Cerca

Che grande regolamento di conti è l’arte

La parabola di Taylor Swift, da reietta a regina del mondo: emarginata al liceo, la musica l’ha salvata. Poi ecco, dopo la fama planetaria, il nuovo nemico: il crudele show business. Ma quando le ferite sono rimarginate, che succede? Saggio romantico sulla fine del romanticismo

Diceva Contini che tutta l’arte di Gadda nasce dal risentimento. Ma non vale anche per altri, per molti?

Perché uno si mette a scrivere l’Inferno se non per popolarlo di nemici da punire con la dannazione perpetua? Si crea anche per vendicarsi. Ora, il pop naturalmente è un universo più amabile della letteratura, e nessuno finisce all’inferno; ma la vita odierna, specie la vita online, specie la vita di un membro dello star system prodigiosamente famoso e fortunato offre infinite occasioni di frizione, scontro, e quindi di risentimento. Nel suo discorso ai laureati della New York University (maggio 2022) Taylor Swift ha raccontato la sua amara esistenza di reietta, ma ha anche spiegato come essere schifata da tutti l’abbia sollecitata a reagire, a crescere:

Non essere invitata alle feste nella mia città natale mi ha fatto sentire irrimediabilmente sola ma, dato che mi sentivo sola, mi sono seduta nella mia stanza e ho scritto le canzoni che mi hanno procurato un biglietto per andarmene da lì. Quando i dirigenti delle case discografiche di Nashville mi dicevano che solo le casalinghe trentacinquenni ascoltano la musica country e che non c’era posto per una tredicenne, mi veniva da piangere mentre tornavo a casa in macchina. Ma poi ho postato le mie canzoni sul mio MySpace, sì MySpace, e ho messaggiato con altri adolescenti come me che amavano la musica country ma non avevano nessuno che cantasse adottando la loro prospettiva […]. Il fatto che il mondo tratti la mia vita sentimentale come uno sport in cui perdo ogni singola partita non è stata una bella cosa, quando uscivo con i ragazzi, intorno ai vent’anni, ma mi ha insegnato a proteggere caparbiamente la mia vita privata. Essere umiliata pubblicamente più e più volte, quand’ero molto giovane, è stato estremamente doloroso, ma mi ha indotta a non dare troppa importanza all’idea di essere sempre socialmente rilevante e sempre amata da tutti.

Se vi sembra di aver già sentito questa storia è perché l’avete già sentita. Ridotto all’osso, senza le sottili articolazioni dei narratologi, è lo schema di ogni racconto di formazione: dall’equilibrio iniziale alla rottura dell’equilibrio, alle peripezie dell’eroe che si trova da solo (la solitudine è importante) davanti a una serie di ostacoli, al ristabilimento di un nuovo e più alto equilibrio.

Prima della fama planetaria, gli ostacoli che TS ha dovuto superare non erano diversi da quelli che tanti di noi hanno incontrato sulla loro strada sotto forma d’interazione sociale, in quella fase della vita in cui tale interazione prende spesso i tratti della frizione, del conflitto (con i compagni di scuola, i membri della squadra, il primo datore di lavoro), con conseguenze che possono anche essere esiziali per le anime più sensibili. Le quali anime sensibili scelgono di solito, appunto, la solitudine, la secessione dal gruppo; e la solitudine può, in casi fortunatissimi, ispirare la creatività, l’arte. Quarta di copertina della biografia di TS scritta da Liv Spencer: «Se la solitudine non mi avesse spinta verso la musica, oggi non sarei arrivata qui. Come una ragazzina emarginata è diventata una pop star mondiale». Solitudine? Emarginazione? In un angolo benedetto della provincia americana più bianca, più viziata, nonché più abbiente? Come sapevano bene i cavalieri erranti, quando all’orizzonte non si vedono ostacoli, uno se li va a cercare, e se non li trova se li inventa.

Quando sembrava che quella fase della vita si fosse chiusa, e il carburante per il risentimento si fosse esaurito, una volta cioè annichilite le compagne di scuola invidiose e i ragazzi insensibili, una volta che il successo, i Grammy, i soldi avevano dissolto i problemi dell’adolescenza, ecco che lo show business si è messo a scaraventarle addosso nuovi mostri. Se il primo decennio del secolo era stato per TS quello dell’ingresso nel mondo, il mondo familiare della scuola e delle infatuazioni e delle feste a cui non si è invitati, negli anni Dieci i nemici cambiano scala: i rumors che rimbalzavano nei corridoi della scuola adesso rimbalzano nel mondo, e a mano a mano che il successo aumenta aumentano anche i dispiaceri, provocati da uno star system crudele che incrudelisce sulle femmine più che sui maschi, e con speciale ferocia sulle femmine che non fanno parte di una band o di una gang, le femmine che si presentano sul palco da sole e incarnano un’idea di femminilità conformista, non oppositiva, il modello riccioli d’oro o Daisy Mae.

