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Cosa ci facciamo ora qui, con questo fucile in mano

Reginald Dwayne Betts è un poeta americano che viene dalla prigione. Serhiy Zhadan è un poeta ucraino che si è ritrovato in mezzo alla guerra. Non si conoscono ma insieme cercano di trovare le parole per quel qualcosa in più oltre la sopravvivenza: niente più illusioni, ma giardini, e una donna incinta sulla strada di notte

Ho conosciuto Reginald Dwayne Betts nella primavera del 2017. Ho iniziato a leggere le sue poesie, il libro in cui racconta come è diventato poeta in carcere, e i suoi saggi che spiegano cosa vuol dire, per un criminale, diventare un avvocato, un esperto di diritto e un attivista che ha portato la letteratura tra i detenuti.

Un paio di anni dopo, quando il poeta e scrittore ucraino Serhiy Zhadan (autore di Il convitto, La strada per il Donbas e What we live for, what we die for) mi ha scritto che aveva in programma di venire a New York, mi è venuto spontaneo organizzare una conversazione pubblica tra Serhiy e Dwayne. Nessuno dei due aveva esperienza diretta del mondo dell’altro e non avevano una lingua comune, eppure percepivo chiaramente che condividevano la stessa sensibilità – un’affinità che non si può spiegare a parole. Sono entrambi cantori straordinari dei luoghi difficili da cui provengono; entrambi scrivono di questi luoghi con un amore libero dalle illusioni; ed entrambi hanno indagato il concetto di mascolinità e il rapporto che essa ha con la violenza.

Nel 2019 ho quindi proposto a Dwayne e Serhiy l’idea di questa conversazione. Poi è arrivato il Covid, le frontiere sono state chiuse, Serhiy è rimasto a Kharkiv e il Cremlino ha invaso il suo paese, l’Ucraina. A marzo del 2022 ha scritto: “Cari europei, non illudetevi: questo non è un conflitto locale che finirà domani. Questa è la Terza guerra mondiale”.

Mentre Kharkiv veniva bombardata, Dwayne mi ha scritto e mi ha chiesto di Serhiy. Pensava all’Ucraina e leggeva le poesie di Serhiy tradotte in inglese. Ho  chiesto a Dwayne di prendere in considerazione l’idea di scrivere lui stesso a Serhiy, anche se non si erano mai incontrati.

Dwayne ha preso la proposta molto seriamente. Ha scritto una lettera, Yevhenii Monastyrskyi l’ha tradotta in ucraino, Serhiy ha risposto nella sua lingua e Reilly Costigan-Humes e Isaac Stackhouse Wheeler hanno tradotto la lettera in inglese. Le associazioni di scrittori PEN America e PEN Ucraina, in cui entrambi i poeti sono attivi, hanno contribuito a facilitare la pubblicazione di questa corrispondenza.

Marci Shore

Caro Serhiy,

ho sparato il mio primo colpo di pistola anni dopo che i miei capelli hanno iniziato a diventare grigi; decenni dopo essere finito in carcere per la prima volta; decenni dopo aver lasciato la prigione. Dopo la nascita di entrambi i miei figli. Dopo essermi trasferito decine di volte, ogni volta un po’ più lontano dalla prigione, ogni volta abbastanza lontano da ricordarmi che abbastanza lontano non esiste. Ma cosa posso saperne io della guerra? Perfino in questi giorni, in cui sto capendo cosa significa ossessionarsi con ricordi che la mia testa s’inventa e con una versione della storia che la mia sanità mentale non riesce a ignorare.

Ho sborsato parecchi soldi per entrare in una struttura nell’unico posto in questo paese che mi permette di prendere in mano una pistola. E ho sparato per un’ora a dei bersagli di carta. Quanto rumore intorno a me. Ma perché ti sto scrivendo questa lettera? Mi è capitato di scrivere la parola “proiettile”, ma intendevo “credere”. Un lapsus involontario, forse un modo per dire che i proiettili minacciano sempre la possibilità di credere? Per ammettere che ci sono molti modi con cui i proiettili sono sempre stati la minaccia che ci ha consentito di darci lo spazio utile a distruggere tutto ciò che potremmo amare? I proiettili pesano poco, anche quelli che mi hanno fatto saltare via la pistola dalle mani. Sono stato in prigione per più di otto anni e non avevo mai sparato un colpo. Lo scrivo come se fosse un dettaglio importante rispetto a quello che ci meritiamo. Ma cos’è che si merita ognuno di noi? Quando ho finalmente tenuto in mano un proiettile, è stato nell’ombra del 4 luglio, e avevo già provato a scrivere questa lettera decine di volte.

