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Cosa resterà di quegli anni ottanta

Gli scaldamuscoli erotici, il gelato con il culo di gomma e l’educazione sentimentale dei Puffi che ha stravolto l’idea dell’amore. Fotografie di un’infanzia misurata dai giocattoli proibiti, “Flashdance” e adesso “Top Gun 2”, il melodramma del tempo che non passa

Caro Francesco,

anni Ottanta, estate al paese, amici e noia, noia e amici. Mi ricordo otto settimane di strade calde, arriviamo in bici nella piazzetta, pallavolo con il supersantos arancione. Verso la fine di luglio tornavano i cugini dalle vacanze al mare. E poi gli amici di città, quelli che vedevi una volta l’anno, per la festa del santo. I forestieri arrivavano con scarpe esotiche, mode nuove ai capelli, racconti fantastici. Roma. Milano. Anche Latina pareva l’America. Avevano uso di mondo, loro. Facevano cose che noi al paese non facevamo mai. Verso il dieci d’agosto il paese cominciava a fibrillare. I negozi avevano la fila.

Arrivavano gli operai a montare l’allumata, i pali e le luci e le bancarelle.

Assaggiavamo la città, noi topolini di campagna, quando c’era la festa del paese. E la città era bellissima, faceva rumore, c’era luce fino all’una di notte. Era viva. Sparivano quelle montagne micidiali – arrivavano pure gli americani, i parenti lontani dei paesani, ad appendere i mille dollari (mille dollari!) sul sughero del trono del santo alla processione. Erano quattro giorni più belli di Natale, l’ultima sera la gara di fuochi d’artificio avrebbe incendiato mezza collina, ma che importava. Era la festa. Che era fatta per durare poco.

All’ultimo botto, la domenica notte, si tornava a casa un po’ malinconici. Sentivi le vecchie del paese sussurrare tutte lo stesso ritornello, la frase che odiavo, chiudevano la stagione con una maledizione: è venuto vierno. È arrivato l’inverno. Quelle prefiche. E una valanga di buio mi crollava addosso, sentivo piovere, sapevo che il giorno successivo avrebbero smontato tutto, allumata e bancarelle, gli amici cittadini se ne sarebbero andati due giorni dopo, pure un poco stufi perché senza la festa, al paese, che ci stai a fare. Luzzano sarebbe tornata scura, vuota, coi pipistrelli e i moscerini vicino ai fari di quei vecchi lampioni bianchi anemici. Restavamo io e il libro delle vacanze. Un’infelicità. Moderata solo da una tregua, dalle quattro alle sei di pomeriggio, cartoni animati, Bim Bum Bam. Che sollievo. Erano le mie due ore di teledipendenza, com’era innocua la teledipendenza di Popper. Dovevamo diventare represse e violente, noi creature degli anni Ottanta. Ora se hai dieci anni negli anni Venti rischi su altri schermi, internet. Depressione, dicono.

Gli anni Ottanta tuoi saranno meglio dei miei, sicuramente. Intanto: con la tua mille lire estiva, gelato Algida o Eldorado?

 

Cara Esther,

sui gelati, periodi diversi in cui si imponevano gelati diversi. Ricordo il periodo del Gran Rico al whisky. Fior di fragola. Croccante alla fragola. Cookie Snack. Cono Palla. Periodi diversi di intransigenza in cui mangiavo un solo gelato finché non mi andava mai più. Il sapore non era nel gelato. Il gelato specifico andava mangiato come idea, come ideale, ma poi se tornavo a mangiarlo tempo dopo, durante la stagione di un altro gelato, scoprivo, credo, che non aveva davvero il sapore che io e i pubblicitari pensavamo avesse. Era un sapore concordato ideologicamente, non era il suo vero sapore. Ricordo vaghissimamente un cono che aveva il culo (mi pare si chiamasse il culo la parte finale) con dentro una gomma da masticare.

