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Cinque chili entro la fine del mese

Svegliarsi alle sei per fare ginnastica, un quintale di trucchi e una camicia larga per nascondere la pancia. Venti grammi di riso. Il corpo che diventa un abisso, i buoni propositi del terrore: aprire la porta sul baratro di una schiena scheletrica. “Eravamo in casa, come tutti”

Quando guarda il numero – e gli capita spesso – Rocco non può fare a meno di chiedersi dove esattamente, dentro quella cifra, stiano Elena e Michela, le sue figlie. Saranno nelle curve sinuose del 3? O nella circolarità infinita dello 0? Gli sembra una scelta difficilissima da fare. Prende un foglio e lo disegna, magari serve. Qualche volta gli piace pensare che invece stiano sulla barra inclinata della percentuale, accanto al 30, e sorride perché si ricorda quando le metteva sullo scivolo, bambine.

Anche se non riesce a visualizzarne la posizione precisa, sa che in quel 30 per cento loro ci sono. Le sue figlie sono diventate un pezzo di statistica, per l’esattezza quella che segna l’incremento dei disturbi alimentari durante la pandemia. Tra le tante cose che il Covid ha lasciato nelle nostre case – scatole di guanti in lattice, lutti, farine ormai piene di camole e ossessioni mai provate – a lui e Isabella, sua moglie, è toccata la Grande Paura. La chiama così perché non sa che altro nome dare a quello che è successo alla sua famiglia (mamma, papà e due gemelle di 14 anni) nell’ultimo anno e mezzo, dal giorno in cui il mondo si è chiuso in casa, e Michela ha scaricato un’app per allenarsi.

Rocco disegna corpi, da anni. Fa l’illustratore e le forme della donna sono il suo soggetto preferito da quando, alla prima lezione di copia dal vero della figura umana, si trovò davanti la morbidezza di una signora che gli ricordava qualcuno, ma non sapeva chi.

Quando sono nate le gemelle ha avuto paura di perdere tutto: il tempo, la creatività, il sonno, gli aerei che prima prendeva spesso. Elena e Michela nei primi due anni della loro vita, in effetti, si sono prese ogni cosa, ma gli hanno restituito in cambio la sorpresa di vedersi capace di essere insieme padre e madre, perché era quello che le bambine esigevano: un genitore a testa, non importava tanto chi, abile in entrambi i ruoli. “Allora si è creato qualcosa, tra me e loro, che non è mai finito. Un filo di parole e intimità che, anche quando sono cresciute non mi ha mai fatto sentire escluso solo perché sono un maschio”, racconta. Con le gemelle, spiega, succede questa strana cosa: che viene da considerarle una coppia. Se una impara a fare qualcosa, subito ti aspetti lo faccia anche l’altra. E se non succede non sai deciderti se è superdotata la prima oppure troppo indietro la seconda. Un’altra strana cosa che capita è che la gente ha sempre bisogno di metterle a confronto, come se la loro unità creasse disagio. Alle domande sceme: chi è la più brava? Chi va meglio a scuola? Chi fa più la nanna? Rocco rispondeva sempre “tutte e due”, anche quando quella risposta non aveva nessun senso. Fin da subito ha cercato di vederle come due persone, le cui esistenze non dovevano per forza emergere per contrappunto. “Le ho conosciute camminando nei boschi. Appena ne sono state capaci, le ho portate con me. Una settimana una, una l’altra, quasi mai insieme. E’ stato in mezzo agli alberi che mi hanno confidato segreti e fatto domande: che cosa si prova a limonare? Ma anche tu, con la mamma, volevi sempre fare sesso, come i maschi di adesso? Sto bene coi capelli piastrati?”. Rocco ha sempre risposto a tutto, a volte con imbarazzo, sempre con onestà. Quando si sono appassionate alla baby influencer che si filmava mentre faceva i compiti o chattava con le amiche, e gli hanno chiesto di accompagnarle al firmacopie, lui ha comprato due di quei libri assurdi e ce le ha portate. Quasi tre ore di coda per arrivare da una ragazzina molto pallida che dispensava la stessa cosa a tutti: un autografo, un abbraccio e un selfie. Senza libro in mano non potevi nemmeno metterti in fila, se ti attardavi nell’abbraccio la manager diceva “va bene, grazie”. “Io, più che dai bambini in coda ero ipnotizzato dai genitori. Pensavo: che coglioni! Senza nerbo, incapaci di dire ai loro figli che quello che stavano celebrando era il nulla cosmico. E’ assurdo ma è stato soltanto poco tempo fa che, ripensandoci, ho realizzato che, in mezzo a quei genitori, c’ero anche io. Magari ero un coglione pure io, magari anche gli altri erano perplessi quanto me. E’ così facile e così sbagliato giudicare un padre, una madre. Anche di noi si potrebbe dire: dove eravate mentre le vostre figlie, due, e tutte e due, scivolavano dentro un’ossessione di perfezione?”.