Il poligono era la quotidianità, un’espressione che sinceramente non mi è mai capitato di usare in una frase. Mi sembra insopportabile e forzata, la quotidianità. A meno che non sia vera. In prigione, la sofferenza era la quotidianità. Le persone che ti dicevano che erano state condannate a trenta o quarant’anni erano la quotidianità. E non si parlava molto di giustizia. Al poligono, il testosterone era la quotidianità. Il botto assordante degli spari. E io non mi sentivo pericoloso. Nemmeno con il calcio di un fucile d’assalto ben stretto tra le braccia. Ed è inutile dire che un poligono di tiro non è un campo di battaglia, nonostante quello che gli uomini attorno a me si urlavano l’un l’altro.

Questa lettera vuole essere troppe cose per una sola lettera. Scrivo a te come la mia famiglia scriveva a me quando ero in prigione. Cercando di capire cosa dire per riconoscere l’elefante nella stanza e affrontarlo. Qui, dall’altra parte, aspettiamo notizie dall’Ucraina. E discutiamo su tutto. Su chi ha il diritto di prendersi a cuore la cosa, le forme che può prendere l’avere a cuore qualcosa. Su cosa è la razza in Ucraina. Questo in particolare lo trovo assurdo, perché molti di noi non sono in grado di indicare l’Ucraina su una mappa più di quanto un ucraino sappia dire dove sta Suitland, il posto da dove vengo io, e la cosa più importante dovrebbe essere come ci relazioniamo al colore della pelle delle altre persone.

Vorrei dirti: ti ho raccontato di questa storia? – ma so che non l’ho fatto. Siamo amici nel modo in cui lo sono tutti gli sconosciuti, in attesa di un’occasione per rendere una coincidenza un ricordo che entrambi conserviamo. Ma quello che voglio dirti è che una volta ho letto le tue poesie ad alcuni amici e loro hanno pensato che fossero mie. Li ho subito corretti – non che io non sia uno che si tiene stretta la bellezza degli altri come se fosse la sua. Ma ho detto loro che le parole erano tue perché volevo che ti conoscessero. Viviamo ben in uno strano mondo per credere che le parole che liberiamo da una pagina possano rivelare noi stessi agli altri. E ho pensato: “Cavolo, hanno sentito me in queste canzoni sulla possibilità che scrivi tu”.

Forse dovrei raccontarti un altro dettaglio della mia giornata con quelle armi, il fucile a pompa e l’AR-15. Un ragazzino che aveva ucciso altri ragazzini in una sparatoria dentro a una scuola veniva condannato per quello che aveva fatto con un AR-15 proprio il pomeriggio in cui ne ho preso uno in mano per la prima volta. Troppe volte mi sono trovato in un posto dove la storia diceva che non dovevo stare, ecco cosa intendo.

Hai mai ascoltato o letto Frederick Douglass e il suo discorso Che cos’è il 4 luglio per uno schiavo? Douglass chiede:

Concittadini, perdonatemi, permettetemi di chiedere: perché sono stato chiamato a parlare qui oggi? Cosa c’entro io, o quelli che rappresento, con l’indipendenza della vostra nazione? Quei grandi princìpi di libertà politica e di giustizia naturale espressi nella Dichiarazione di Indipendenza riguardano forse anche noi? E di conseguenza, sono forse chiamato a portare la nostra umile offerta davanti all’altare nazionale, e a confessare i privilegi e a esprimere la profonda gratitudine per tutta la fortuna di cui godiamo grazie alla vostra indipendenza?