Per me non esisteva il romanticismo che mi racconti, l’anelito, il sogno. Per me, prima dell’arrivo degli innamoramenti a fine anni Ottanta (sono nato nel 1977), quel decennio è stato una wunderkammer di consumi. I giocattoli che non potevo avere. Quelli che potevo avere. Un mio compagno di scuola aveva la collezione dei Mask, ma i miei genitori non mi facevano regali se non al compleanno e a Natale. Era troppo poco per costruire collezioni. L’unica che abbozzai fu quella dei Transformer. Lì riuscii a costruire qualcosa. Ma io non ero niente negli anni Ottanta. Non potevo costruire niente. Non potevo andare in giro con gli amici. Al mare frequentavo solo questi quattro bambini che erano figli di persone che frequentavano i miei, cattolicissime, e potevo frequentare soltanto loro. Ogni stimolo esterno, al mare, veniva represso. Se ci stava simpatico qualcuno nel comprensorio, l’anno dopo si cambiava comprensorio. Solo i figli di teologi potevo frequentare. E quindi sono diventato ossessionato dalle cose. Desideravo i giochi del mio compagno, i suoi Mask. A casa sua giocavo a infilare e sfilare questi caschi aumentati che erano il superpotere dei Mask. Ricordo la sensazione di infilarli e sfilarli, il tipo di attrito che facevano. E anche He-Man, Skeletor, quei pupazzi con gli addominali a molla che se gli davi un pugno scattavano e diventavano addominali sfregiati. Non potevo averli. Non ricevevo regali, e poi quelli erano giocattoli della violenza.

Io potevo solo giocare con le macchine dei Transformers, che non avevano un immaginario violento, chissà perché. Pensavo tutto il tempo alle cose, al prezzo delle cose, alle scatole delle cose. Ricordo ancora che quando ho cominciato da grande ad avere dei soldi sono diventato il peggior consumatore del mondo perché mi era rimasta questa brama di comprare cose. Perché non avevo il permesso di frequentare la gente che mi ispirava, che mi piaceva, la gente che si divertiva. Gli anni Ottanta li ho guardati da dietro un muro, da una cattolicissima Berlino est romana senza sentimenti e senza poesia. Raccontami com’era.

 

Caro Francesco,

il gelato col culo esisteva eccome. Il Gommolo. Panna e fragola. Mi sono ricordata di quel pallino di chewing gum rosa e durissimo alla fine del cono.

Il senso di averla proprio sotto i molari, da un certo punto in poi tutto è Superproust, come siamo banali.

Com’era? C’è poco da raccontare, della mia vita in montagna. La tua infanzia era già così adulta. Tra le attività a cui venivi incoraggiata dalle parti mie c’era tutto quello che simulava la vita altrove, cioè in città. Ho frequentato per anni la scuola di danza e c’era Flashdance, così mia cugina di Roma, Eleonora, con molte più opportunità a disposizione per seguire le mode – lei nella sua vita aveva i negozi – mi regalò quegli aggeggi, gli scaldamuscoli. Neri come nel video di Maniac (che decennio per la musica pop immortale, quello degli Ottanta).

L’insegnante di danza, Maria Luisa, non capì. Siccome eravamo un paese di tremila persone ancora di più lei si sentiva professoressa alla Scala, così me li fece togliere. Ma che ti sei messa, via quelle cose. Delusione, addio scaldamuscoli.

All alone, I have cried

Gli anni Ottanta me li ricordo come una grande negazione di divertimenti. E poi ovunque quel giochino a molla morale, in ogni consumo culturale (culturale a dieci anni, vabbè). C’era tanto infelicità-impegno-riscatto.

Prendi La storia infinita, e tutti i cartoni. La trama era identica: personaggio che soffre tanto ma alla fine ce la fa. La parola adatta sarebbe il napoletano spantecare. Spantecare è quando sei avvilito, ma smaniosamente. Fai qualcosa. E dall’altra parte Top Gun. La fighetteria di quegli anni era imbattibile. L’hai visto il 2? Tom Cruise ha la faccia un po’ gonfia di siringhe ma si tiene molto bene, ammettiamolo.

McGillis invece ha declinato pare dicendo: sono vecchia, sono grassa, ma ’ndo vado? È scaduta insomma.

E sono scaduti i diritti. Hanno fatto causa a Paramount. Ma a Paramount non s’erano accorti che era quarant’anni fa?

Vedi? Vogliono far tornare oggetti del 1980 come se non fosse mai passato il tempo. Il tempo invece è passato e il mondo intorno fa delle evoluzioni strane.

Io davvero non ho capito se alcune cose stanno succedendo a titolo di progresso oppure no. Prendi l’inclusione come la stanno costruendo adesso.

Sai quando Ricky Gervais ha detto: “Una donna è una persona senza un pene. Un po’ di tempo fa avreste mai detto che avrebbe offeso qualcuno?”.

A parte non sapere cosa pensarne, non so nemmeno come sentirmi. Gli anni Ottanta non sono mai finiti o è già passato remoto? Tu come ti senti? Con un posto a sedere in prima fila sulla navicella del futuro o già hai il retropensiero “ai miei tempi” ogni volta che apri Twitter o un giornale?

