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Attenti, la famiglia tradizionale è esplosa

La società giapponese è soffocata dalla burocrazia e dalla legge dei legami di sangue, ma oggi il gigantesco business del sesso a pagamento convive a fatica con la sacralità del matrimonio. Sotto le luci al neon di Shinjuku, le nuove famiglie cercano un riconoscimento

L’odore di cloro è fortissimo. Se non fosse per la zona in cui sto passando, penserei a una piscina. E invece sono a Kabukicho, universalmente riconosciuta come la zona a luci rosse di Tokyo, nello scintillante quartiere di Shinjuku. Sopra di me campeggia l’insegna del Barubula, il soapland tra i più famosi della zona. Funziona così: si entra, si sceglie una ragazza, si procede nella stanza da bagno dove per poco più di 150 euro ci si lava davvero, si riceve un massaggio, in un procedimento erotico che prevede anche l’happy ending, insomma la soddisfazione sessuale. Il rapporto completo di solito avviene nei love hotel posizionati strategicamente a fianco dei soapland, perché la prostituzione è illegale, ma secondo la legge nipponica tecnicamente “prostituzione” significa pagare per una penetrazione, e quindi in certi locali il sesso orale è consentito. Un tempo Kabukicho era la zona della malavita, il presidio della yakuza giapponese, adesso è un posto popolare per cercare sesso. Soprattutto per gli stranieri.

Uno degli argomenti più discussi tra non giapponesi su certi siti specializzati riguarda il razzismo nei luoghi del sesso. Perché la maggior parte dei soapland, e quasi la totalità dei pinsaro, i cosiddetti “blowjob bar”, vieta l’ingresso ai gaijin, la parola vagamente dispregiativa con cui i giapponesi chiamano tutti i non giapponesi. Di conseguenza, i locali amichevoli con i visitatori stranieri come il Barubula ci tengono a farlo sapere, ma restano una minoranza. Ci sono circa milleduecento soapland sul territorio giapponese, 37 mila love hotel, gli hotel a ore. Per non parlare dei pinsaro, degli host club – quelli in cui si flirta, si negozia sul prezzo, ma l’atto si consuma fuori – e i locali di urisen, giovani uomini che si vendono ad altri uomini. E quindi, facendo due calcoli, la maggior parte di tutto questo business è rivolto ai giapponesi.

Ventimila dollari. È il risarcimento che è stata costretta a pagare Meiko Sano, di 38 anni, alla moglie del suo professore ai tempi dell’università. Lei lo aveva denunciato per averla costretta ad avere una relazione con lui. Ma si era ritrovata denunciata a sua volta, accusata di adulterio. Il professore, Michio Hayashi, di venticinque anni più di lei, era anche il suo supervisore, ma in Giappone non esiste alcuna norma che vieti le relazioni tra docenti e studenti. Non solo. In Giappone non esiste nulla più sacro del vincolo matrimoniale, della famiglia tradizionale confuciana. È il concetto dello ie, il gruppo famigliare, che quando si forma diventa una cosa sola, e nel diritto giapponese è composto da un uomo capofamiglia, che può decidere tutto, anche degli altri componenti subordinati, da una donna e da eventuali figli.

Il Giappone è il regno delle rigide categorie, della burocrazia che si applica a tutti gli aspetti della vita, soprattutto quella famigliare. E non a caso la famiglia imperiale è simbolo supremo di questo standard. In particolare la principessa Aiko, nata nel 2001, unica figlia dell’imperatore Naruhito e di sua moglie, l’imperatrice triste, Masako. Aiko è femmina, e quindi non potrà mai diventare imperatrice. Quando Naruhito morirà, a salire sul Trono del Crisantemo sarà suo cugino, il principe Hisahito, più giovane di lei di cinque anni e primo nella linea di successione perché primo maschio nato dopo la generazione di Naruhito. Sebbene la crisi della famiglia (e della natalità) riguardi anche quella imperiale, di cambiare queste regole ogni tanto se ne parla, ma nessuno si è mai azzardato a prendere davvero l’ipotesi in considerazione. E così, mentre le istituzioni mantengono l’apparenza di un ordine che si trascina stanco per secoli, la società cambia, si evolve, si compone di sfumature.