“Eravamo in casa, come tutti”. Nel silenzio assurdo, nel tempo dilatato, nelle tute sformate. Erano in casa quando sono arrivati la dad, i balconi, le torte. Le torte che però Elena e Michela assaggiavano appena, sbocconcellavano, lasciavano lì, annacquavano con litri di acqua (uno, due, quanti?). Michela all’improvviso sempre con la bottiglia in mano. “Bere fa bene, che non lo sapete? Lo dicono tutti”. Tutti chi? E lei non rispondeva, e allora si capiva che l’aveva letto in qualche post, ascoltato in qualche TikTok. Nei pomeriggi vuoti e identici stavano sempre al cellulare, sempre, si capiva dal silenzio. Michela aveva cominciato a seguire profili di ragazze che si truccavano, si pettinavano, facevano workout. Li cercava, e l’algoritmo gliene proponeva altri, nuovi. Ragazze diverse, ma che sembravano tutte uguali con i leggings in tinta con le unghie, i capelli che non si spettinavano mai, il sudore che sembrava messo lì apposta a far risaltare gli addominali incastrati in quei fianchi piccoli come quelli della Barbie. Tutte perfette da fare paura. Si allenavano in posti assurdi: una terrazza di Dubai, la spiaggia di Miami, Capri, Sankt Moritz. Il silenzio della casa era rotto quasi esclusivamente dai fruscii del corpo di Michela che faceva ginnastica e da qualche respiro affaticato. Mattina e sera, ogni giorno. Dopo pranzo, invece, correva sul tapis roulant che Rocco aveva comprato anni prima, e mai davvero usato. Poi aveva iniziato anche Elena.

“Hanno smesso di fare colazione con noi che mangiavamo di fretta latte e biscotti. Loro volevano cose che a casa nostra non erano mai entrate: l’avocado, lo yogurt greco, le barrette proteiche, i pancakes proteici. La mattina si facevano un uovo, da sole. Michela mangiava a una lentezza estenuante, Elena le andava dietro. Se le immagino nella loro discesa agli inferi vedo Michela davanti ed Elena che la segue, forse non del tutto convinta di quel viaggio, ma solidale con la sorella, come era sempre stato”. Isabella si era accorta quasi subito che ogni gesto delle sue figlie aveva preso una metodicità ossessiva, una ripetitività allarmante. Ne aveva parlato con Rocco e insieme, a tavola, avevano iniziato a chiedere conto degli avanzi nei piatti. Era iniziata così: una specie di rissa continua che si infiammava all’ora dei pasti e rimaneva in stand by il resto del tempo. “Io sentivo, nel cuore, che si era rotto un argine. Ma dicevo a Isabella: è un momento strano per tutti. E a me stesso che quelle erano le mie figlie, le ragazze sveglie, profonde, critiche che avevamo cresciuto parlando di tutto, che nessuna trappola le avrebbe catturate davvero. Mi ripromettevo: magari domani facciamo un bel gioco da tavolo tutti insieme, come una volta. Poi, però, mi inabissavo nelle call, gli zoom, le skype. Con le cuffie in testa non sentivo il silenzio delle stanze, le grida di Isabella: finisci quella carne, non bere, smetti di fare ginnastica. E le risposte: sei paranoica. E’ forse una colpa volere essere sani in questa famiglia?”.

Un giorno Rocco ha aperto la porta della stanza di Michela pensando non ci fosse, e invece lei era lì, nuda, di spalle. Si stava vestendo. Ha detto “scusa” e si è sentito svenire. Lui che aveva visto, immaginato e disegnato un milione di corpi, che si era innamorato della sinuosità e del saper accogliere, di un paio di fianchi, di una clavicola e del dietro del ginocchio, una schiena come quella di sua figlia non l’aveva vista, pensata, mai. “Non c’era più nessuna dolcezza, più nessuna vita: Michela sembrava uno scheletro scolpito nel marmo”. Il giorno dopo un conoscente l’aveva fermato per strada: tutto bene? Michela come sta? L’ho incrociata, quasi non la riconoscevo. Era tornato a casa e gli bruciava tutto: l’orgoglio, le guance.

Quando il mondo si era riaperto almeno un po’, la prima cosa che avevano fatto Elena e Michela era stato comprarsi un quintale di trucchi. E nuove estenuanti routine si erano sommate alle altre. “Abitiamo davanti al loro liceo, ma loro si svegliavano alle sei per fare ginnastica, truccarsi, piastrarsi i capelli. Pensavo fosse per l’ansia della scuola, di essere al meglio per quei compagni di classe che non avevano mai davvero conosciuto se non attraverso lo schermo di un computer e invece facevano lo stesso se dovevano andare a trovare i nonni, un cugino, in cartoleria a prendere un quaderno. Se dicevo loro di sbrigarsi mi rispondevano: sei pazzo? Possiamo incontrare qualcuno. Non uscivano più di casa senza una maschera, di cui il trucco, mi pareva, fosse solo la parte visibile. La cosa per me più inspiegabile è che non c’era nessuna malizia, nessuna intenzione e nessun desiderio dietro quella perfezione. Solo l’istinto a scansare un giudizio feroce che sentivano aleggiare nell’aria”.