Sei Tom Cruise – ehi, sono passati giusto cinque minuti, sono sempre Maverick – o sei McGillis, ma ‘ndo vado?

 

Esther,

così mi fai esplodere il cervello:

SCALDAMUSCOLI

CRUISE

GOMMOLO

un po’ come quando a fine anni Novanta uscì Eyes Wide Shut con quella scritta mitica

CRUISE

KIDMAN

KUBRICK

Gli scaldamuscoli sono il feticcio erotico dell’epoca, perché era un’epoca in cui al cinema si vedevano sempre vestiti sfilati, e lo scaldamuscoli mi pareva sempre allusivissimo. È stato un periodo di cosce. Non ho visto Top Gun 2, ma credo che l’esperienza che vogliono farci fare sia mostrarci la faccia di Tom invecchiato. Diventa come l’ultimo volume della Recherche, anche se hai la sensazione che Cruise non abbia mai perduto tempo.

L’immagine degli scaldamuscoli mi fa pensare che gli anni Ottanta erano sessualissimi ma il suo simbolo, Cruise, sembrava completamente asessuato. Lei faceva sesso con un Maverick immaginario. Naturalmente poi nei decenni è stata rivalutata la partita a beach volley tra manzi come vero cuore del film: un film gay, un film omoerotico, o, come a questo punto mi ha corretto una volta Edoardo Albinati: omosociale.

Scaldamuscoli e smanie e il mio innamoramento per Minnie della Disney.

CRUISE

MINNIE

ETA BETA

Questo il mio periodo di latenza. Non voglio ritornarci ma mi eccita sentire qualcuno che se ne ricorda e richiama via via i ricordi. Non mi sento come Gervais, mi piace schiantarmi contro le nuove epoche. E mi piace moltissimo fare penitenza. Chiedere scusa per tutto, continuamente.

Il mio salto di quarant’anni è tra Stranger Things oggi e – non tanto Spielberg, come sarebbe ovvio, ma un telefilm che si chiamava I ragazzi del computer. Facevano le stesse cose che potevo fare io l’estate al mare. Andavano in giro in gruppo su delle bmx o dei chopper, mi pare. Ricordo quando curvavano tutti insieme. Femmine e maschi. E poi risolvevano cose con l’informatica, cosa che invece io non ho mai praticato. Ma le sgommate con le bici sì.

L’unico anno bello della mia infanzia dormivamo in un comprensorio dove si facevano pericolose gare di bmx che io vincevo spesso grazie alla mia tecnica nelle sgommate. Una ragazzina che mi piaceva mi iniziò a chiamare Mr Bike. Le piaceva urlare frasi assurde, come fosse perennemente occupata a fare pubblicità alle cose. “Mr Bike!” Una volta c’era un pacchetto di Yonkers e me la ricordo che urlava “Un dito! Un dito!” perché gli Yonkers erano anelli spessi al formaggio che si infilavano nelle dita, e lei – non so se citandone la campagna pubblicitaria o inventandosela – gridava appunto “Un dito! Un dito!” Mi piaceva un sacco.

Quell’anno per due volte io e mia sorella non ci presentammo all’appuntamento per andare in spiaggia in macchina e i nostri genitori ci lasciarono lì chiudendo la casa. Fieramente rientrammo in casa dalla finestrina socchiusa di un bagnetto, me la ricordo pericolosa ma chi può dirlo?, e poi riaprimmo tutta la casa e ci facemmo trovare molto rilassati al loro ritorno, che vivevamo comodamente in quella casa che era loro e non nostra.

Non gli stavamo simpatici secondo me. Infatti l’anno dopo non tornammo più. Avevano paura di quelle nuove amicizie che ci portavano sulla cattiva strada delle sgommate.

È incredibile, così persi quel soprannome, Mr Bike, che mi sarei volentieri portato dietro per qualche altro anno per stabilire una reputazione, che invece poi, lì al mare, non ebbi mai più. Molto tempo dopo, a diciassette anni, convinsi i miei genitori a non andare più al mare. Mutually Assu red Distruction tra me e loro: loro mi impedirono di divertirmi, io li feci smettere di andare dove erano sempre andati al mare.

Parlami d’amore.

 

Caro Francesco,

che figlio strategico che eri. Mi parli di infanzia nel recinto e col codice disciplinare ma ti vedi male. Eri un piccolo Churchill, un manovratore calmo. Uno che se al mare non ci voleva andare, non ci andava. Sulla bmx mi sono rotta i denti davanti. Perfino le strade sono nemiche, in montagna.

