Cerca

Dal finestrino si vede il mare

Il poema contemporaneo di Joseph Ponthus, l’esordio da solista di Manuel Agnelli, che succhia e crea giovinezza. Il podcast su un farmaco dimenticato, interrotto dall’annuncio del capotreno. Tutto avviene in movimento, anche il desiderio di andare al cinema

Sul treno da Bologna a Pescara leggo Alla linea di Joseph Ponthus. Il libro mi è piombato fra le mani inaspettato, si è insinuato nella coda di letture, come accade a volte ma abbastanza di rado (la coda di letture è rigida). Perché è successo proprio con Alla linea? Sicuramente c’entra che è un romanzo scritto in versi, dunque un poema, dunque “originale”. Ma si tratta di un’originalità così sfacciata che avrebbe potuto benissimo indispormi invece di incuriosire. Sarebbe facile accusarlo, infatti: Alla linea è un romanzo in prosa con il vezzo di andare spesso a capo. Ma dire così sarebbe ingiusto, perché l’opera di Ponthus suona davvero come un poema, un poema contemporaneo, un poema sul tempo del lavoro interinale, dove si narra di un eroe a cui non è rimasto nulla di eroico, solo rimpianti, noia e ripetizione. Joseph Ponthus ha scelto la forma poetica come l’unica possibile, perché quando lavori per otto ore al giorno “alla linea”, sgusciando gamberetti senza sosta, scolando tofu, mescolando una poltiglia di granchio che diventerà surimi in vendita al Monoprix, la sola letteratura che la tua mente riesce a trattenere prima di trascriverla a fine giornata è fatta di frammenti. Il tempo stesso, quando si è inchiodati “alla linea”, è ridotto in brandelli: “Scolo tofu / Ancora tre ore da tirare avanti / Solo tre ore da tirare avanti / Bisogna continuare / Scolo tofu / Continuerò / La notte non finisce / Scolo tofu / La notte non finisce più / Scolo tofu / Scolo tofu”. Il libro sprigiona un’energia del tutto singolare, è circondato da un alone di tragicità che eccede anche la sua struttura in versi: Joseph Ponthus è morto di cancro nel 2021, a due anni dall’uscita del romanzo.

Alla linea resterà la sua opera unica, eternamente anomala e quindi perfetta.

Quando finisce l’incarico alla sgusciatura e inizia quello di pulizia degli scarti di macellazione dei maiali, sento che ho bisogno di una pausa. È vero che le pagine scritte in versi scorrono più veloci di quelle intere della prosa, ma hanno un modo tutto loro di affaticare. Muovo lo sguardo verso il finestrino: stiamo attraversando lentamente la stazione di Pesaro. Sulla libreria musicale del telefono scorro gli “Aggiunti di recente” su e giù, un paio di volte, poi mi affido a Manuel Agnelli e al suo album da solista, Ama il prossimo tuo come te stesso. A suo modo un esordio anche questo, un esordio in piena maturità artistica, eppure un esordio: infatti ha una leggerezza felice, sorgiva. Mi tormenta spesso il dubbio se si possano conciliare o meno spontaneità e consapevolezza, restare vivaci dopo anni di produzione. O se come artisti converrebbe avere esordi e basta. Questo disco è una prova in più in favore della longevità creativa. Quando compare la voce della figlia Emma in Lo sposo sulla torta mi dico che forse Manuel Agnelli ha succhiato un po’ di giovinezza anche a lei. È quello che si fa, che facciamo tutti. Lo ammette lui stesso nella canzone: “Succhia idee la testa mia”.

Passa il carrello, scelgo lo snack dolce. Mi aspettavo i frollini, ma il fornitore dev’essere cambiato, perché ci sono i wafer. I contratti stipulati fra le compagnie ferroviarie e le aziende di dolciumi: ecco un aspetto del presente che Ponthus avrebbe saputo mettere in versi. Un signore anziano si sta gettando sui binari di questa linea, un centinaio di chilometri più avanti, ma noi passeggeri non lo sappiamo ancora, ce lo diranno solo all’arrivo ad Ancona, dove il treno verrà bloccato.

Ascolto Pharmakon, un podcast di Francesca De Ruvo, Ruggero Rollini, Andrea Tavernaro e Francesca Zavino. Il primo episodio è uscito il 25 luglio, quindi da un po’. Ma con i podcast fatico a evitare questa latenza, l’esitazione a iniziare, come se il tempopodcast non avesse ancora trovato la sua collocazione naturale fra il resto. Adesso che ho cominciato, mi dispiace di aver atteso. Pharmakon ripercorre la storia del talidomide, un farmaco che per alcuni anni, nel Dopoguerra, venne prescritto per le nausee in gravidanza, e che si scoprì causare delle malformazioni gravi nei neonati. “Ho grattato la superficie di un aneddoto, dice la voce di Rollini, e n’è emersa una storia dimenticata”. Un progetto ambizioso, schiettamente fuori moda nella scelta del tema, rilevante. Gli autori lo hanno prodotto in autonomia dopo aver accumulato decine di ore di interviste. Hanno tutti alle spalle studi scientifici, si sente, come si sente che nel parlare di una vicenda di decenni fa stanno esprimendo un punto di vista sul nostro rapporto irrisolto con la scienza medica e la farmacologia, oggi. Guardo la durata del terzo episodio e mi rendo conto che non riuscirei a finirlo prima dell’arrivo. Meglio tenerlo per dopo. E’ difficile, con i podcast, riprendere i capitoli a metà. Dal vetro si vedono sprazzi di mare adriatico, gli stabilimenti chiusi, le recinzioni che delimitano solo sabbia, quel grigiore di novembre che trasmette attesa di non si sa più cosa. Sta per passare il capotreno, sta per comunicarci che la tratta verrà sospesa. Appena posso, voglio andare al cinema a vedere Utama.

Paolo Giordano (Torino, 1982), scrittore e fisico. Con il suo esordio, “La solitudine dei numeri primi” (Mondadori, 2008), è stato il più giovane vincitore del Premio Strega. Il suo ultimo romanzo, “Tasmania” (Einaudi), è adesso in libreria.