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Attenzione, è fragile

Il cittadino del Terzo millennio non si sente tanto bene, si è rammollito, si dimette, fa causa. Viaggio anti commiserazione nell’appucundrìa e nella Cassazione: non esiste il mobbing, esistono caratteri deboli e caratteri forti. Le cose da sapere prima di ribellarsi

Pensavo meglio. La parola del futuro poteva essere speranza. O sostenibilità, mi sarebbe andata bene perfino amore.

Invece ci è toccata: fragilità. Lotta per i pronomi, lotta per le categorie psicoanemiche. Che brutta fine stiamo facendo, il mutuo soccorso prima della diagnosi dei medici.

I dispacci dai giornali non dicono niente di buono da mesi, gli editoriali culturali sono ormai radiologia dei cervelli, ci fanno una lastra al minuto: il cittadino del Terzo millennio non si sente tanto bene, informatevi.

La prima pietra in fronte arrivò da Lancet, l’accreditata rivista scientifica, già a febbraio 2020. Solennemente dichiarò: nessuno esce da un morbo globale senza un disturbo post traumatico, cari signori. Un protocollo in inglese scientifico ci dava per morti: finirete depressi, inutile opporvi. Siete pronti? Non eravamo pronti, e infatti vennero i giorni di malumore post pandemico.

Così importammo il Languishing dall’America.

Il New York Times annunziò che avevano trovato loro la parola. E si chiamerebbe Languishing, il malanno. Era l’intraducibile senso di vuoto nella testa, vuoto intorno e vuoto sotto i piedi. Ci battezzammo subito tutti all’istante, eravamo così desiderosi di sentirci formalmente inguaiati che quello diventò l’articolo più letto dell’anno:

“Non è burnout, non è depressione. Non sei sfinito, non ti senti senza speranza, eppure sai che non stai funzionando bene. È come se arrancassi tra i giorni, tutti uguali, guardando la vita attraverso un parabrezza opaco e un po’ sporco. Rammollisce la tua motivazione, interrompe la tua capacità di concentrazione, triplica gli sforzi che devi fare ogni giorno per continuare a fare qualsiasi cosa”.

Ma non è che ci volevano gli americani. Appucundrìa, si chiama sotto il Vesuvio. Somiglia a ipocondria ma non c’entra niente, è un’altra cosa. Ora potremmo infilarci nel greco antico, dire che la radice è hypocondrios, il luogo magico sotto il costato da dove irradia questo male sottile che affatica i corpi e ammoscia i cervelli. Ma lasceremo perdere.

Subito dopo il Languishing venne l’èra delle Grandi Dimissioni. Tra i vari adeguamenti allo spirito del tempo, c’è che il vecchio lavoro da un paio di stagioni ci ha scassato le balle.

La gente se ne va, non vuole saperne più, non solo dell’ufficio, pure del capo, di tutto. Lo sfastidio è grande sotto il cielo.

Quello che si vede è una convergenza collettiva a stracciare contratti e lasciare navi che non stavano affondando – addio lavoro, sicurezze, addio accrediti certi alla fine del mese. Il “me ne devo andare” si manifesta come problema fisico, peso al petto, insonnia e lacrime.

Certo, i giorni inversi al lavoro li abbiamo tutti, non sono una novità. Come si fa a capire se è un periodo stanco o se è troppo, mi sto ammalando? Se sono io che devo rinforzare le spalle e smettere di pigolare o il mio lavoro è in effetti troppo infame? Esistono lavori non infami? Di sicuro esistono lavori che stanno invecchiando (il mio è uno). Scrive Baricco:

“Nulla ha più avuto serie possibilità di sopravvivenza se non aveva nel suo Dna il patrimonio genetico dei videogame. Posso addirittura spingermi a fermare, per l’utilità di tutti, i tratti genetici di quella specie destinata a sopravvivere: – un design piacevole capace di generare sod-

disfazioni sensoriali;

–             una struttura riconducibile allo schema elementare problema/soluzione ripetuto più volte;

–             tempi brevi tra qualsiasi problema e la sua soluzione;

–             aumento progressivo delle difficoltà di gioco;

–             inesistenza e inutilità dell’immobilità;

–             apprendimento dato dal gioco e non dallo studio di astratte istruzioni per l’uso;

–             fruibilità immediata, senza preamboli;

–             rassicurante esibizione di un punteggio ogni tot passaggi.

Bon, non mi viene altro: ma ho una notizia importante per voi: a parte rare eccezioni, se state facendo qualcosa che non ha almeno metà di queste caratteristiche state facendo qualcosa che è già morto da tempo. Siete autorizzati a innervosirvi”.

