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Bisogna sempre partire dall’amore

La libertà di Milan Kundera (e di Tomàs). “Non firmo una lettera che non ho scritto io”. Il rifiuto del kitsch, cioè della retorica che inneggia al bene e si compiace della propria illiberalità. Quel che L’insostenibile leggerezza dell’essere racconta anche dei nostri anni: trascinati dal fiume delle risposte, e non delle domande

Per capire quanto sia necessario adesso, proprio adesso, leggere o rileggere L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera – soprattutto dopo che l’Economist ha reso epocale la preoccupazione che la sinistra stia diventando graniticamente illiberale – bisogna partire dall’amore (chissà, forse bisogna sempre partire dall’amore).

E precisamente da una frase di Tereza, la compagna di Tomàs, il protagonista. Stanno parlando di un loro amico, e lei dice: “Se non avessi incontrato te, mi sarei certamente innamorata di lui”.

Tomàs e Tereza si amano molto, ma questa frase fa crollare le certezze di Tomàs. Perché una volta che Tomàs lavorava a Zurigo e Tereza l’aveva raggiunto, e poi era dovuta tornare a Praga, dopo cinque giorni senza di lei Tomàs era andato dal direttore a dirgli che tornava a casa anche lui. Si era stretto nelle spalle e aveva risposto al direttore, incredulo: “Es muss sein!”. Così dev’essere! Chiunque abbia letto al tempo in cui uscì in Italia L’insostenibile leggerezza dell’essere (che fu un successo editoriale inaspettato e potente) ricorda questa frase che ricorre nel libro: “Es muss sein!”. È la citazione della frase sulla quale Beethoven scrisse l’ultimo movimento dell’ultimo quartetto.

Tomàs adesso invece sta ripensando alla frase di Tereza mentre lei dorme accanto a lui nel letto. È bellissima, la ama perdutamente, ma adesso sa che le cose non dovevano andare per forza così, come immaginano tutti coloro che si innamorano. Da quando Tereza ha detto che avrebbe potuto anche innamorarsi di un altro, comincia a prendere forma la complessità del pensiero di Tomàs, e prende forma soprattutto la potenza del racconto di Kundera. Perché, appunto, tutto ciò non riguarda solo l’amore – ma nasce dall’amore: Tereza con quella frase rompe la certezza granitica dentro la quale Tomàs sta vivendo come individuo (ma anche, lo vedremo, come membro della collettività) – ed è ovvio che queste certezze le aveva ogni tanto già messe in dubbio, ma se l’amore così doveva essere, allora anche la vita dei suoi amici, dei suoi connazionali, la condizione politica del suo paese così dovevano essere. A quel punto, invece, la frase di Tereza è un masso enorme che cade sulle certezze di Tomàs, e lui “constatò che dalla storia d’amore della sua vita non risuonava nessun ‘Es muss sein!’, bensì un ‘Es könnte auch anders sein’: poteva benissimo essere altrimenti”.

E quindi è costretto a ripercorrere come è nata questa storia d’amore: “Sette anni prima, all’ospedale della città di Tereza era stata scoperta per caso una forma insolita di meningite e il primario dell’ospedale di Tomàs era stato chiamato per un veloce consulto. Il primario, però, aveva per caso la sciatica, non poteva muoversi, e al posto suo all’ospedale di provincia aveva mandato Tomàs. In città c’erano cinque alberghi, ma Tomàs era sceso per caso proprio in quello dove lavorava Tereza. Per caso prima della partenza del treno gli era rimasto un po’ di tempo libero per andare a sedersi al ristorante. Tereza era per caso di servizio e per caso serviva al tavolo di Tomàs. Erano stati dunque necessari sei casi fortuiti per spingere Tomàs verso Tereza, come se lui, da solo, non ne avesse avuto voglia. Era tornato in Boemia a causa di lei. Una decisione così fatale si fondava su un amore così fortuito che non sarebbe esistito affatto se il suo capo sette anni prima non avesse avuto la sciatica. E quella donna, quell’incarnazione della casualità assoluta, era ora distesa accanto a lui e respirava profondamente nel sonno”.