Akira Nishiyama disegna uno schemino sul mio quaderno: «Ecco, vedi? E’ tutto scritto dentro al sistema Koseki». Il Koseki è il sacro censimento, obbligatorio per i nuclei famigliari con cittadinanza nipponica, che dice che tutti i giapponesi prima o poi nel loro albero genealogico arrivano fino all’imperatore, che prima della guerra aveva natura divina. Tutta questa sacralità del lignaggio ha delle conseguenze concrete: il cognome è uno solo, quello del capofamiglia, cioè dell’uomo, e da anni ci sono gruppi di attivisti che lavorano per cambiare questa regola, inascoltati. Si applica alle coppie di separati, perché i figli possono far parte solo di un Koseki, e quindi l’affido è sempre esclusivo – con la conseguenza che se il tuo ex è europeo, il bambino resta al genitore giapponese, qualche tempo fa la Commissione europea si è mobilitata dopo che un padre francese è stato per tre settimane in sciopero della fame per protestare contro “il rapimento” dei suoi figli, che non vedeva da tre anni. «È tutto scritto dentro al sistema Koseki», mi spiega Akira, che è una rappresentante della Japan Alliance for Lgbt Legislation, abbreviata in J-All. Ci incontriamo in una biblioteca ospitata nel parco di Hiroshima, proprio accanto al luogo in cui i leader del mondo si stanno riunendo per il G7. La J-All partecipa al cosiddetto G7 della società civile, come Gon Matsunaka, direttore del Marriage for all Japan. Sono gentili, ma incazzati. Perché il governo del primo ministro Fumio Kishida, poco prima del G7, per far vedere agli altri leader globali che il Giappone non è l’ultimo paese democratico e industrializzato a non avere alcuna legge e alcuna norma a protezione della comunità Lgbtq+, figuriamoci le unioni civili, ha proposto alla Dieta, il Parlamento nipponico, un testo. «Abbiamo lavorato a lungo per un testo contro le discriminazioni, soprattutto dopo che un funzionario molto vicino a Kishida, Masayoshi Arai, ha detto a febbraio che lui non vorrebbe vivere in un quartiere dove ci sono gay», mi spiega Akira. Arai è stato licenziato, e il governo allora ha tirato fuori una legge «per comprendere la comunità Lgbtq+». Comprendere? Ma che vuol dire? «Il governo dice che la società non è pronta, e quindi vorrebbe iniziare da una legislazione per “capire meglio”», dice Akira. Ma che c’è da capire? «Niente», spiega Gon.

«I dati dicono che il 60 per cento dei giapponesi appoggia il matrimonio egualitario, l’88 per cento dei giapponesi vorrebbe una legge antidiscriminazione». Il giornalista abituato ai processi democratici occidentali direbbe che se la maggioranza è così netta c’è qualcosa che non funziona nel sistema rappresentativo, insomma al momento delle elezioni, del voto.

«Ma sai bene che il sistema politico giapponese è molto diverso dal vostro: io per esempio non ho mai vissuto un referendum in vita mia», mi spiega Gon. E questa lontananza della società dalle istituzioni politiche è dovuta anche al fatto che la famiglia tradizionale, in realtà, è quella difesa dalla maggior parte delle chiese scintoiste, da quelle di ispirazione cristiana come la Chiesa dell’Unificazione: piccole e potenti lobby religiose che promuovono candidati che poi finiscono in Parlamento. Anche dal punto di vista legale i tribunali stanno dando messaggi piuttosto espliciti alla politica. Cinque diversi giudici distrettuali giapponesi sono arrivati a tre conclusioni diverse, dopo le azioni legali intentate dalla comunità Lgbtq+. Due hanno deciso che il divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso è incostituzionale; altre due hanno optato per una sentenza a metà, definendolo “in uno stato di incostituzionalità”, e solo uno lo ha dichiarato costituzionale. E così nel frattempo alcune realtà locali fanno da sole: in 260 municipi e in undici prefetture su 47 c’è un registro di coppie di fatto alternativo al Koseki, che non serve a niente, ma è meglio di niente.