Sto divagando. Sto scrivendo a un poeta dall’altra parte del mondo, nel bel mezzo di una guerra per difendere il suo paese. Cosa devo dire? Ci sono poche cose che rallentano la penna più della guerra. E forse sono poche le cose che più ispirano le persone a raccontare. A volte gli eventi di un giorno cambiano tutto, sai.

Quando hanno pensato che le tue parole appartenessero a me, anche se li avevo corretti, ne ero felice. Le ho ascoltate e ho pensato a te. È così che diventiamo storia? Che le nostre parole o vite finiscono per assumere un significato anche a molti chilometri di distanza dalla terra che abbiamo abitato?

La gente dice: “Dwayne, se solo avessi la tua storia, sarei un vero poeta”. E quando queste persone hanno preso i tuoi versi per miei, ho pensato: “Cosa farei se fossi io sotto assedio?”.

Non scrivi una lettera a qualcuno e metti in discussione perché il mondo è così com’è. Questo è ciò che sto imparando scrivendo questa lettera. L’abitudine che ho di riportare tutto su di me mi fa chiedere cosa volesse dire la mia famiglia nei momenti in cui tutto quel che riusciva a pensare della prigione era tragico. Io ho un giardino e so che i giardini sono privi di significato, eppure mi viene da fare una di quelle domande irrazionali sui fiori e sul vino e su una donna che noti in una strada di notte, che è incinta, inaspettatamente, come se lei più di chiunque altro sappia che, per quanto male possano andare le cose, la gente ha il diritto a qualcosa di più che sopravvivere e basta.

E qui si crea una tensione, però. La mia guerra è la cella di una prigione in una città americana. E la tua. Beh, lo sai meglio di me. Eppure pare che ci sia questa cosa che condividiamo. Sono cresciuto nella contea di Prince George, nel Maryland, e ho frequentato una scuola elementare chiamata William Beanes, in onore di un medico che fu imprigionato su una nave britannica dopo essere stato accusato ingiustamente di aver spiato la Royal Navy. Francis Scott Key, avvocato e poeta, salì a bordo della nave per negoziare il suo rilascio. Poco tempo dopo, Key scrisse The Star-Spangled Banner (l’inno degli Stati Uniti), che è meglio ascoltarlo, e solo se a cantarlo è Marvin Gaye o Whitney Houston o Jimi Hendrix che geme sulla sua chitarra. Ma il punto è che il poeta è diventato il centro del dare un nome alla sopravvivenza.

Scrivo questa lettera come se avessi qualcosa da dirti, ma la verità è che mi chiedo cosa potresti dire tu a me. Un tempo pensavo che tutti i miei giorni fossero una specie di violenza. La storia mi fa ripensare alle difficoltà che immaginavo di conoscere. È questo che fa la storia, però: ci sfida a ricordare quanto tutto avrebbe potuto essere migliore soltanto con un verbo piazzato in una posizione più adatta. Forse no. So solo che questa lettera è un altro tipo di riff su ciò che è possibile. Dobbiamo credere anche che limitarsi a sopravvivere è una possibilità. Ma che le parole contano e che come le cuciture tengono insieme qualsiasi comunità, più dei proiettili o dell’ideologia. E le parole sono sempre meglio con del bourbon. Uno di questi giorni, ci facciamo una bottiglia.

Abbi cura di te,

Reginald Dwayne Betts

17 settembre 2022

 

Caro Dwayne,

grazie per la tua lettera. Leggendola, mi ha colpito come hai parlato delle armi, di qualcosa che è straordinariamente semplice, considerando la storia della nostra cultura, eppure ancora un’esperienza al limite – perché prendi in mano uno strumento per uccidere che è anche, che piaccia o no, uno strumento di difesa, un dispositivo per salvarti. Chi è armato ha una prospettiva completamente diversa: è come se avesse più opportunità (oltre al potere). Procurarsi questa esperienza è facile nel mondo in cui viviamo, la parte difficile è liberarsene.