Alla cerimonia dei Grammy del settembre 2009 in cui TS viene premiata per il video di You Belong With Me quel tamarro di Kanye West sale sul palco, le strappa il microfono e dice davanti a tutti che quel premio l’avrebbe meritato Beyoncé. Lei, che non ha ancora vent’anni, resta interdetta. Grande indignazione da parte delle persone educate (interviene addirittura il presidente Obama, che definisce West «a jackass»); breve pacificazione, poi West torna a tormentarla. In una canzone dice che «I feel like me and Taylor might still have sex / Why? I made that bitch famous»: ne nasce una sassaiola di sberleffi e insulti in rete, e la polemica si trascina per un decennio, e a un certo punto entra in campo molto spiacevolmente anche la moglie di West, Kim Kardashian.

Poi nel 2019 un socio di Kanye West, proprio lui, Scooter Braun, acquisisce la società discografica che detiene i diritti dei primi sei album di TS, il che significa che chi vuole ottenere le canzoni in licenza deve parlare con Braun, non con TS. Per riprendersi quello che è suo, TS decide di ri-registrare tutti e sei gli album a partire dal primo, aggiungendo alla nuova registrazione l’etichetta «Taylor’s Version» in modo che – come ha spiegato al Late Night di Seth Meyers – «when something says in parenthesis Taylor’s Version next to it, that means I own it, which is exciting». L’idea ha successo, tutti ascoltano i pezzi nella Taylor’s Version, il nome di Scooter Braun viene consegnato alla storia universale dell’infamia, lo star system buono umilia lo star system cattivo, con l’occasione rimpinguando il portafogli già gonfio di TS.

In mezzo a queste due Grandi Battaglie, una per la reputazione e l’altra per i soldi, TS ne affronta altre più ordinarie umane: a parte lo stuolo di fidanzati che vanno e vengono lasciandola inconsolabile, nel 2015 diagnosticano un cancro a sua madre, la madre-elicottero che ha creduto in lei da quand’era infante, l’ha scarrozzata per le strade e i cieli degli Stati Uniti quando le tournée erano ancora a conduzione familiare, l’ha consolata quando i compagni di scuola la trattavano male:

I’m thirteen now
And don’t know how
My friends could be so mean
I come home crying
And you hold me tight
And grab the keys
And we drive and drive
Until we found a town far enough away
And we talk and window shop
’Till I forgotten all their names
(The Best Day)

La madre guarisce ma poi ha una recidiva. Ri-guarisce, si riprende, ora sta bene; per consolarsi, tra l’altro, si compra un alano (sì, un alano: c’è un video un po’ sinistro dell’alano che, in volo sull’aereo privato di TS, infila il suo musone nel vassoio del pranzo); ma questo incontro con la malattia e la morte è come il segno della giovinezza che finisce: passata l’epoca delle canzoni spensierate e stupidine, nei testi di TS entra spesso una nota di malinconia, l’introspezione si guadagna un po’ di spazio, con risultati a volte ottimi a volte ingenuotti («And I hate to make this all about me / but who am I supposed to talk to?», dice in Soon You’ll Get Better, la canzone dedicata alla madre malata – this è la neoplasia della madre).

Ma anche al di là dei singoli eventi traumatici, e al di là anche di quello che dice o canta, negli anni Dieci le riserve di tanti o tantissimi su TS riguardano ciò che lei fa, il suo atteggiamento, la sua persona pubblica: va dai bambini malati negli ospedali per suonargli la chitarra, va a trovare un veterano nonagenario e gli canta Shake It Off, compare a sorpresa alla festa di matrimonio di due fan e gli canta Blank Space, stacca assegni per pagare il debito degli studenti universitari poveri, manda regali agli ammiratori e si videoregistra mentre confeziona i pacchi, li abbraccia a sorpresa mentre loro, intervistati dalla Tv, stanno parlando benissimo di lei, li invita «in una delle sue case» per fargli ascoltare il nuovo album in anteprima, gli serve la merenda, la cena. Insomma, è buona.