Ma torniamo ai noi di adesso: questo passaggio che fai su Tom Cruise è un lampo. Favolosa intuizione. Gli anni Ottanta erano sessualissimi ma il suo simbolo, Cruise, sembrava completamente asessuato. Lei faceva sesso con un Maverick immaginario. Naturalmente poi nei decenni è stata rivalutata la partita a beach volley tra manzi come vero cuore del film: un film gay, un film omoerotico…

Stavo pensando a una sottolineatura su Bianco, di Bret Easton Ellis, che parlava proprio di lui e di Richard Gere: “L’istante in cui la nostra cultura ha equiparato l’immaturità a un’ambigua mascolinità. Di certo anche American Gigolo ha avuto un ruolo fondamentale in questo, e fotografi come Herb Ritts e Bruce Weber hanno creato un ‘idealÈ che da quel momento è risultato dominante nei media: entrambi resero il tipico ragazzo-copertina per teenager (e gay) ancora più erotizzante rivestendolo di una patina vagamente artistica e ironica. Cruise è stato una delle prime stelle del cinema a incarnare questo modello e a dare il suo contributo perché durasse – probabilmente perché era il meno virile tra i grandi attori della sua generazione”.

Di Richard Gere: “Non avevo mai visto un uomo così bello in nessun altro film, ma oltre a questo Gere sembrava anche vuoto e smarrito, e ciò probabilmente accresceva la sua bellezza. Il difetto di Gere era che sembrava troppo contemporaneo, troppo moderno per essere davvero in sintonia con quei mondi, e per questo ne usciva manierato”.

Lì fu l’inizio della fine del sesso, Francesco? Gli anni Ottanta? Tutto si tiene: l’offerta diventò totale e indistinta, il sesso era ovunque ma si stava trasformando in una cosa per gli occhi.

Il requiem degli anni Venti l’ho visto nei grafici della relazione Istat sullo stato della coppia 2019 (quindi ante Covid, non ci sono scuse). Siamo messi male: traffico zozzo online tanto, da nudi e dal vivo quasi niente.

Io ti parlerei pure d’amore, ma quale amore dici? Ti parlo di quelli che si scrivono senza vedersi e s’innamorano appresso alle chat disperatamente? Ma poi un’intensità, in queste fissazioni, che non ha niente a che vedere col netflix-divano-non ho sentito che hai detto? dall’altra stanza che conosco io.

Ti vedo una volta, poi ti rivedo tra sei mesi, poi tra tre anni. Tu dici Stranger Things (senti, io quelle minchiatine mi rifiuto), ma ti sei accorto che Harry ti presento Sally è ancora il copione romantico prediletto? Due che si vedono poco, non smettono mai di telefonarsi, e poi miracolo! Era amore.

Tu che intendi, adesso, quando chiedi a qualcuno di parlare d’amore? A me pare un po’ il gusto puffo dei gelati. Passatissimo, improponibile.

 

Esther,

sì, il gusto puffo è l’amore. In realtà è vaniglia più colorante azzurro. Infatti il sesso non estremo si chiama vanilla, che è un termine più anni Novanta che Ottanta, ma che è l’altro grosso problema per chi è cresciuto negli anni Ottanta. Le stelline nude in tv e al cinema da una parte, i fidanzamentini dall’altra. Per un recupero pieno degli anni Ottanta, o per meglio dire un riconoscimento definitivo del mezzo secolo di anni Ottanta che abbiamo passato (Il Decennio Lungo), basterà iniziare a rendere indistinguibili l’amore romantico e il gusto puffo. La mia amica Sofia Torre, che tra le altre cose sta studiando in accademia il concetto di Milf, è convinta che qualunque forma di amore che includa una parte del corpo – “mi piacciono le sue tette, il culo, le gambe” – sia una perversione, una forma di parafilia. Nella sua testa distopica, tutti gli uomini sono innamorati di pezzi del corpo e non di persone, sono tutti feticisti senza saperlo. Se ti innamori del piede sai di essere un feticista, ma se ti innamori di occhi, orecchie, spalle, gambe eccetera pensi di essere romantico. Io odio l’amore romantico, dice Quattrocchi. Nei Puffi, vera educazione sentimentale, c’è una sola donna. Forse a un certo punto ne arriva una seconda. Grande Puffo non parliamone neanche. Ci hanno immersi in un inconscio pubblicitario, negli anni Ottanta, che ci ha stuzzicati senza mai metterci sulla buona strada. Prima degli anni Ottanta c’era Il Decameron di Pasolini, poi diventa tutto gusto puffo, Puffetta unica donna, parafilie. Una mia amica fotografa di club Bdsm una volta ha detto che il Bdsm è sesso senza sesso. Come i puffi. Tutti i fidanzamenti concepiti tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, tra gli amori fasullissimi, probabilistici de I ragazzi della Terza C e poi di Beverly Hills 90210, sono amore senza amore.