Mi è anche tornato in mente quando ho preso una pistola in mano per la prima volta. Era il secondo giorno dell’invasione russa. Ero arrivato con degli amici al quartier generale di un’unità di volontari che avevamo aiutato molto, dove prestavano servizio altri nostri amici. 25 febbraio, il cielo grigio e pesante, la fine dell’inverno, l’inizio di un’immensa frattura sanguinosa. Il quartier generale era nel centro di Kharkiv, dentro a un’ex biblioteca. Pile di libri legati insieme con la corda erano ammassati lungo le pareti dei corridoi. I classici non avevano impedito la guerra; non era il tempo, quello, per la lettura. Giovani uomini che si erano uniti all’unità vagavano per le stanze. Per la maggior parte non erano militari di professione e non avevano mai imbracciato un’arma. Ma poi gli avevano dato i fucili d’assalto, loro li avevano presi timidamente in mano, ed era come se avessero attraversato un varco, dal passato a uno spazio diverso, lo spazio della guerra, uno spazio ai confini della morte.

Di armi ce n’erano un sacco; sparse sul pavimento in una stanza adibita, accanto a pile di libri.

“Prendi una pistola”, mi ha detto il comandante dopo averci pensato un momento. “Spero che non dovrai usarla, ma non ti farà male averne una”.

L’ho ringraziato, un po’ impacciato ho preso una pistola sovietica che era appena stata disimballata – era ancora lubrificata – e me la sono messa nello zaino. Mentre me ne andavo, ho raccolto da terra alcune vecchie riviste letterarie: non sono riuscito a non farlo. Un mese dopo il comandante è stato ammazzato mentre le truppe liberavano la periferia di Kharkiv. Guidava l’incursione. È rimasto ferito, ma i suoi commilitoni non sono riusciti a tirarlo via dal campo di battaglia perché erano sotto tiro. Qualche tempo dopo siamo andati tutti in chiesa per salutarlo un’ultima volta. Molti non li vedevo dal primo giorno di guerra. Erano cambiati. Erano cambiati gli occhi, le facce. E stringevano le armi in un modo completamente diverso. Erano come una cosa sola insieme alle armi. Io però la mia pistola non l’ho mai usata.

Ma non voglio star qui a parlarti delle persone armate. Vorrei parlarti di quelli che le armi non ce le hanno, ma che comunque si muovono in una zona di guerra. I civili, quelli che non sono militari, quelli che vivono nelle città lungo le linee del fronte, quelli che si nascondono dai bombardamenti, quelli che cercano di sopravvivere, di salvare le loro vite e quelle dei loro cari – sono di fatto i bersagli più vulnerabili e più in pericolo in qualsiasi guerra. In ogni caso, le persone che imbracciano scientemente le armi stringono un patto del tutto diverso con la vita e la morte rispetto ai civili. Le persone disarmate vedono la guerra in modo del tutto diverso e la vivono in modo del tutto diverso. Noi tutti in Ucraina sosteniamo le nostre truppe perché ci rendiamo conto che sono lo scudo che protegge le città alle spalle dal nemico, da quelli che sono venuti per ucciderci, nel senso più letterale del termine: per ucciderci, annientarci, prendere le nostre vite.

Eppure, identificare le voci delle persone che non sono in grado di proteggersi è sempre stato importante per me. È chiaro che senza queste voci, senza le “voci della povera gente”, come disse una volta Miłosz, non siamo in grado di ascoltare e interpretare il suono della guerra, la sua polifonia sanguinosa eppure così tremendamente veritiera. Dalla fine di febbraio di quest’anno, noi che viviamo in una città sotto le bombe abbiamo imparato a essere più attenti gli uni agli altri, a fidarci degli altri. Mi riferisco ai cittadini di questa città, persone disarmate che però mantengono il diritto di agire e di parlare con la propria voce. Abbiamo imparato a sostenerci a vicenda e a trattare con rispetto le persone che usano le armi, che proteggono il perimetro della città, il perimetro del paese. Dopo tutto, viene fuori che questa divisione in persone armate e non armate può essere significativa, persino fondamentale, ma non è tutto. Comunque ci unisce qualcosa di più grande dei proiettili. Forse è la nostra fiducia comune. E i nostri valori comuni.