Sul treno proiettile che da Hiroshima mi riporta a Tokyo non incontro neanche un bambino. Due uomini, uno più giovane, uno più anziano, quasi si prendono a pugni per un posto a sedere.

La famiglia tradizionale giapponese è esplosa da un pezzo. Il governo sta facendo di tutto per risolvere la crisi demografica, da anni si concentra sul far fare i figli alle donne e moltiplicare i numeri del Koseki, ma si concentra solo su quello, senza guardare alle sfumature. E soprattutto senza capire cosa c’è dietro alla crisi delle relazioni. Per un uomo giapponese è molto più facile pagare per avere la compagnia di una donna, e l’offerta c’è perché c’è una domanda. Quando il precedente governo di Shinzo Abe ha limitato le ore di straordinari alle aziende, costrette a spegnere le luci degli uffici dopo le 20, l’ha fatto a suo dire per cercare di rendere “più felici” le famiglie giapponesi. Solo che molti uomini hanno iniziato a uscire dal lavoro e a fare altro, anche aspettare in auto davanti casa, piuttosto che affrontare la famiglia all’ora di cena. E se una donna giapponese arriva a pagare anche l’equivalente di cento, centocinquanta euro per farsi corteggiare da ragazzi palestrati negli host club – posti simili ai nostri strip club dove però nessuno si spoglia e l’unico dovere dei dipendenti è “essere gentili” con le clienti – un motivo ci sarà.

Istituzioni e politica, rigide e burocratiche, girano su loro stesse, mentre la società si muove, cerca di divincolarsi, si adatta, si evolve. La tv pubblica manda in onda per ore programmi che sarebbero considerati stereotipati perfino qui da noi (le televendite con le donne casalinghe che vendono creme miracolose per sciogliere la pancia, vi ricorda qualcuno?). E poi però, neanche un anno fa, Amazon ha prodotto una stagione di Modern Love ambientata a Tokyo, sette puntate antologiche tutte dirette da registi giapponesi: nella prima puntata, Nursing My Son, and Some Grievances c’è una mamma che affronta la sua seconda maternità e l’allattamento, e il fatto che la sua compagna sia una donna è un dettaglio di poco conto nella narrazione. Se ne fa riferimento solo una volta, quando l’anziana madre va a dare una mano alla figlia e dice alla coppia: lavorate troppo, sembrate una coppia di uomini!

Se la famiglia tradizionale confuciana è esplosa, sarà anche perché quei rigidi ruoli della tradizione non stanno più addosso a nessuno, né agli uomini né alle donne. Ed è un disagio della società giapponese che si percepisce da vent’anni, che è descritto già nei primi romanzi di Natsuo Kirino. Quando torno a Shinjuku penso sempre a La notte dimenticata dagli angeli (Neri Pozza), un classicone del noir giapponese che però ha dentro tutte le figure e tutta l’oscurità del quartiere di Tokyo dove meglio si vedono, nel giro di una passeggiata, le contraddizioni inspiegabili della società nipponica.

Da Kabukicho, il luogo del sesso a pagamento e del gioco d’azzardo, basta attraversare lo stradone per ritrovarsi a Nicho, cioè Shinjuku Nichome, il quartiere di Shinjuku con la più alta concentrazione di locali Lgbtq+ di Tokyo.

Nella capitale giapponese una delle strategie più utilizzate per scegliere un locale è mettersi in fila. Aspettare silenziosamente e ordinatamente, quasi sempre con un vigile della coda che accoglie i nuovi arrivati annunciando il tempo di attesa e chiedendo pazienza. In una società particolarmente conformista, questa è la garanzia di entrare nel ristorante o nel bar più popolare del momento, ma non sempre significa che l’esperienza corrisponda all’aspettativa: l’altra sera, a Shinjuku, ho aspettato in coda un’ora per entrare da Ichiran, il ristorante di ramen più famoso di Tokyo dove si mangia in un loculo monoposto, si può ordinare un solo piatto (il suo leggendario tonkotsu ramen) e si interagisce con gli chef tramite tavolette “per comunicare senza parlare” (solo quattro opzioni: “mi sto solo allontanando quindi non sparecchiate il mio posto”, “non so come ordinare”, “voglio forchetta e cucchiaio”, e poi, il migliore: “c’è troppo rumore”). Non sono sicura fosse il più buono mai mangiato. Anche al Goldfinger c’è sempre la fila per entrare. Credo sia uno dei motivi del successo del locale di fronte, il Cafè Lavanderia, bar “anticapitalista” spiega l’insegna, pieno di gatti e di foto di Che Guevara appese ai muri, che una volta ospitò un dibattito con Noam Chomsky in persona. Si beve bene e a prezzi contenuti al Cafè Lavanderia, ma se una ragazza è da queste parti probabilmente sta aspettando di entrare al Goldfinger. È il posto dove “Girls meet girls”, spiega l’insegna, a chiarire il significato del nome forse non sufficientemente intuitivo.