Anche la ritrovata socialità doveva obbedire a certe regole: se gli amici andavano a mangiare la pizza loro li raggiungevano dopo, oppure si portavano nella borsa piccoli contenitori con il loro cibo: verdure al vapore, 20 grammi di riso. Nella borsa c’era anche, sempre, una camicia da mettere dopo aver mangiato per nascondere la pancia, che vedevano gonfia dopo il pasto. “Mi hanno spiegato che adesso funziona così: lo fanno tutte”, dice Rocco. “Mi sembrava, ascoltando i loro racconti, che tra ragazze parlassero continuamente di cibo. Come cucinarlo e poi come evitarlo. E di soldi. Ci chiedevano: perché non siamo abbastanza ricchi da poter fare dei viaggi? Dicevano, sicure: noi figli non ne faremo mai. Così tutto quello che guadagneremo lo potremo spendere per noi, frequentare finalmente gente strafiga”.

C’era un quaderno. Rocco l’aveva trovato senza bisogno di frugare da nessuna parte, una delle due l’aveva lasciato in giro, come l’indizio seminato dal ladro che vuole essere scoperto. Sul quaderno c’erano lunghissimi elenchi di cose da fare, la calligrafia dell’una e dell’altra mischiate nelle righe: comprare un libro, vedere una serie tv, perdere sei chili entro i prossimi due mesi, non farsi mettere più i piedi in testa da Simona, essere più gentile con Filippo, allenarsi abbastanza da potersi permettere quel costume di Shein, perdere 5 chili entro la fine di questo mese. “Questo” era sottolineato con furia. “L’ho preso per un grido soffocato, ma che lo stesso non potevo fingere di non aver sentito”. Intanto Michela non aveva più le mestruazioni, Elena solo per un giorno al mese. In una delle risse quotidiane Rocco aveva urlato: ma non vi rendete conto che state male? Michela aveva detto: sì, lo so.

“Le abbiamo portate da una nutrizionista che, con ognuna di loro, ha stabilito un piccolo obiettivo. Per Michela era riavere il ciclo, per Elena normalizzarlo. Lei ci ha consigliato anche un personal trainer, una cosa che io trovavo assurda, e invece aveva ragione: era l’unico modo per interrompere quegli allenamenti quotidiani e selvaggi”. Elena, con questi due supporti, è come se si fosse svegliata di soprassalto, avesse visto il fondo del pozzo e avesse puntato un piede per frenare il loro rotolare. Su quel piede sostiene i suoi pochi chili e quelli pochissimi di sua sorella ogni volta che lei sembra tirare giù, verso il basso.

Da sei mesi a questa parte mangiano con precisione maniacale quello che c’è scritto nei loro programmi alimentari, si allenano quanto stabilito. Nessuna deroga è possibile, solo l’adesione pedissequa alle regole. Che prima trovavano qua e là sui social, adesso nelle indicazioni della nutrizionista e del personal trainer. Hanno cominciato a defolloware un po’ di account, ma il maledetto algoritmo non se ne fa una ragione e continua a riproporre le solite facce, i soliti culi perfetti. Michela parla di body positive, accettazione di sé, rifiuto degli stereotipi, ma Rocco e Isabella sono costantemente in guardia, hanno paura che sia solo una moda che ne ha sostituita un’altra e si interrogano sul perché, nel bene o nel male, ogni discorso debba essere un discorso sul corpo.

Dieci giorni fa a Michela è tornato il ciclo. Si sono tutti abbracciati e hanno pianto in mezzo alla cucina. Rocco poi le ha scritto su whatsapp: sono fiero di te. Lei gli ha risposto: non ci sarei riuscita senza di voi.

L’aria di casa ha cambiato colore, ma di poco: “da nera a grigia”, dice lui. Sanno tutti che non è davvero finita. Lo ricorda la forchetta che cincischia all’infinito nel piatto pieno e il silenzio elettrico di quando si mettono le scarpe da ginnastica e dicono che vanno a camminare e invece forse correranno, chi lo sa.

Dice Rocco che sentirà che è finita quando arriverà qualcosa che cambierà i discorsi, quando le vedrà sgarrare sul numero di fusilli, quando arriverà qualcuno e si innamoreranno. “Quando saranno capaci di sterzare anche se la vita sembra un binario”. Sarà finita quando, forse camminando nel bosco e per una volta tutti insieme, avranno il coraggio di guardare indietro e la forza di trovare parole precise per raccontarsi il viaggio che hanno fatto. Si dice che dare nomi alle cose serva a renderle reali, ma io credo possa avere anche il potere opposto, quello di farle scomparire.

Silvia Nucini (Milano, 1969), giornalista, scrittrice e autrice. Cura “Voce ai libri” (Chora), podcast settimanale di interviste a scrittori e scrittrici.