Che cosa si muove dentro di noi quando ci bombardano? Cosa ci guida oltre all’odio per il nemico? E l’odio da solo è sufficiente per farcela in questo periodo sanguinoso e per non perdere noi stessi? Non credo. Le persone nelle città lungo le linee del fronte si tengono in equilibrio tra la realtà della guerra e i ricordi della vita prima. È estremamente doloroso: si va continuamente a sbattere contro spigoli vivi e si cade in trappole piene di illusioni. La cosa peggiore, però, è quando non si ha nemmeno la possibilità di dare voce a tutto questo.

Sono completamente d’accordo con te: le parole contano e sono la cucitura di ogni comunità. Inoltre, questa guerra, una guerra che sta lacerando il mio paese da oltre sette mesi, ha dimostrato in modo molto chiaro e convincente che, nonostante tutto il male e la violenza che un essere umano è in grado di infliggere a un altro, nonostante la disperazione e l’oscurità che a volte ostacolano la nostra lucidità, ci è concessa la possibilità di parlare: parlare tra di noi, parlare al mondo, esprimere noi stessi, dare voce al nostro dolore e alla nostra speranza. È un diritto che ci è stato concesso quando siamo nati. C’è una voce completamente separata dentro ognuno di noi; la lingua è come un complesso talismano segreto che ci salva, anche nelle circostanze più amare e difficili.

Come scrittore, sono abituato a fidarmi della lingua. Mi fido anche se mi rendo conto di quanto siano limitate le sue capacità. La lingua, come la poesia, non è in grado di fermare le guerre; tuttavia, definisce il male e l’ingiustizia, e le risorse che ci aiutano di volta in volta a superare le nostre debolezze e la nostra disperazione, a districarci e a offrire le nostre testimonianze e il nostro dissenso. Per me è davvero un grande onore e una grande gioia avere questa opportunità: prendere un impegno con te, e cercare di spiegare, almeno parzialmente, ciò che sta accadendo nei cieli dell’Ucraina, un paese in cui non sei mai stato ma a cui puoi pensare. Sembrerebbe un modo per manifestare il proprio rispetto per la lingua e la letteratura: continuare ad affidarci a questa possibilità di scriversi, una possibilità che è come una chimera, a questa possibilità di sostenersi, di esprimere gratitudine e di fare domande, questa possibilità di chiamarsi per nome, evadendo così dal silenzio e dall’oblio.

Durante questi mesi sanguinosi e privi di gioia, non ho imparato a scrivere della guerra in modo distaccato, dal punto di vista di un reporter, limitandomi a documentare ciò che ho visto e a fornire un resoconto di ciò che ho sentito. A volte la mia voce mi tradisce, o le emozioni mi travolgono. Non sono certo che questa lettera abbia una logica o sia comprensibile. Tuttavia, leggere le tue parole ha significato molto per me: sono state come la testimonianza di un legame particolare, la testimonianza del fatto che il mondo della letteratura, il regno della poesia, è ancora in grado di costruire corridoi di comunicazione e di comprensione. E anche se questi corridoi sono angusti e soffocanti, ci fanno sperare che alla fine raggiungeremo un luogo più sereno. Un luogo dove potremo leggere le poesie degli altri, per esempio. In buona compagnia e con una luce soffusa. E magari davanti a un buon bourbon.

Serhiy Zhadan

7 ottobre 2022

Pubblicato con il titolo “Holding a gun” sulla New York Review of Books del 24 novembre 2022 Copyright ©2022 Reginald Dwayne Betts e Serhiy Zhadan (traduzione di Livia Chiriatti)

Reginald Dwayne Betts (Suitland, Maryland, 1980) è un poeta, avvocato e attivista americano. È il fondatore di Freedom Reads, un’associazione per portare la letteratura in carcere. La sua ultima raccolta di poesie, “Felon: Poems” (W.W. Norton, 2019), è diventata uno spettacolo teatrale.

Serhiy Zhadan (Starobilsk, Luhansk, 1974), poeta, scrittore e compositore ucraino. In italiano possiamo leggere il suo romanzo d’esordio “Depeche mode” (Castelvecchi, 2008 e 2022), “Etiopia” (Eliot, 2019), e, usciti per Voland, la raccolta di poesie “Mesopotamia” (2016), i romanzi “La strada per il Donbas” (2018) e “Il convitto” (2020).