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Cercasi futuro disperatamente

I ragazzi interrotti ucraini non cedono al terrore russo. Questo è il loro momento per superare lo strazio della guerra e costruire il paese che sognavano già nelle proteste al Maidan. Il coraggio di ricominciare più giovani che mai, cantando “Sono un soldato”

Kyiv ha ricominciato a vivere, nella paura di non poterlo più fare per davvero. La capitale ucraina ha i suoi cicli, è sempre l’epicentro di una storia più grande e oggi incarna la volontà ucraina di tornare a costruire quello che la guerra russa ha cancellato, con una domanda insistente, di sottofondo, che si fa tormento: e se tutto dovesse ricominciare come il 24 febbraio? A Kyiv si ritorna a fare ogni cosa, con timidezza si torna anche a ballare. Le serate in discoteca non sono mai piene, ma sono più frequentate quando si organizzano raccolte fondi. Il tempo libero non è tornato davvero libero, si è trasformato in tempo per rifare, progettare, rimettere in piedi, e sono i giovani ucraini a sentire questo compito: ripartire. I nati tra la fine degli anni Ottanta e il Duemila sono abituati a viaggiare, a muoversi, in tanti prima dell’invasione avevano fatto progetti di studio o di lavoro all’estero – di una vita fuori. Ma è arrivata la guerra e il loro destino è stato indefinibilmente legato a quello dell’Ucraina. Chi era fuori, spesso con un lavoro stabile, è tornato anche sapendo che quel ritorno equivaleva a restare sotto le bombe, con i russi a un passo, senza viaggi da progettare, chiuso tra le frontiere: era la rinuncia a un mondo aperto. Il divieto di lasciare il paese per chi ha più di 18 anni riguarda gli uomini e non le donne, ma sono tornati sia i ragazzi sia le ragazze, perché l’Ucraina per loro non è più soltanto una nazione, una scritta sul passaporto: è diventata un progetto. È una gioventù cresciuta in fretta, qualcuno è cresciuto in una notte, sotto i primi missili che in pochi si aspettavano, dopotutto la guerra c’era da otto anni, era nel Donbas, era definita a bassa intensità. Poi è arrivata l’invasione e ha travolto un paese intero, le vite di tutti sono cambiate all’improvviso e continuano a cambiare. L’Ucraina è diventata una nazione di nomadi, perché nessun posto è sicuro, bisogna sempre tenere d’occhio il punto in cui fuggire in caso di bombardamento. A Kyiv c’è voglia di vivere ma non si ha tempo di ballare, si deve costruire, pensare a vincere, a fare progetti, perché quello che sta succedendo finirà e non deve mai più ricapitare. C’è un filo rosso che collega chi nel 2013 iniziò a manifestare contro l’allora presidente filorusso Viktor Yanukovich e chi oggi è tornato per sostenere i soldati: la storia che diventa troppo forte per il corso normale di una vita umana. Gli ucraini sono questo, sono stati costretti a crescere con molta fretta, a pensare al futuro con insistenza, con la responsabilità di rendere l’Ucraina un posto libero. Euromaidan, le proteste che scoppiarono quando Yanukovich decise di sospendere le trattative per un accordo di associazione con l’Unione europea per non scontentare il Cremlino, furono delle proteste giovani. Furono i ragazzi per primi a scendere in piazza, nella piazza delle piazze che poi assunse il nome di Maidan, che appunto vuol dire piazza. Nel Maidan c’è scritta la storia dell’Ucraina dei nostri giorni e a scriverla erano quei ragazzi che della fine dell’Unione sovietica avevano visto poco o nulla, ma che l’Europa l’avevano a un passo, bastava varcare un confine. Che in Europa spesso ci studiavano e ci lavoravano e la loro scelta non era tanto fra Mosca e Bruxelles, ma tra il passato e il futuro. La stessa scelta che i ragazzi continuano a compiere oggi. Nel 2013 i giovani scesero in piazza con le bandiere ucraine e quelle europee, cantavano l’inno di Kyiv come forma di resistenza, pregavano e chiedevano ai Berkut, le forze speciali mandate a reprimere le proteste, di passare dalla loro parte. Tornavano a casa feriti, umiliati, poi qualcuno cominciò a non tornarci più, a casa. La prima vittima della violenza ordinata da Yanukovich fu Serhiy Nihoyan, un ragazzo di origini armene, nato in Ucraina, viveva in un piccolo villaggio fuori dalla città di Dnipropetrovsk ed era andato nella capitale per prendere parte alle proteste. Era diventato un leader della piazza, barba scurissima e occhi luminosi, leggeva i versi del poeta ucraino Taras Shevchenko: “E gloria, cavalieri della libertà, a voi / Dio non vi abbandonerà / Continuate a combattere: siate sicuri di vincere! / Dio vi aiuta nella vostra battaglia / Perché fama e libertà marciano con voi / E la verità è dalla vostra parte”. È la poesia “Il Caucaso” dedicata ai circassi che lottavano per liberarsi dall’oppressione russa. Nihoyan è diventato un simbolo, il primo martire, il primo volto riconoscibile di quella gioventù che aveva rinunciato alla giovinezza e che stava pagando anche con la propria vita.