O è solo una posa? In rete corre voce che in realtà lei sia una stronza manipolatrice. Anti-Hero, la canzone-manifesto di Midnights, registra queste voci:

Did you hear my covert narcissism I disguise as altruism
Like some kind of congressman?

E il ritornello è un’ironica ammissione di colpa:

It’s me, hi, I’m the problem, it’s me
At tea time, everybody agrees
I’ll stare directly at the sun but never in the mirror
It must be exhausting always rooting for the anti-hero.

E poi, anche se avesse le intenzioni migliori del mondo, è bianca, bionda, alta, ricca, e non pare abbia mai avuto fidanzati neri o ispanici o insomma meno-che-bianchi. Poteva andar bene a fine Novecento, negli anni Dieci in America comincia a essere un problema.

Il risentimento, dicevo. Dato tutto questo, non è strano che in un numero sorprendente di casi che le canzoni di TS nascano per reazione, oppure mirino a un bersaglio, oppure rispondano a qualcuno o qualcosa che l’ha fatta soffrire. TS è troppo perbene per scrivere Positively 4th Street («I wish that for just one time you could stand inside my shoes / You’d know what a drag it is to see you»), ma scrive Karma, che è appunto una canzone sul destino che mette a posto le cose, e premia i buoni e punisce i cattivi.

«Karma’s on your scent like a bounty hunter

/ Karma’s gonna track you down / Step by step from town to town / Sweet like justice»: la teodicea cui accennavo sopra. E nell’ultimo album scrive ThanK You aIMee, che è una canzone a chiave sin dal titolo, perché contiene un trasparente riferimento a Kim Kardashian, la nemica dei suoi vent’anni (lasciar perdere, fottersene, non sembra entrare nello spettro delle possibilità).

D’altra parte, a differenza di Dylan e dei professionisti contemporanei del dissing, TS non reagisce e replica e maltratta soltanto chi le vuole male ma anche chi le voleva bene fino a un attimo prima, e magari ancora gliene vuole, ma poi è precipitato nella capiente famiglia degli ex, perché come si diceva, nonostante l’età ancora verde, TS ha avuto un numero cospicuo di relazioni finite male o malissimo («more than your fair share with break-ups», con le parole di Jonathan Ross) e da questi incidenti sentimentali ha ricavato una serie interminabile di variazioni sul tema: la storia d’amore finita per colpa di un fidanzato, o di un’altra ragazza, o delle malelingue (chi ha letto la poesia dei trovatori ricorderà i pericolosi lauzengiers, o mettimale: sono sempre loro, oggi però muniti di internet), la meditazione sul cuore infranto, il processo al colpevole, il presentimento di rinascita dopo la caduta – tutto questo fascio di motivi sta all’arte di TS come le ninfee stanno a quella di Monet, infinite ripetizioni debolmente variate.

Sfogliando Genius.com, il sito in cui si trovano i testi delle canzoni commentati dagli utenti, uno può divertirsi a rintracciare le cause e l’origine di tutte queste canzoni d’amore scritte contro chi le ha spezzato il cuore. Better Than Revenge «si dice parli dell’attrice Camilla Belle, che ha rubato il cuore di Joe Jonas mentre lui usciva con Taylor»; Dear John è una canzone-lettera indirizzata a «John Mayer, che l’ha illusa quando lei era troppo giovane per difendersi»; All Too Well è una lunga recriminazione contro Jake Gyllenhaal, che l’ha sedotta e abbandonata quando aveva ventun anni. A un certo punto l’autocommiserazione le prende la mano, e in My tears ricochet interpreta la parte di una ragazza che si è suicidata perché l’uomo della sua vita l’ha lasciata. Eccetera eccetera, di recriminazione in recriminazione (Look what you made me do), di livore in livore (Bad Blood). Due canzoni come Mean (in Speak Now) e You’re on your own, kid (in Midnights) nascono, si può dire, all’incrocio tra queste due ossessioni, cioè mettono insieme i due avversari che TS si è scelta per affermare sé stessa: l’ambiente che non la capiva e il ragazzo dei sogni che non ricambiava il suo amore. Mean è una canzone scritta a vent’anni, e si vede:

Someday I’ll be living in a big old city
And all you’re ever gonna be is mean
Someday I’ll be big enough so you can’t hit me
And all you’re ever gonna be is mean