Non doveva essere così. Poteva benissimo essere altrimenti. Ecco cosa gli ha detto Tereza.

Con la consapevolezza di questo dolore, la testa di Tomàs si apre e lui si trasforma in una persona complessa che sa che le cose della vita possono essere tutte fragili e non definitive (sei casi fortuiti per vivere con la donna senza la quale non potrebbe più immaginare di vivere). Ma l’apertura non riguarda solo il protagonista del romanzo, riguarda appunto anche Kundera – riguarda in realtà il mestiere dello scrittore: è come se la caduta di quel masso rivelasse che in quel momento si palesa un grande scrittore, cioè colui che sa guardare il mondo con la possibilità che quello che succede poteva anche essere altrimenti. Con questo bagaglio Tomàs, interpretando il suo autore, affronta la sua vicenda di vita che è una vicenda politica. E il suo autore costruisce le domande possibili per la sua posizione all’interno del mondo dove scrive – e vive. È sempre Tereza che accompagna questo passaggio della scrittura dalla vita privata alla vita pubblica, quando descrive le difficoltà della loro relazione: “Dice tra sé: Fin dall’inizio il loro incontro era fondato su un errore. L’Anna Karenina che lei teneva sotto il braccio era la carta d’identità falsa con la quale aveva ingannato Tomàs. Si erano creati a vicenda un inferno, pur volendosi bene. Il fatto che si volevano bene era la dimostrazione che l’errore non era in loro stessi, nel loro comportamento o nel loro sentimento labile, bensì nella loro incompatibilità, poiché lui era forte e lei debole. Lei era come Dubcek che a metà di una frase faceva una pausa di mezzo minuto, era come la sua patria che balbettava, boccheggiava e non riusciva a parlare”.

Tereza si riferisce al Dubcek appena tornato dal sequestro dei sovietici. E così lega la storia del loro amore alla storia viva della loro patria.

Ed è qui, è da qui, che Tomàs ha a che fare con le due lettere della storia. La prima, gliela sottopone il regime, chiedendogli di firmare una ritrattazione di un articolo che aveva scritto anni prima per una rivista. Se ritratta, potrà riprendere il suo posto di lavoro prestigioso (è diventato primario). Ma Tomàs si rifiuta di firmare quella lettera, con la seguente motivazione: non firmo una lettera che non ho scritto io. Gli stanno dicendo: dev’essere così; lui sta rispondendo: può anche essere altrimenti. Finisce a fare il lavavetri per sopravvivere e un giorno viene chiamato in una casa dove ci sono il redattore di quella rivista, e a sorpresa suo figlio, che aveva abbandonato da piccolo, e che credeva lo odiasse, e invece, per la scelta che ha fatto di non firmare, lo ritiene un eroe. Quei due sono tra coloro che combattono il regime. E lo hanno chiamato per chiedergli di firmare una lettera per la liberazione di prigionieri politici – liberazione che non potrà avvenire, ma che è simbolico pubblicare. E Tomàs si rifiuta di firmare questa lettera, con la stessa motivazione dell’altra volta: non firmo una lettera che non ho scritto io. Gli stanno dicendo: dev’essere così; lui sta rispondendo: può anche essere altrimenti.

Eccolo il ritratto perfetto delle due sinistre illiberali. La prima, quella della dittatura, palese e condannata da tempo; l’altra, quella che ritroviamo al massimo delle sue forze in questi tempi, quella su cui si concentra l’Economist, appunto: quella che sostiene che in nome delle cose giuste possiamo comportarci in qualsiasi modo, anche in maniera identica alla dittatura. E se per lottare in nome della giustizia si usano metodi che impongono la purezza ideologica, che vietano la parola ai nemici e che cancellano gli amici che trasgrediscono, questa differenza con la dittatura non si vede più.