Il sabato è la serata in cui l’open bar costa solo 13 euro, ma l’ingresso è consentito solo alle donne. A quelle biologicamente donne. Se hai sulla carta d’identità la M di male il sabato non puoi entrare, anche se ti identifichi nel genere femminile. Qualche anno fa c’è stata una grossa polemica contro il Goldfinger, sull’accessibilità di certi locali anche per le donne trans, o per i gruppi di amici, “ally”, alleati della comunità Lgbtq+, ma la serata per sole donne è stata difesa strenuamente ed è rimasta. E quindi il locale anche oggi è accusato di frequente con il temuto acronimo terf (sta per transexclusionary radical feminist, cioè femminista radicale transescludente) nonostante ci siano diverse serate dedicate alla comunità trans, e bandiere transgender celesti bianche e rosa un po’ ovunque.

La popolarità del bar, dopo le polemiche sull’inclusività, non è diminuita e per una ragione: questo è uno dei rari luoghi dove nessuno si nasconde, e tutti parlano con tutti, ed è un enorme passo avanti della comunità. Ogni sera lo staff si presenta per nome, c’è una piccola biblioteca su temi queer con qualche volume anche in inglese, fanno la Red eye, la birra al pomodoro, tutto è rosa e illuminato con le scritte al neon, tutto è instagrammabile, compresi gli sgabelli brandizzati e i gadget da acquistare. La popolarità è arrivata nel 2016, quando l’attore Elliot Page andò al Goldfinger per un episodio del documentario Gaycation di Vice, ma poi è diventato un luogo simbolico, di sicuro il più famoso anche tra i gaijin, perché ha accorciato l’inaccessibilità di un quartiere fino a poco tempo fa oscuro, segreto, dove i locali si nascondono, hanno insegne difficili da interpretare. L’esatto opposto dell’eterosessualissima zona a luci rosse di Kabukicho, dove tutto è esposto e acceso, immediato, per qualche ragione meno vulnerabile al giudizio morale di un bar dove gay e lesbiche vanno a bere birra al pomodoro.

Eppure qualcosa sta cambiando. Il sistema Koseki, la famiglia tradizionale, la legge dei legami di sangue, l’autorità del “capofamiglia” e il suo ruolo nel mondo: tutto è stato messo definitivamente in discussione in Giappone. L’antico ordine lotta ancora per sopravvivere, ma la struttura sociale giapponese è già esplosa. E in questo interregno di adattamento a una nuova realtà, flessibile e meno burocratica, si trovano degli aspetti grotteschi ma anche altri magnifici, di libertà ed espressione. Nel 2013 uscì un film che fece discutere molto, se ne parlò sui giornali, nei talk show: Father and Son del regista Hirokazu Koreeda (lo stesso di Un affare di famiglia) racconta di due famiglie che scoprono che i loro figli sono stati scambiati alla nascita all’ospedale. I due padri, naturalmente loro e nessun altro, si trovano a dover prendere una decisione: scambiare i bambini, oppure restare con i figli che avevano cresciuto fino ad allora. È sorprendente, perché alla fine a vincere non è né la biologia né la burocrazia. È fiction, certo, ma pure una mezza rivoluzione per un paese come il Giappone.

Giulia Pompili (Roma, 1985), giornalista del Foglio. Ha una newsletter, “Katane”, e ha scritto per Mondadori «Sotto lo stesso cielo» (2021) e «Al cuore dell’Italia» (2022, con Valerio Valentini).