La ventenne TS prevede che lei avrà un travolgente successo, e sarà così; e prevede che vivrà «in una grande antica città», cosa che per un americano è più importante che per un italiano (fuori da Los Angeles, Chicago e New York – dice la vecchia battuta – «you don’t live, you simply exist»: nell’analisi del fenomeno TS non dovrebbe mancare qualche parola su questa sindrome da Rastignac). Di fatto, nel 2014 TS sbarca a New York e nel giro di qualche ora, qualche giorno al massimo, scrive la canzone che diventa l’inno della città negli anni Dieci, Welcome to New York, e più tardi, nel 2019, il piccolo capolavoro intimista che è Cornelia Street (il ragazzo dei sogni, giustamente, è rimasto nel paesino a far la muffa: riaffiora ogni tanto in certe canzoni crepuscolari).

Invece You’re on your own, kid è una canzone molto più matura, ed è perfetta nel suo genere, il genere “storia e significato di un’esistenza”, alla stregua di My Way, però una My Way scritta non alla fine ma alla metà della vita, quando le difficoltà sono state superate e, anziché guardare con rassegnazione al final curtain, ci si guarda alle spalle, alla strada trionfalmente percorsa constatando che tutti i sacrifici fatti sono valsi la pena. Un po’ come Strada facendo di Baglioni, ma più sofferta.

Ora, una delle cose che piacciono, nelle canzoni di TS, è il fatto che vi succedano delle cose, cioè che da un punto d’avvio si arrivi a un punto finale, e che tra i due punti qualcosa cambi, ci sia un progresso nell’azione. Storytelling è un modo sintetico per definire questo arco narrativo. Non è granché, come primo articolo di poetica, soprattutto perché le storie che TS racconta sono quasi sempre storie d’amore, storie che vanno dal bene al male (All too well) o dal male al bene (Wonderland). Di fatto, TS scrive canzoni semplici, dalle quali sono per lo più bandite l’analogia, la vaghezza dei significati, i simboli. Se si prende una qualsiasi canzone di Lana Del Rey o di Regina Spektor si vede non che loro sono più brave nell’uso delle parole ma che la loro bravura ha una caratura diversa, che gli artifici della poesia moderna – magari filtrati dai cantautori anglosassoni – sembra abbiano lasciato delle tracce più cospicue nel loro modo di scrivere e, in armonia con questa lezione, le loro canzoni si allontanino più di quelle di TS dal linguaggio della prosa comunicativa. «È come se chi ascolta stesse leggendo il mio diario», dice nel documentario Miss Americana. E il diario è, giustamente, un referto oggettivo, a basso tasso di figuralità. Dunque poche metafore, e quelle poche semplici; simboli altrettanto semplici, parlanti, come la sciarpa di All Too Well, pegno di fedeltà, o i fiori riarsi di Clean; e semmai una certa propensione al parallelismo, che è la figura retorica più congeniale alla forma-canzone, alla sua struttura scandita in strofe (Epiphany, No Body No Crime, The Last Great American Dynasty).

Ma il fatto è che, se esiste un talento che sa evocare, e sedurre con l’ambiguità delle parole (e certi autori sono maestri in questo tipo di operazione: Dylan, Cohen, Joni Mitchell, Paul Simon, tutta gente che TS giustamente non cita mai come modelli, mentre cita Stevie Nicks), esiste anche un talento che sa esprimere nel modo più chiaro ed efficace idee e sentimenti che tutti prima o poi hanno pensato o provato. Esiste uno strazio dell’ovvio; ma esiste anche un sublime dell’ovvio, e la verità che tutti conosciamo è che per molti, se non per tutti, è un raro piacere incontrare questo genere di sublime in quegli oggetti di consumo quotidiano che sono le canzoni. TS viene dal country, e da lì ha imparato non forse le finezze del linguaggio poetico ma certamente la virtù del narrare.

Ciò premesso, e tornando a You’re on your own, kid. Come molte altre canzoni di TS si articola in tre strofe che corrispondono a tre tempi della sua storia. Prima l’adolescenza nella cittadina di Wyomissing, l’amore non ricambiato:

Summer went away
Still, the yearning stays
I play it cool with the best of them
I wait patiently
He’s gonna notice me
It’s okay, we’re the best of friends
Anyway
I hear it in your voice
You’re smoking with your boys
I touch my phone as if it’s your face
I didn’t choose this town
I dream of getting out
There’s just one who could make me stay
All my days
From sprinkler splashes to fireplace ashes
I waited ages to see you there
I search the party of better bodies
Just to learn that you never cared

Dunque. Innamoramento adolescenziale senza speranza: lui non la ama. Se lui la amasse, lei resterebbe in quella cittadina che non le piace a fare la moglie.