Ed è ovvio che a Kundera interessa poco la prima lettera (quella che fa di Tomàs un eroe), ma gli serve per il racconto della seconda lettera (quella che fa di Tomàs un uomo libero). Ecco la differenza tra la grandezza di uno scrittore (libero) e la pochezza degli altri (che vorrebbero essere eroici): agli altri scrittori, in questi tempi illiberali, interessa raccontare l’indignato rifiuto della prima lettera – quello su cui siamo tutti d’accordo. È quello che sta succedendo in questi anni e forse da molti anni: gli scrittori si sentono in dovere di parlare, di intervenire per forza su questioni di militanza civile e facendolo in una maniera retorica, prevedibile e che nella sostanza non cambia le cose ma rende questi scrittori luminosi agli occhi di chi li guarda. È, appunto, il kitsch di cui parla Kundera: la prima lacrima di commozione per il mondo è autentica, la seconda – quella che dice: come è bello commuoversi insieme a tutti gli altri – è kitsch. Ecco, la prima lacrima è dei cittadini militanti, consapevoli o ingenui, non importa; la seconda lacrima è quella dello scrittore che si compiace di far parte e allo stesso tempo di raccontare o teorizzare quello che è già evidente (ecco la retorica). E qui è la differenza: Kundera dice che uno scrittore, un intellettuale è qualcuno che invece continua a pensare con la propria testa. Continua a sorvegliare la sostanza. Continua a sorvegliarsi contro la retorica. Non gli importa di stare dalla parte giusta se questa parte giusta è scontata o imposta, e denuncia da un libro di tanto tempo fa quello che adesso è il problema più evidente che abbiamo. Un problema grande perché chi non vuole firmare la lettera scritta da altri su ciò che è giustissimo, rischia grosso – rischia perfino, come sta succedendo da qualche parte nel mondo, la perdita del lavoro. Proprio come accade a Tomàs dentro il regime comunista.

Il problema è che ciò che sta succedendo ora non riguarda più ciò che gli scrittori scrivono, la qualità; ma il grado di impegno e di intervento retorico. E in questo modo le due sinistre illiberali, quella storica e palese (la dittatura), e quella iper democratica – quindi finto democratica e in realtà retorica e rabbiosa allo stesso tempo mentre inneggia al giusto e al bene – si accavallano. E se Kundera descrive la vita negli anni della dittatura, essa si accavalla alla nostra vita di ora: “Se un pittore deve ricevere il permesso di esporre, se un cittadino deve ottenere il visto per andare in vacanza al mare, se un calciatore deve entrare nella nazionale, per prima cosa si devono raccogliere tutti i giudizi e le informazioni su di lui (dalla portinaia, dai colleghi, dalla polizia, dalla cellula di partito, dai sindacati), giudizi che poi vengono addizionati, soppesati e riassunti da particolari funzionari a ciò preposti. Questi giudizi però non hanno mai a che fare con la capacità del cittadino di dipingere, con la sua capacità di giocare a pallone o con la sua salute che necessita di un soggiorno al mare. Hanno a che fare semplicemente con quello che viene chiamato il “profilo politico del cittadino” (ciò che il cittadino dice, ciò che pensa, come si comporta, come partecipa alle riunioni o ai cortei del primo maggio). Dal momento che ogni cosa (la vita di ogni giorno, l’avanzamento nel lavoro, anche le vacanze) dipende da come il cittadino sarà valutato, chiunque (se vuole giocare a pallone nella nazionale, oppure organizzare una mostra o passare le vacanze al mare) deve comportarsi in modo tale da ricevere un giudizio favorevole”.

Tutto questo riunisce quindi in una sola grande illiberalità la rigidità della dittatura con la rigidità delle lotta in nome dei grandi diritti. Così dev’essere!

