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Andiamo via da qui, per mano insieme

Un padre con il coraggio di cambiare le parole, di cambiare tutto. Perché non basta essere persone perbene, non basta voler bene alle donne. Ci vuole un po’ più di fatica e un po’ meno orgoglio. E padri che dicano: me l’ha insegnato mia figlia

Non avevo mai sentito un uomo, un padre, parlare così. E non avevo mai sentito un uomo, un padre, dire: me l’ha insegnato mia figlia. Una figlia che non c’è più, Giulia Cecchettin, e un’altra figlia, Elena, che si sta piano piano riprendendo dal dolore fisico che il dolore inferto alla vita intera ha provocato. Il tipo di dolore che non può finire, il tipo di dolore che qualche volta potranno riuscire a mettersi accanto, e non continuamente davanti e dentro.

Non avevo mai sentito un uomo con il coraggio di cambiare le parole, di pronunciarne di diverse da quelle con le quali è cresciuto. Gino Cecchettin ha detto: siamo noi uomini che dobbiamo cambiare, dobbiamo cambiare le frasi, le reazioni, i pensieri, dobbiamo cambiare il senso di possesso, dobbiamo cambiare quell’istinto di tirare un ceffone a uno scemo che ci taglia la strada. Ha raccontato che Giulia gli diceva, quando faceva o diceva cose da “maschio alfa”: diventi brutto, papà. Gino Cecchettin mi ha talmente commosso, quella mattina al Salone del Libro, che poi ho cercato un posto dove nascondermi. Gli avevo brevemente stretto la mano, prima, ma avevo preferito tacere. Con lui c’erano Annalisa Cuzzocrea, vicedirettrice della Stampa, e Marco Franzoso, lo scrittore coautore del libro Cara Giulia. Quello che ho imparato da mia figlia (Rizzoli). Fino ad allora mi ero soltanto avvilita per i commenti vergognosi e insultanti sui social, le insinuazioni sulla ricerca di notorietà, ma non c’è modo di fermare il fango, e non so se ci sia modo di trasformarlo in qualcos’altro. Ma Gino Cecchettin quella mattina, in una sala piena e silenziosa, ha dato agli uomini e alle donne una lezione d’amore e di civiltà. Ha parlato, parlando di Giulia, di una ripartenza dei rapporti tra uomini e donne, tra padri e figlie, ha parlato del rigetto di una cultura patriarcale nel modo più sincero e quindi efficace possibile: ha detto che lui, ingegnere cinquantenne, persona gentile, padre amorevole di tre figli, appassionato di moto e di sport, non sapeva proprio che cosa significasse la parola “patriarcato”. Questa violenza degli uomini protratta all’infinito, per rimanere al centro dell’esistenza e mantenere il proprio oggetto di dominio. (A questo punto gli uomini diranno: ma io che c’entro, io lavo i piatti, io non sono geloso, io non farei male a una mosca eccetera eccetera. Vorrei dirvi: non è questo il punto, siete tanto intelligenti, sforzatevi un altro po’). La prima volta che Elena Cecchettin l’ha pronunciata, in casa, Gino ha fatto la cosa più umile e sensata. Non ha scacciato via la parola con un gesto della mano, non ha finto di sapere quel che comunque poteva immaginare, non ha detto: non è vero, ma è andato a prendere il vocabolario Treccani e ha studiato questa parola. E quando Giulia è sparita, lui ha sperato per qualche ora che avesse avuto un incidente. Quando Giulia è sparita, Gino Cecchettin sapeva già che lei si sentiva “in colpa” per quell’ex fidanzato che minacciava il suicidio. Sentirsi in colpa: ci vorrebbe una definizione anche di questo sentimento, delle sue origini, delle sue infinite strumentalizzazioni. Il padre diceva alla figlia le parole sensate del distacco: devi dare un taglio netto, non lasciare che lui ti soffochi così, e la sorella maggiore diceva alla sorella minore: questa è violenza patriarcale. Giulia aveva fiducia nell’intima bontà degli esseri umani, non voleva che suo padre dicesse parolacce, non voleva che si arrabbiasse, gli faceva una carezza sulla testa e il nervosismo scivolava via. Questa bontà, che Gino Cecchettin racconta nel libro, non ha neutralizzato il male. Però adesso questa bontà deflagra e mette gli uomini, o almeno gli uomini che accettano di sentirsi chiamati in causa, di fronte a una scelta.

Gino Cecchettin ha detto che dopo la morte di sua figlia ha avuto davanti due strade: la prima, farla finita.

La seconda: assumersi la responsabilità di due figli (il più piccolo ha appena compiuto diciott’anni, Elena ne ha ventiquattro) che meritano un mondo migliore di quello che ha ucciso Giulia a un passo dalla laurea e da una nuova vita. Lavorare per questo, dedicarsi alle parole degli uomini e alla violenza degli uomini sulle donne. La violenza degli uomini sulle donne non è una questione del femminismo, anche se finora soltanto il femminismo è riuscito a elaborarla, è il problema di una cultura millenaria abituata al comando, che si fonda sull’imitazione e sull’illusione del dominio. Gino Cecchettin non sapeva nemmeno di fare parte di questo mondo eppure, da padre innocente di una vittima innocente, si assume la responsabilità e il compito di contribuire a spezzare questa catena. Parla con gli occhi asciutti di un dolore che non finirà mai, di una stanza vuota, di sogni infranti, di una ragazza che sorrideva con gli occhi e che aveva paura delle cimici. La sala intorno a lui piange, le donne piangono per tutte le donne. Lui non usa parole di odio e non le userà mai. Spezza la catena della violenza.

Gino Cecchettin al suo fianco la figlia Elena, che conosce tutte le parole, che conosce la piramide di violenza di genere che poggia le basi sulle battute idiote, sugli sguardi pesanti, su: come sei noiosa, non si può scherzare con te, su: dove vai vestita così?, su tutti i piccoli soprusi e gli atti di intimidazione che tendono all’assoggettamento e alla paura, e a volte passano attraverso un’accettazione femminile. Però una cosa è chiara: non è colpa nostra. Noi abbiamo camminato tutte le strade, abbiamo guardato per quattromila anni, abbiamo urlato a tutte le porte, abbiamo fatto carezze sulla testa e tirato cazzotti ai muri. Noi, come dice Carla Lonzi, stiamo su un altro piano. Tocca agli uomini come Gino Cecchettin, e speriamo anche a tutti gli altri, farla finita, uscire da lì, sputare fuori la misoginia, liberare i figli e le figlie. Non basta essere persone perbene, non basta voler bene alle donne e considerarle più interessanti degli uomini. Ci vuole un po’ più di fatica e un po’ meno orgoglio, meno suscettibilità, distrazione, privilegio: più visione. Padri che dicano: me l’ha insegnato mia figlia. Uomini che dicano: andiamo via da qui, per mano insieme.