You’re on your own, kid
You always have been
I see the great escape
So long, Daisy May
I picked the petals, he loves me not
Something different bloomed
Writing in my room
I play my songs in the parking lot
I’ll run away
From sprinkler splashes to fireplace ashes
I called a taxi to take me there
I search the party of better bodies
Just to learn that my dreams aren’t rare
You’re on your own, kid
You always have been

Secondo tempo: accettazione, lui non la ama ma lei scopre di avere un talento per le canzoni, trova il coraggio di andarsene. La doppia metafora floreale («I picked the petals, he loves me not. / Something different bloomed / Writing in my room») non è a livello-Shakespeare – che cosa mai lo è? – ma non è per niente sgradevole, e una metafora che definirei adeguata, cioè capace di evocare un fatto o un’emozione in maniera elegante ma senza complicare troppo il discorso, proprio come quella che apre la strofa finale, che potremmo tradurre con “dall’estate all’inverno”, cioè sempre:

From sprinkler splashes to fireplace ashes
I gave my blood, sweat, and tears for this
I hosted parties and starved my body
Like I’d be saved by a perfect kiss
The jokes weren’t funny, I took the money
My friends from home don’t know what to say
I looked around in a blood-soaked gown
And I saw something they can’t take away
’Cause there were pages turned with the bridges burned
Everything you lose is a step you take
So make the friendship bracelets
Take the moment and taste it
You’ve got no reason to be afraid
You’re on your own, kid
Yeah, you can face this
You’re on your own, kid
You always have been

Se n’è andata, vuole provarci, fa i primi soldi, gli amici rimasti a casa non la riconoscono più. Ma adesso che ce l’ha fatta ha capito che bruciarsi i ponti alle spalle è il modo giusto per crescere, e che lasciare indietro gli altri è doloroso ma è giusto: per fortuna quel ragazzo non le ha detto di sì, altrimenti avrebbe consumato la sua vita in provincia, per fortuna ha smesso di credere al potere salvifico di un «perfect kiss», per fortuna ha trovato il coraggio di mollare tutto e firmare un contratto.

C’è una canzone che meglio di questa serva la causa dell’emancipazione e del selfempowerment? Ha rinunciato ai sogni romantici, ha seguito la sua vocazione, ha fatto i soldi. TS si riconosce fragile ma, rara avis, non si compiace della sua fragilità: reagisce, riflette su ciò che ha perduto ma anche su ciò che possiede ancora, e che non può perdere. Dovrebbero cantarla in coro ai raduni femministi (ma in realtà lo fanno: il pubblico dei concerti di TS è composto per buona parte da ragazze giovani che non assomigliano a quelle che andavano in deliquio davanti a Presley, e neppure davanti agli One Direction: in TS vedono anche un modello, e sia per ciò che dice dei maschi sia per come ha agito contro i maschi negli ultimi anni si tratta di un modello che non solo predica ma pratica forza, autonomia. Non posso fare la prova, ma credo che «You’ve got no reason to be afraid», ascoltata a sedici anni, debba fare più effetto di tante dichiarazioni di principio che hanno il difetto di passare per il cervello anziché per lo stomaco).

Però. Come si accorda, questo elogio della vita vissuta pericolosamente, la vita professionale ma ancora di più la vita sentimentale, con l’aspirazione alla stabilità, all’Amore eterno contenuta in canzoni come All Too Well o Lover o Loml o, meglio ancora, in Timeless?

In Timeless, TS entra in un negozio di cianfrusaglie e trova per caso in una scatola delle fotografie scattate tanti anni prima, negli anni Quaranta o Cinquanta. È il più banale degli spunti, e innesca la più banale delle identificazioni. Quelle foto le fanno pensare alla sua relazione col fidanzato lontano; anche lei, grazie a lui, ha conosciuto «the kind of love that you only find once in a lifetime», anche loro due si preparano a vivere insieme tutta la vita, mano nella mano:

Time breaks down your mind and body
Don’t you let it touch your soul
It was like an age-old classic
The first time that you saw me
The story started when you said, «Hello»
In a crowded room a few short years ago
And sometimes there’s no proof, you just know
You’re always gonna be mine
We’re gonna be
I’m gonna love you when our hair is turnin’ gray
We’ll have a cardboard box of photos of the life we’ve made
And you’ll say, «Oh my, we really were timeless».

