Cerca

Bello mondo, tutto pieno di legni storti

Siamo tutti parte di una realtà fatta di cose che non vanno per il verso giusto, di errori piccoli e grandi. L’imperfezione è la nostra capacità di sfuggire alle regole, di esprimere sempre qualcosa di nuovo: di andare oltre. Incorreggibile splendore, stupendi difetti

La perfezione non è di questo mondo, e lo sappiamo bene. Eppure ci proviamo, la desideriamo non come una chimera irraggiungibile ma una meta ragionevole, alla nostra portata. Fa persino parte della quotidianità, la perfezione: un vestito che calza a pennello, una ricetta uscita meglio del solito. È perfetto!

Ma non è così: tutto, in questo mondo, è sempre migliorabile, suscettibile di una correzione, di un tocco che prima mancava. Siamo tutti perfettibili, anzi deperibili: questa è la vera, forse unica cifra della vita. Il fatto che dura poco perché non funziona come dovrebbe, perché nel momento in cui ci si affaccia al mondo è decretata la nostra fine. Che peccato, in fondo. La natura pare un po’ più sofisticata di noi umani: piante capaci di sopravvivere a climi infausti, animaletti dalle straordinarie proprietà mimetiche, rapaci dotati di sistemi di orientamento che i nostri caccia da guerra di ultimissima generazione manco se li sognano. La natura sembra essere stata creata, o essersi creata, con doti di eccellenza: è ammirevole, nel senso che dal basso della nostra umana imperfezione la ammiriamo a bocca aperta. Subito prima di devastare, ma questa è un’altra storia. Che ci si metta di mezzo o meno la mano dell’uomo, neanche la natura è perfetta.

Errori, mancanze, difetti, eccessi: tutto questo e tanto altro fanno parte del mondo, non meno delle sue meraviglie. Lo splendore delle stelle, la mirabolante forma sferica dei pianeti: a ben guardare si tratta sempre solo e soltanto di sassi, più o meno incandescenti. Non uno uguale all’altro, nessun modello da emulare per essere perfetti, cioè non passibili di correzione.

Eppure l’imperfezione sta ancora più su, oltre: è la mano di Dio onnipotente ad avere creato il mondo così, con una certa qual distrazione. Incolpevole, certo. Ma anche innegabile. Tutta la tradizione ebraica, ad esempio, gira intorno a tale paradosso: Dio è perfetto, eppure ha fatto un mondo che perfetto proprio non è. Anzi, racconta, Dio creò infiniti mondi prima di questo qui, tutti fondati su un rigido principio di equità, di giustizia irreprensibile. Ma non si reggevano in piedi, non duravano più di un attimo. Fu solo quando il Signore ebbe l’ingegnosa idea di togliere una misura di rigore – cioè simmetria, geometria perfetta, perfetta corrispondenza – e aggiungerne una di compassione, fu solo allora che questo mondo sgangherato eppure solido poté iniziare la sua, la nostra storia.

Ma che cos’è, questa compassione che in ebraico suona come il plurale maschile di un organo tutto femminile, cioè il ventre, cioè l’utero ricettacolo della vita nascente? È, certo, la pietà, la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di “sentire” l’altro (proprio come una madre sente dentro di sé quell’altro da sé che ha concepito), di condividere il dolore e la gioia. È “commozione”, nel senso più radicale del termine, ma è anche qualche cosa di più, per lo meno in questo momento ancestrale che segna l’inizio, e la tenuta, del mondo. Quando, insomma, Dio fece un mondo in grado di sopravvivere usando la misura dell’eccezione, dell’infrazione alla regola. Dell’imperfezione. Se un mondo in cui tutto è giusto, equo, al proprio posto, non stava in piedi, un mondo un po’ più sgangherato in cui qualcosa non torna, qualcosa è fuori posto, qualcosa viene fuori sbagliata, in fin dei conti funziona.

Ed è proprio così: dall’asse terrestre storto al refuso tipografico che ci permette di risalire la corrente di un testo e ricostruirne la storia, il mondo è pieno di errori, di cose che non sono dritte ed è meglio così. Siamo tutti parte di una realtà fatta di errori grandi e piccoli, cose che non vanno (quasi) mai per il verso giusto, di sbagli fatali e correzioni provvisorie, in attesa di altre forse più precise e calzanti o forse no.

L’imperfezione è la misura giusta per tutti, a ben pensarci. È l’unico strumento che abbiamo per stare al mondo e misurarlo. È la garanzia che il mondo sarà sempre bello perché è vario, perché da che mondo è mondo non esistono due individui perfettamente eguali fra loro. Dai fili d’erba ai sassi al regno animale: siamo tutti diversi l’uno dall’altro, dunque «incompiuti». L’imperfezione è la nostra comune capacità di sfuggire alle regole, esprimere sempre qualcosa di nuovo, stupire e stupirci. Se fossimo perfetti saremmo inevitabilmente tutti eguali, e che noia specchiarci negli altri così, senza sorprese.

