omosessualità, Taiwan celebra la sua diversità con l’arte e la riscoperta delle lingue autoctone, per esempio, con il cibo e perfino i distillati – uno dei migliori whisky del mondo viene prodotto nella prima distilleria dell’isola, fondata solo nel 2002. Il suo produttore l’ha chiamato Kavalan, come il nome delle prime tribù indigene di Taiwan.

Quando si parla della campagna elettorale per le elezioni presidenziali che si terranno qui il prossimo 13 gennaio, bisogna tenere a mente questo: tra gli scaffali della eslite, nei bar dietro alla Casa rossa, quella tensione di cui si parla spesso sui giornali occidentali, la paura di un’invasione fatta di bombardamenti e carri armati semplicemente non esiste. La guerra in Ucraina ha insegnato molto ai taiwanesi – a non escludere nessuna ipotesi prima di tutto – ma anche a rivendicare la propria esistenza con la cultura, con l’allegria e l’orgoglio del proprio sistema democratico.

E in questa forza centripeta supergiovane pure i più anziani (quelli che la mia amica definirebbe «gente RoC») si sono adeguati: nei diritti civili, nelle espressioni del politichese. Fino a qualche anno fa i diplomatici taiwanesi parlavano di «mondo cinese», di «due Cine». Oggi sono espressioni scomparse, di un’altra epoca, di un mondo vecchio che non esiste più: Taiwan è Taiwan.

Giulia Pompili (Roma, 1985), giornalista del Foglio. Ha una newsletter, “Katane”, e ha scritto per Mondadori «Sotto lo stesso cielo» (2021) e «Al cuore dell’Italia» (2022, con Valerio Valentini).