Che c’entra questo desiderio d’amore per sempre con il libertinismo predicato, non solo per scherzo, in canzoni come Blank Space o Shake it Off o New Romantics? Si vuole la costanza degli affetti o si vuole la libertà? La pace dell’amore realizzato o il brivido dell’avventura, come in You’re On Your Own, Kid? Il paradiso dei maudit o il paradiso dei borghesi? La risposta è: entrambe le cose. La contraddizione non fa che rispecchiare l’incoerenza della giovinezza, quando si sogna di trovare l’anima gemella e metter su famiglia ma, allo stesso tempo, si vorrebbe cambiare partner a ogni festa per essere sempre desiderabili. Sono due forme di escapismo, di fuga dalla realtà o, per stare alla letteratura, due varianti del romance.

Quella che potremmo definire la versione moderna del romance, resa possibile dalla liberazione sessuale, celebra l’abolizione dei vincoli in nome dell’autonomia personale, un’autonomia che è effettiva per i belli e famosi come TS, molto meno ovviamente per il pubblico che si proietta nella sua esistenza. In questa versione libertina della vita sentimentale, infinitamente peggio di avere il cuore spezzato è non avere il cuore spezzato. «Nessuna passione l’aveva mai sfiorato», è la scoperta che John Marcher, il protagonista del racconto di Henry James La bestia nella giungla, fa sul proprio conto quando ormai è troppo tardi per invertire la rotta, e non c’è destino più triste. «Heartbreak is the national anthem / We sing it proudly», dice TS in New Romantics: le pene d’amore fanno disperare, ma è il genere di disperazione che specie da giovani ci si augura di provare, perché sono il sale della vita.

Invece, nella versione classica del romance, la versione di Timeless, l’amore è una passione totalizzante che si accende in gioventù e non si spegne se non con la morte. Non è vero che soltanto gli adolescenti chiedono questo, all’amore: lo chiediamo tutti, solo che, crescendo, impariamo che quasi sempre è una richiesta irrealistica, e accettiamo il compromesso. È l’amara verità che s’impara non attraverso il romance ma attraverso il novel (romanzo): l’amore cambia fisionomia, ci si stanca gli uni degli altri, i sentimenti s’intiepidiscono. Nella prima parte della Felicità coniugale di Tolstoj, Mascia pensa che la passione tra lei e Sergej durerà per sempre: è lo stadio del romance; nella seconda parte Mascia capisce che il tempo e la consuetudine smorzano anche il fuoco più violento, e, se si è molto fortunati, lo trasformano in qualcos’altro: è lo stadio del novel.

La TS teenager scriveva soprattutto romance, com’è normale quando si ha quell’età:

Romeo, take me somewhere we can be alone
I’ll be waiting, all there’s left to do is run
You’ll be the prince and I’ll be the princess
It’s a love story, baby, just say, «Yes».

La ventenne, com’è anche giusto, si è orientata sulla versione moderna del romance: libertinaggio, poliamore, ferite patite e ferite inflitte senza risparmio, anzi con una specie di voluttà. Oggi, passati i trent’anni, anche quella fase avventurosa della vita sembra sul punto di chiudersi, e forse – dopo le storie d’amore tormentatissime con i cantanti e gli altri artisti maledetti – ne è un segno anche il fidanzamento con il solido, badiale Travis Kelce, un uomo sul quale francamente sembra difficile poter scrivere una canzone. Nelle note che accompagnano The Tortured Poets Department TS scrive: «Questo periodo della vita dell’autrice è concluso […]. Non ci sono vendette da fare né conti da regolare una volta che le ferite si sono rimarginate. E pensandoci meglio, un buon numero di esse si è rivelato essere autoinflitto». A un certo punto della vita bisogna soprattutto dimenticare, lasciare andare. La vendetta è futile, schivare il dolore è più che altro un fatto di autodisciplina. È il genere di consapevolezza che si acquisisce appunto con la maturità, la consapevolezza che coincide con la maturità: anche per TS potrebbe essere arrivata l’età del novel.

Claudio Giunta (Torino, 1971) insegna Letteratura italiana all’Università di Trento. Tra i suoi ultimi libri: “Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca” (il Mulino, 2020) e “Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?” (Rizzoli, 2021).