Questo amore senza amore, questo gusto puffo, sono stati la soluzione di massa, vittoriana e standardizzata, a un problema sollevato all’inizio degli anni Ottanta da Vasco Rossi:

“I bambini dell’asilo stanno facendo casino / ci vuole qualcosa per tenerli impegnati / ci vuole un dolcino”.

Quel dolcino è il gusto puffo, è il fidanzatino, è il fidanzatino che si mette la felpina o il giacchino come Tom Cruise e si va a mangiare il gelatino sul lungo mare.

È vero sono stato un Churchill, ho controllato tutto, ho fatto in modo di non vivere gli anni Ottanta perché mi hanno sempre fatto terrore.

Cosa mi sfugge?

 

Caro Francesco,

intanto ti sfugge che Esther è senza la consonante. I Deborah, Jessicah, Samantha vengono tutti da lì. Hai visto che di recente hanno ripreso la moda dei nomi vistosi, ma pensandosi blasé, mica come negli anni Ottanta? All’asilo ora fai la conoscenza di Athena, Blanca e Nicole. C’era un colloquio un mesetto fa e la nostra candidata si chiamava Daisy, tutta impettita ho lodato i genitori per una scelta così Truman Capote, lei mi fa un sorrisetto doppio-commiserante – per me e per sé stessa – e mi dice “in realtà era Hazzard”.

Anni sui libri di scuola e poi che cosa resterà

Cosa resterà di questi anni Ottanta

Chi la scatterà la fotografia

Cosa resterà e la radio canta

Won’t you break my heart?

Won’t you break my heart?

Che palle quella canzone. Ci somiglia. Siamo venuti su pensosi, a volte mi pare un lungo melodramma di quarant’anni. Che abbiamo prodotto, in qualità di generazione, di notevole e ricordabile? Gli anni Venti per cosa ci devono ringraziare?, perché ci sarà qualcosa.

Conto molto su di te, Francesco, per questa risposta.

 

Cara Ester,

la febbre che ho appena scoperto di avere appena sbarcato da un volo dall’America (cosa c’è di più anni Ottanta che la febbre e l’America?) mi ha confuso le idee, e ho aggiunto l’h. L’ho aggiunta perché tu stavi parlando di scaldamuscoli. Dopo quegli scaldamuscoli non avresti mai potuto convincermi di non avere un nome con la h.

Ora ricorderò per sempre il mio errore come ricordo di quel pomeriggio del 1990 in cui finirono i miei anni Ottanta: passeggiai per un tempo infinito in giro per il quartiere con la compagna di scuola che mi piaceva senza capire che le piacevo, e poi lei se ne andò sorridendo sorniona dopo avermelo fatto intuire.

È un lungo melodramma di quarant’anni che non ha prodotto niente di memorabile, niente da insegnare, se non alcuni trucchi come nascondere la gomma da masticare nel gelato anche se non ha senso, rubare merendine negli alimentari, misurare l’amore dei genitori con il numero di giocattoli. Più Stranger Things va avanti più mi accorgo che non si trova negli anni Ottanta e ci sta solo manipolando, dobbiamo mantenere gli abbonamenti Netflix da cui i nostri figli guardano serie d’orrore che parlano delle loro paure e non delle nostre. Noi siamo i consumatori perfetti, il nostro lascito è questo.

Potrai mai perdonarmi?

Potrai mai perdonarmi?

Ester Viola (Morbegno, 1978), avvocato e scrittrice. Ha pubblicato per Einaudi “L’amore è eterno finché non risponde” (2016) e “Gli spaiati” (2018). Ha una newsletter, “Ultraviolet”.

Francesco Pacifico (Roma, 1977), scrittore, giornalista e traduttore. Ha fondato la rivista “La Tascabile” di Treccani. Ha un podcast, “Archivio Pacifico”, prodotto da Storie Libere. I suoi ultimi libri sono “Le donne amate” (Rizzoli, 2018), “Io e Clarissa Dalloway” (Marsilio, 2020) e “Solo storie di sesso” (Nottetempo), ora in libreria.