Tereza, colei che ha rivelato che le cose possono essere altrimenti, la detentrice della liberalità e della fragilità del caso, si ritrova a Parigi in coincidenza di una grande manifestazione di protesta perché è l’anniversario dell’invasione russa. Si infila nel corteo, ma scopre con stupore di non essere capace di gridare gli slogan che urlano gli altri. Lo confida ai suoi amici francesi che le dicono stupefatti: ma allora tu non vuoi lottare contro l’occupazione del tuo paese? “Lei voleva dir loro che dietro il comunismo, dietro il fascismo, dietro tutte le occupazioni e tutte le invasioni si nasconde un male ancora più fondamentale e universale, e che l’immagine di quel male era per lei un corteo di gente che marcia levando il braccio e gridando all’unisono le stesse sillabe. Ma sapeva che non sarebbe riuscita a spiegarglielo”. Tereza, e Kundera con lei, rifiuta il kitsch, rifiuta le cose che devono essere così. Kundera, e Tereza con lui, dice che le cose possono essere altrimenti. E in un’intervista a Philip Roth (altro scrittore delle cose che possono essere altrimenti), dirà: “Un romanzo non afferma niente; un romanzo cerca e pone delle domande. Non so se la mia nazione scomparirà e non so quale dei miei personaggi sia nel giusto. Io invento storie, le metto a confronto l’una con l’altra e in questo modo pongo delle domande”.

Il fiume di retorica che scorre, scontata e irreversibile per molti dei prossimi anni ormai, trascina tutti su quel che bisogna dire a proposito di ciò che accade nel mondo – è il fiume delle risposte, e non delle domande. E da uno scrittore non ci si aspetta più domande (che sono nei libri) ma risposte (che sono nelle dichiarazioni o in pamphlet o tirate indignate). Ed è ovvio che uno scrittore che si immette in questo fiume è difficile che faccia poi un lavoro letterario in contraddizione con lo scorrere di questo fiume; uno scrittore che si immette in questo fiume diventerà (o resterà) uno scrittore mediocre. Il problema, dice Kundera, è che la vita è complicata, scrivere è complicato, la complessità del mondo deriva proprio dalla sua casualità. Il problema è che le cose non devono essere così, come sarebbe molto più facile che fossero. E questo riguarda lo scrittore, il cittadino e anche l’amante.

E si torna all’amore, allora; a come si può continuare ad amare con forza testarda anche colei che non deve essere così, ma poteva essere altrimenti – come si può continuare ad amare con costanza testarda il frutto di un amore che non ci sarebbe stato senza la sciatica di un uomo che non c’entra nulla. Come si può vivere, e amare, senza cercare i motivi, le certezze.

 

Sospendere il giudizio morale

“Sospendere il giudizio morale

non costituisce l’immoralità del romanzo bensì la sua morale.

Una morale che si contrappone

alla inveterata pratica umana che consiste nel giudicare subito e di continuo tutto

e tutti, nel giudicare prima di e senza aver capito.

Dal punto di vista della sapienza

del romanzo, questa fervida disponibilità a giudicare è la più esecrabile sciocchezza, il peggiore di tutti i mali”

Milan Kundera, I testamenti traditi (Adelphi, 1993)

 

Kundera, in un altro romanzo, La lentezza, si spinge oltre: “L’essere amati senza merito è la prova del vero amore. Se una donna mi dice: ti amo perché sei intelligente, perché sei onesto, perché mi fai dei regali, perché non corri dietro alle altre, perché lavi i piatti, ci rimango male; il suo amore mi sembra interessato. Quanto è più bello sentirsi dire: sono pazza di te sebbene tu non sia né intelligente né onesto, sebbene tu sia bugiardo, egoista e mascalzone!”.

Essendo il frutto di sei casualità, l’amore ha bisogno di un pensiero più debole e dubbioso. Ha bisogno di comprendere l’altro, non nelle sue parti luminose ma in quelle più in ombra, più incomprensibili. Da qui si parte per uscire in strada, partecipare alla vita pubblica, senza lasciarsi trascinare dal fiume. Da qui comincia anche il compito complesso di uno scrittore. Però, ciò che per ogni cittadino è una possibilità, per uno scrittore invece è un compito.

Francesco Piccolo (Caserta, 1964), scrittore e sceneggiatore. Ha pubblicato, tra gli altri: «Il desiderio di essere come tutti» (Premio Strega 2014), «L’animale che mi porto dentro» (2018), e la trilogia dei «Momenti trascurabili» (2010, 2015, 2020), tutti editi da Einaudi. Il suo ultimo libro è «La bella confusione» (Einaudi, 2023).