Nelle sofferenze estreme che cosa può dare consolazione? Credere in Dio?
Pensare filosoficamente? Accettare la vita senza limiti né condizioni? Lavorare per un futuro migliore? Contare sulla comprensione di chi verrà dopo di noi? Avere sempre accanto chi ci ama? Trovare conforto e sollievo nelle arti o in semplici diversivi?
La gamma delle consolazioni possibili non è meno varia delle sofferenze. Deve essere per questo che tendo a pensare che forse il libro migliore uscito in Italia in questi ultimi anni sia quello di Michael Ignatieff Sulla consolazione. Trovare conforto nei tempi bui (Vita e Pensiero edizioni, pp. 244, euro 20). L’autore ha avuto il merito e il coraggio di dedicarsi a un tema come i modi di affrontare il dolore, il lutto, la disperazione, la malattia e la prossimità della morte.
Sulla consolazione è un libro di un’intensità quasi insostenibile. Cambia in chi lo legge la percezione di sé e della vita. Ma è anche un libro sulla cultura occidentale, in cui si parla di libri e di esperienze individuali della sofferenza. Rileggendo alcuni testi classici della nostra tradizione, a partire da Giobbe e dai Salmi fino al romanzo La peste di Albert Camus, Ignatieff ritrae Cicerone, San Paolo, Dante, Montaigne, Hume, Marx, Lincoln, Gustav Mahler e alcune testimonianze sulla Shoah e sulla Russia di Stalin. Non si tratta solo di religione e filosofia, di dottrine e di idee, ma di individui, della loro vita e singolarità personale attraverso secoli di storia.
Il suo libro, dice Ignatieff, ha avuto una precisa origine: «Nel marzo 2020 il Covid-19 ci spedì tutti in una serie di lockdown ricorrenti per più di un anno. Nel mondo di internet ci fu una vera esplosione di tentativi di fornire consolazione, di dare un senso ai nostri sentimenti di spaesamento, paura, solitudine e puro dolore (…) Artisti, scrittori, cantanti, musicisti e pensatori cercavano di recare conforto a chi avevano intorno (…) la gente leggeva a voce alta La peste di Camus o il Diario dell’anno della peste di Defoe».
E qualche pagina dopo: «Le perdite gravi ci portano a mettere in dubbio la struttura complessiva della nostra esistenza (…) Le grandi disgrazie ci portano a misurarci con il fatto che il mondo non è giusto (…) La perdita e la sconfitta ci costringono a confrontarci con i nostri limiti».
Senza dubbio sono proprio i nostri limiti personali, culturali e storici la cosa che più comunemente ignoriamo o dimentichiamo. Uno sguardo retrospettivo, ampio come quello che Ignatieff ci propone, costringe a misurare la distanza che oggi ci separa dal nostro lungo passato culturale. È un passato di cui sappiamo ancora qualcosa? In che modo ebraismo, cristianesimo, filosofie morali ascetiche o materialistiche e utopistiche, fanno ancora parte della nostra coscienza e vita mentale? C’è ancora nella nostra attuale cultura qualcosa che conservi una reale continuità con le nostre tradizioni religiose e con le varie forme dell’umanesimo occidentale? Riusciamo davvero a leggere e a capire ancora il libro di Giobbe e il poema di Dante, le filosofie stoica ed epicurea da Marco Aurelio a Montaigne, da illuministi come David Hume a materialisti progressisti come Marx, o moralisti protestanti come Max Weber? Fra i nostri attuali studiosi e docenti universitari quanti intellettuali in senso classico ci sono ancora? Nelle psicoterapie oggi praticate che cosa resta della profondità culturale di Freud e della prima generazione dei suoi seguaci? Un’umanità che vive con il telefono in mano può essere ancora capace di leggere senza interruzioni un classico per un’ora o due? L’atto, l’abitudine e la disciplina della lettura, di cui c’è bisogno per fare esperienza di testi sacri e opere di grandi scrittori, possono ancora contare sulla qualità di attenzione che è necessaria? Lo stesso libro di Ignatieff presuppone l’esistenza di lettori capaci di mettere a rischio il proprio superficiale e provvisorio equilibrio, con tutta la copertura delle banalità di cui si alimenta. Lo spirito che regna nelle nostre attuali istituzioni formative, scuola e università, sembra fatto apposta per neutralizzare l’autenticità morale che possono trasmettere opere classiche che confidavano nel potere consolatorio del pensiero.
Una svolta radicale nel rapporto tra filosofia e vita è avvenuta soprattutto con i saggi di Montaigne e con l’autobiografia del più scettico e antimetafisico degli illuministi, lo scozzese Hume. Sia l’uno che l’altro hanno smesso di credere che la ragione filosofica sia capace di controllare passioni, desideri, impulsi e fantasie. La loro morale rinuncia a quell’autocontrollo eroico e raro trasmesso dall’esempio di Socrate nell’affrontare la pena di morte.
Montaigne constata e confessa di oscillare di continuo, di non “essere” ma di “divenire”.
Hume attacca l’idea secondo cui gli esseri umani possiedono un’anima che possa garantire stabilità e fermezza alla propria “entità” e identità. Per lui non è il pensiero filosofico, né la fede in Dio o la speranza nel futuro a mitigare la sofferenza; è piuttosto il rapporto con gli altri a offrire conforto e consolazione. Doveri e piaceri non ci vengono da ciò che ci trascende, quanto invece dalla consapevolezza di sé, dal senso comune e dagli altri. Non si tratta di dare un senso alla vita, dice Montaigne: «La vita dovrebbe essere un fine in se stessa, uno scopo in se stessa». E Hume disse di voler morire come era vissuto: leggendo, scrivendo e godendo della compagnia dei suoi amici. Le sofferenze, i dolori non possono essere eliminati; ma ci si può distrarre, trovare un “diversivo” e tenere a bada, istante per istante, giorno dopo giorno, le angosce e i pensieri cupi che fanno parte della vita.
Soluzioni buone per tutti e in tutte le circostanze non ce ne sono. Il libro di Ignatieff non cerca regole. Descrive individui, tentativi, fallimenti e successi. Quello che conta è imparare a sopportare ciò che non possiamo evitare. Abbiamo bisogno degli altri per fuggire da noi stessi. I filosofi dovrebbero pensare di più alla propria vita. Senza coscienza autobiografica, la filosofia è accecata dalle sue astrazioni.