La guerra ha imposto a tutti gli ucraini delle rinunce, le famiglie sono state mutilate, non c’è nessuno che non sia stato sfregiato dall’invasione. Anche i ragazzi lo sono, da qualsiasi parte dell’Ucraina vengano, si sono arruolati, hanno fabbricato molotov, hanno cercato di portare in salvo le loro famiglie. Hanno rinunciato alla loro giovinezza, se per giovinezza si intende la spensieratezza, sentimento che, nonostante l’ironia ucraina, in guerra non si afferra. Ma se per giovinezza si intende la volontà di progettare, di rimettere in piedi, di nutrire un ideale così profondo da dedicargli la vita, allora non c’è gioventù più giovane di quella ucraina.

Anna Nemtsova, corrispondente da Mosca del Daily Beast e di Newsweek, si fa una domanda: se non fosse stato per la guerra, cosa avrebbero potuto essere questi ragazzi? E se la pone dopo aver ascoltato storie di piani saltati, di voli mai presi, di notti trascorse a guidare per le strade minate e a schivare le bombe con il desiderio di salvare la propria famiglia. Anche Euromaidan fu una storia di rinunce, molti ucraini si assunsero il rischio di manifestare e anche di morire. Con la guerra è successa la stessa cosa, i ragazzi hanno rinunciato alla vita di prima, qualcuno per costrizione qualcuno per scelta, ma lo hanno fatto perché convinti che sono loro che possono cambiare il corso della loro nazione, che sono loro che devono combattere la Russia e il passato. La generazione cosmopolita che sognava di andare all’estero è tornata, la guerra ha fatto scaturire anche un forte sentimento di identità nazionale, pure in chi vedeva l’Ucraina ancora troppo antica, arretrata rispetto ad altri paesi vicini, pure in chi preferiva fare i propri studi in russo o in inglese perché percepiva l’ucraino come una lingua marginale. Ora sentirsi ucraino è il passo per la libertà, è lasciare libero quello che il nemico, i russi, vogliono annientare. A Leopoli, la città a settanta chilometri dal confine con la Polonia che oggi accoglie molti rifugiati che vengono dall’est, sono sorte scuole in cui si insegna a parlare ucraino, perché c’è chi, dopo una vita trascorsa in russo, vuole imparare la prima lingua della sua nazione. In queste scuole insegnano molti ragazzi, soprattutto provenienti dalla parte occidentale del paese, che spesso fanno avanti e indietro dalla Polonia per portare medicine e rifornimenti.

C’è una teoria che circola in ambienti di storici e filosofi secondo cui la storia di Kyiv è quella di una giovinezza interrotta in eterno: la carestia, la guerra, le occupazioni, Chernobyl’, fino ad arrivare a oggi. I nuclei famigliari si sono spaccati spesso, a volte per non ritrovarsi mai. I giovani sono cresciuti alla ricerca del padre e della madre, che a volte, hanno identificato nella loro nazione: è qui il passato e qui deve essere anche il futuro.

Una delle canzoni più famose del gruppo musicale di Kharkiv 5’Nizza – che è un modo gergale di scrivere pjatnica, venerdì in ucraino – si intitola “Sono un soldato”. Oggi si canticchia spesso, soprattutto il suo ritornello: “Sono un soldato / figlio della guerra mai nato / Sono un soldato / Mamma cura le mie ferite / Sono un soldato / Soldato di un paese dimenticato da Dio / Sono un soldato / Ti prego, dimmi di quale romanzo”. La generazione della guerra e quella di Euromaidan lo stanno costruendo, il loro romanzo, che riguarda loro e anche noi: l’invasione ha tolto loro il futuro, ma sono pronti a conquistarne un altro.

Micol Flammini, giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia e Israele. È autrice, con Paola Peduzzi, di EuPorn, che è anche un podcast.