Tutto, a questo mondo, dice la stessa cosa e cioè che c’è sempre un margine di miglioramento, che sbagliare è umano e non solo umano. Dal testo sacro alle tre religioni monoteiste occidentali in poi il cammino è costellato di abbagli, di inciampi che sono peccati, di trasgressioni alla regola. Tanto i protagonisti del racconto biblico quanto gli dèi e semidei che raccontano il mondo nella tradizione classica sono persone cariche di imperfezioni, pronte all’errore più o meno consapevole, convinte che si possa ingannare il prossimo e il mondo con la bugia, la trasgressione, l’infrazione alla regola.

Eppure proprio queste sono le loro virtù. Debolezze e obbedienza agli istinti, sotterfugi continui necessari per costruire la propria storia e affermarsi sugli altri: tutto è così drasticamente imperfetto da lasciare qualche perplessità, eppure a ben pensarci non potrebbe essere altrimenti. Giove che risponde solo alla propria libidine, Giacobbe che finge di essere suo fratello maggiore per incassare dal padre cieco quel diritto alla primogenitura indispensabile per passare alla e per fare la storia, il discepolo più amato che tradisce Gesù per una manciata di denari eppure solo così gli permette di rivelarsi… La nostra storia è costellata di errori. Siamo quello che sbagliamo. Noi e i nostri avi e i nostri pronipoti.

L’imperfezione è dunque la cifra più caratteristica e fors’anche l’unica della realtà che ci circonda, e di cui facciamo parte. In fondo la vita non è altro che ricerca dell’errore: lo cerchiamo nel senso che lo pratichiamo, lo riconosciamo e perseveriamo nello sbagliare anche se non nello stesso modo di prima. La nostra sete di curiosità, tutto ciò che ha animato per secoli e millenni il lavorìo della mente e dell’immaginazione, altro non è se non un’indagine in quel che c’è di sbagliato nel mondo, nel prossimo e in noi. E meno male che così va il mondo.

Perché se tutto fosse perfetto, impeccabile, incorreggibile, cioè senza mai nulla da correggere, non esisterebbe nessun punto di domanda, ci sarebbero solo certezze incontrovertibili e ci annoieremmo a morte. Tutti: sassi, piante, animali e noi umani. L’errore è ciò che muove il mondo, che lo crea. L’assenza di Dio è la sede dell’imperfezione: come narra ancora una volta la tradizione ebraica, per creare questo mondo così fallibile Dio dovette ritirarsi dal tutto che era e che occupava con la sua perfezione. Il primo gesto del mondo è una contrazione dell’onnipotenza, un farsi da parte di quella perfezione che era interezza. Dio si fa altro da sé e lascia dello spazio al mondo, ma quello spazio che si crea è necessariamente assenza del divino, cioè della perfezione.

L’errore siamo noi, siamo fatti di sbagli, di incidenti di percorso. Il lapsus freudiano riporta a galla qualcosa di quel territorio misterioso eppure così logico che sono i nostri sbagli e quelli che ci portiamo addosso dentro il nostro Dna. La scienza si fonda sulla ricerca di regole ma per trovare le regole ci vuole l’anomalia, c’è bisogno dell’eccezione. Tutto a questo mondo è imperfetto, cioè suscettibile di cambiamento. Non solo quel «legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo», con cui «non si può costruire nulla di perfettamente dritto», come dice l’aforisma di Kant. E meno male che è così, perché altrimenti sarebbe tutto così monotono, noioso fino alla morte. Perché la nostra stortezza è garanzia che la vita vale sempre di essere vissuta perché sempre sarà capace di stupire, nel bene e nel male. Persino quell’errore madornale che è la mortalità, il fatto che siamo talmente imperfetti da guastarci strada facendo, e guastarci talmente da decomporci, diventare di nuovo quella polvere da cui proveniamo, molecole e atomi spersi nell’infinito (e dunque imperfetto) nulla, in fondo è un errore esistenziale provvidenziale: ci mette al riparo dal tedio insopportabile di una eterna monotonia in cui avremmo già visto e sentito tutto. Così non si sa mai: sappiamo che prima o poi ce ne andremo di qua, da questo mondo imperfetto cui nel nostro piccolo abbiamo contribuito con una serie di sbagli e malintesi, ma ce ne andiamo con un bel punto interrogativo che è la vera salvezza. Che cosa sarà di noi? Che cosa ancora ci aspetta? E ancora: ma esiste davvero la perfezione o è soltanto un’ombra illusoria, un inesistente oggetto del desiderio?

No, la perfezione non è di questo mondo e meno male che è così. Meno male che questo mondo è fatto di refusi, di cose storte che (forse) dovrebbero essere diritte ma in fondo meglio così, meglio specchiarsi in un legno storto che potrebbe essere storto che in migliaia di altre storture diverse da questa, perché se fosse diritto lo sarebbe in un solo, unico modo.

Elena Loewenthal (Torino, 1960) è scrittrice, traduttrice e studiosa di ebraistica. È direttrice del Circolo dei Lettori di Torino. Tra i suoi ultimi libri: «La carezza. Una storia perfetta» (2020), «Libertà vigilata. Perché le donne sono diverse dagli uomini» (2021), entrambi usciti per La Nave di Teseo.