I vecchi lavori iniziano a scocciare. Quelli lenti, ripetitivi, di scrittura e studio diffuso matto e disperatissimo.

Quindi che sono queste Grandi Dimissioni? Si tratta di voler fare quello che sognavi (pure quello diventa una galera, chiedete agli artisti) o è esigenza di ritmi più adatti a noi?

Torniamo sempre là: un lavoro con ritmi calmi, che lasci tempo libero, che non dia preoccupazioni, che divida le responsabilità, senza essere invasi da mail, da whatsapp, dall’ansia delle scadenze, dal capufficio stronzo, da due capufficio stronzi, esiste ancora?

Tutti abbiamo passato quel quarto d’ora. Il momento in cui pensi me ne vado e gli faccio causa. Causa per danno da mobbing. Lo stritolamento in ufficio di cui ora si lamentano tutti, e infatti lo smart working vince. Quando il lavoro non è adatto a te e insopportabile non è mai colpa di qualcosa, è sempre qualcuno, che è insopportabile.

La previsione per il prossimo allarme fragilità non può essere che quella: i maltrattamenti al lavoro, minimi e massimi.

Cosa devi sapere prima di ribellarti, prima di cominciare una causa per mobbing? Che probabilmente non la vincerai. A fare l’avvocato prima si semplifica, poi si diventa brutali. E abbastanza onesti da dire a chiunque si presenti con l’intento di rivendicare l’oppressione sul lavoro due cose. La prima, se è pronto a rischiare di perdere il lavoro, perché è chiaro che dopo la richiesta di danni per mobbing la vita sarà molto più difficile e i capitalisti organizzeranno la cacciata, in un modo o l’altro. Nella lotta tra il debole e il capitalismo vince sempre il capitalismo, senza manco scendere in campo.

La seconda: se è il caso pagare per affrontare un giudizio con poche o nessuna possibilità di farcela. Tradotto: lasci stare, si perde sempre. Un buon avvocato è quello che perlopiù ti manda a casa scoraggiando il tribunale, col mobbing ancora di più.

Perché va così? Perché il fragile non è tutelato dalla legge? È un buco nel codice?

Intanto, primo segnale di scarsa consistenza: la fattispecie mobbing non è tipizzata. Nel senso che non c’è una legge. È di derivazione, ovvero ne parlano le sentenze e non il codice.

Mobbing è una parola che viene dal regno delle bestie. L’etologo austriaco Konrad Lorenz si dedicò alla stronzaggine animale osservando il comportamento di certi volatili in gruppo. Gli uccellacci a un certo punto iniziavano a coalizzarsi contro gli uccellini dello stormo. In particolare erano bersaglio quelli gracilini della banda, senza motivo apparente. Sempre di più e sempre di più. Finché il poverocristo non se la sentiva più di incassare botte nelle penne e se ne andava. Il passero triste doveva diventare passero solitario. La violenza non aveva scopi predatori: l’obiettivo (strano) era cacciarlo via.

La radice latina dice: mobbing da mobile vulgus. Una folla che si muove disordinatamente, obiettivo: atti vandalici. Era un termine spregiativo delle classi più alte per riferirsi ai comportamenti della plebe. Per il diritto del lavoro è lo stesso. Si tratta di condotte sistematiche a scopo isolamento.

Come funziona il mobbing in tribunale? A quando risale?

È una costruzione recente, intanto. Sentenza del tribunale di Torino del 1999. Il caso era quello di una lavoratrice che chiedeva il risarcimento del danno biologico (depressione) per condizioni di lavoro intollerabili e le continue umiliazioni da parte del capo reparto. Era stata costretta a lavorare a una macchina all’interno di un piccolo spazio chiuso tra cassoni, distante dai colleghi. Ecco, è rimasto quasi tutto come nel 1999. A meno che non ti mettano a lavorare solo, in uno stanzino di un metro, senza parlare, senz’acqua e non venga qualcuno a dirti che non sai fare niente urlando ogni cinque minuti e che con questo ti procuri un bel certificato di depressione da esibire, la persecuzione non esiste. Alzati che stai benissimo.

Il mobbing fa progressi minimi nelle sentenze favorevoli e si moltiplicano invece le ipotesi di scuola: c’è lo Straining. Un solo colpo che ti atterra. C’è il Bossing, quando è il diretto superiore che esercita i poteri del contratto con metodi da dittatore.

