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Addomesticare il tormento, io non ci sto dentro

Aggirarsi per il Lido per lamentarsi dei film non entusiasmanti, ma poi incontrare la libertà selvaggia di Patrizia Cavalli, le lacrime e i desideri di «Io Capitano». Essere sé stessi costa per forza uno scarto col mondo, l’alternativa è impiantare un cervello in un feto allucinato

Ci sono tre categorie di persone: quelle che ci stanno dentro (è un’espressione della mia psichiatra, la uso come termine medico), quelle che non riescono a conformarsi ma passano tutta la vita a provarci (guardate come sono normale, sono proprio come voi, voce non troppo alta e discreto funzionamento sociale) e quelle che non ci stanno dentro, ma hanno il coraggio di abbracciare questo essere fuori fase rispetto agli altri; non si tratta solo di desideri diversi, ma di un mancato adattamento, uno scarto di ritmo (tra queste persone libere, ogni tanto, c’è un genio). Non conoscevo Patrizia Cavalli e non avevo letto le sue poesie, ma guardando il documentario Le mie poesie non cambieranno il mondo, di Annalena Benini e Francesco Piccolo, alla Mostra del cinema di Venezia, ho trovato questa libertà femminile unapologetic, cioè selvaggia. Cavalli da giovane che si stiracchia davanti alla telecamera e dice qualcosa sulle note del me ne frego (della politica, di voi che mi intervistate, dei camionisti se non giocano a morra) è uguale a Cavalli adulta che dice non mi mettete in questo gioco di coppia da Sandra e Raimondo, è cheap. È che essere sé stessi costa per forza uno scarto col mondo, un piccolo attrito costante. Sulla carta invece – ho poi letto le raccolte Le mie poesie non cambieranno il mondo e Vita meravigliosa – Cavalli vive perfettamente, senza scarti, come se le parole la bypassassero, facessero quello strano giro che lei indica in video e uscissero giuste e precise.

Per giorni sono andata in giro per il Lido a dire a chiunque volesse ascoltarmi che non trovavo i film entusiasmanti, però poi ho visto Io capitano; se bisogna dire la verità ho cominciato a piangere all’inizio, quando il protagonista (Seydou Sarr, premio Marcello Mastroianni) dice alla madre: ma no ma’, scherzavo, non parto. Prima di partire per il viaggio, attraverso il deserto verso la Libia e l’Italia. È una storia di formazione che si svolge sul volto del personaggio tanto quanto sulla strada; i dialoghi in Senegal sono l’innocenza, il desiderio, il mondo prima. Quel desiderio che i bianchi ti chiedano l’autografo: ricorda i personaggi rabbiosi di Pajtim Statovci (Le Transizioni, Gli invisibili, Sellerio) ma anche l’eterno io voglioso di rivalsa di Édouard Louis (in Metodo per diventare un altro). The Green Border, di Agnieszka Holland (Premio della giuria) è il film complementare: quest’epica di loro che partono è anche l’epica di noi che non li vogliamo, che attorno all’Unione europea, dalla Finlandia al Mediterraneo, costruiamo muri di qualsiasi materiale e colore politico. Green Border è un film su questo nazismo contemporaneo, il regime in cui alcuni corpi vengono dominati, tenuti fuori, rimpallati al di qua e al di là del filo spinato.

I film deludenti sono quelli che vogliono addomesticare il tormento: il biopic sul compositore Leonard Bernstein (Maestro), un po’ anche quello su Priscilla Presley (Priscilla). Quest’ultimo però esce pur sempre dalla visione geniale di Sofia Coppola, e quindi anche se fosse il suo peggior film, sarebbe un bel film. Stona quando un sistema iper conformista (Maestro è prodotto da Spielberg e distribuito da Netflix) prova a raccontare le vite di personaggi anticonformisti. Coppola invece, che ha le sue ossessioni, è sempre credibile nel raccontare quelle altrui. Non ho visto Poor Things, che ha vinto il Leone d’Oro e uscirà a gennaio, ma ho letto il libro (Povere creature di Alasdair Gray, Safarà). È un libro allucinato (pensate a un Irvine Welsh postgotico, completamente slegato dalla nozione che la droga fa male o che si possa contemplare di scegliere la vita), illustrato dall’autore, metaletterario: uno scienziato resuscita una giovane donna impiantandole il cervello del suo feto non nato. Cosa potrà andare storto.

Raffaella Silvestri (Milano, 1984), scrittrice, ha studiato Filosofia di genere a Helsinki e Filosofia delle scienze sociali a Cambridge. Ha scritto i romanzi «La distanza da Helsinki» (Bompiani, 2014) e «La fragilità delle certezze» (Garzanti, 2017). Ha una newsletter, “Velluto”.