Questa è la teoria, perché nella pratica ci finisce poco e niente. Sono processi che non stanno in piedi, è il lavoratore a dover provare l’inferno, pure se lo abita.

Cosa serve al giudice per la certezza che l’ambiente in cui lavori è pericoloso e ti stanno avvelenando l’anima?

Tutto questo.

La sentenza n.10037/2015 ha individuato le condizioni della prova per mobbing:

  1. Vessazioni e contrasti devono durare per un congruo periodo di tempo;
  2. Non basta che siano episodi, servono parecchi esempi e reiterate volte;
  3. Deve trattarsi di azioni ostili, esclusione della possibilità di comunicare, isolamento, modifica delle mansioni, distruzione della reputazione, violenze o minacce;
  4. Serve un dislivello, con l’inferiorità manifesta della vittima;
  5. Gli sviluppi devono articolarsi per fasi successive: conflitto mirato, mobbing, sintomi psicosomatici, abusi, aggravamento delle condizioni di salute, esclusione dal mondo del lavoro;
  6. Soprattutto: l’intento persecutorio, ovvero un disegno premeditato per rovinarti.

Disegno premeditato. Pure ad avere Cicerone che ti assiste, come fai? Probatio diabolica, si chiama. Ovvero: provalo, se ti riesce. Non ce le avrai mai tutte queste stelle dalla tua parte, non sarai mai in grado di procurarti tutti quegli elementi insieme.

Certo, questo non è un paese di magistrati insensibili, di recente s’è vista qualche apertura per la tutela di un ecosistema adatto ad anime fragili negli uffici (la sentenza che segue è del 2020), sentite che bel proclama:

“Si registra un momento di rottura rispetto al sistema precedente ‘consacrando, di conseguenza, il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l’agire privato’, in considerazione del fatto che l’attività produttiva – anch’essa oggetto di tutela costituzionale, poiché attiene all’iniziativa economica privata, è subordinata all’utilità sociale che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità. Da ciò consegue che la concezione ‘patrimonialistica’ dell’individuo deve necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute – anche nel luogo nel quale si svolge la propria attività lavorativa”.

Pieno e libero sviluppo della persona. Sicurezza! Libertà! Dignità!

Sì, scritto così il diritto piacerebbe anche a Calvino. Solo che nel diritto c’è un’antilingua nell’antilingua: i princìpi si scontrano col processo, e nel processo servono le carte, e quelle del mobbing sono come i tarocchi. Quindi la legge non mi protegge con forza, se al lavoro mi maltrattano con pressioni e cattiverie? No, non ti protegge granché. Per il lavoratore vige un obbligo taciuto di resistenza ai minimi sindacali.

Come la mettiamo allora con gli anni (questi) della difesa delle fragilità e dello scollamento dal reale, col criterio generale che è quello dell’insegnante di sostegno per tutti, grandi e piccini. Tutelatemi l’ego specialmente se è di burro! – vedi diciottenni che non se la sentono di affrontare lo scritto preparato dai professori alla maturità, ma vedi pure tutto quello che sta succedendo nel regno degli adulti: The Big Quit e ricerca del posto di lavoro sostenibile, bello, che mi fa esprimere le sensibilità e dove tutti ci vogliamo bene in un clima fraterno che fa crescere pure le foglie ai tronchetti della felicità.

Non esiste il mobbing, esistono caratteri deboli e caratteri forti.

Mi rispose così un presidente di Cassazione (era un corso che seguivo per l’esame in magistratura). Che frase di ghiaccio – pensai. Era fermo dove io pensavo si dovesse essere morbidi. Erano parole così laceranti e velenose, così ingiuste, così antiProust.

Dopo dieci anni di cause di lavoro smisi di odiarla, quella frase. Ora le voglio anche bene. Se uno resiste alla recente tendenza di chiamare fascista ogni cosa storta, ci arriva: il pesce grande continuerà a mangiare il pesce piccolo, o almeno a provarci. Il pesce piccolo non avrà sempre alleati a portata di mano. Il pesce piccolo si deve rinforzare, diventare più veloce. Deve correre pure lui.

Non esiste il mobbing, esistono caratteri deboli e caratteri forti. Vuol dire che la cura alle fragilità non può essere sempre la commiserazione operativa. Non solo non serve, ma non è neanche possibile tutte le volte.

Ester Viola (Morbegno, 1978), avvocato e scrittrice. Ha pubblicato per Einaudi “L’amore è eterno finché non risponde” (2016) e “Gli spaiati” (2018). Ha una newsletter, “Ultraviolet”.