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Dopo la guerra non sono mai più stata giovane

Eugenia è scappata da Kharkiv e dice cose pratiche, frasi secche, non vuole nessun: mi dispiace. “Non è facile da un giorno all’altro diventare un assassino”. La differenza tra rappresentazione ideale e vita reale e la cioccolata al brandy che non voleva nessuno. Faccia di pietra

Ho provato a parlare. Forse, ignoro la lingua. Tutte frasi sbagliate.

Le risposte: sassate.

Giorgio Caproni, “Sassate”

Eugenia è di Kharkiv ed è scappata a Roma, ha ventinove anni e suo marito è rimasto là, con i cugini e gli amici che non hanno mai sparato in vita loro. Sono senza riscaldamento e sotto la neve, hanno le scorte di cibo che Eugenia e le altre ragazze hanno fatto prima di andarsene via in auto con uno straccio bianco appeso fuori, in treno, in pullman e a piedi. Mia sorella ha solo perso la casa, mi ha detto con un sorriso, ma sta bene, con i due bambini piccoli è scappata a Kremenchuk da nostra madre, lì c’è ancora perfino qualche negozio aperto. Ha solo perso la casa: è una bella notizia. Hanno le scorte di cibo: è un’altra bella notizia, soprattutto cioccolata al brandy perché non a tutti piace e al supermercato non è stata tra le prime cose a finire. Uno zaino pieno di cioccolata al brandy, che i bambini non possono mangiare ma che hanno mangiato lo stesso, in viaggio per tranquillizzarli gli hanno lasciato succhiare dei pezzi piccoli e loro si sono addormentati di schianto. Il gatto ha iniziato un digiuno di protesta per i cambiamenti indesiderati, ma se è un modo di chiedere attenzioni, questo non è il momento adatto. Eugenia dice cose molto pratiche, con frasi secche, non vuole piangere e non vuole che io dica quelle solite parole che qui in Italia ha già sentito un milione di volte: mi dispiace, è terribile, mi dispiace mi dispiace mi dispiace. Non vuole neanche dire: Putin. A casa in Ucraina nessuno dice mi dispiace, perché non ha senso, non c’è tempo, e fino a pochi giorni fa la paura principale era morire congelati, restare per strada durante la fuga e crepare di freddo. Non dico mi dispiace e le chiedo delle bombe, fingo che sia normale parlare di bombe, ma è davvero normale e allora fingo di non fingere. La casa di sua sorella è stata distrutta da una bomba, mi racconta, avevano appena dipinto la stanza dei bambini di rosa e azzurro, con le stelline sul soffitto, avevano un armadio nuovo per i vestiti.

Eugenia si infastidisce, si scioglie continuamente la coda di cavallo per poi rifarsela, ripete che stanno tutti bene, guarda ovunque tranne che nei miei occhi: sono vivi, hanno solo perso tutto, ma le pensioni continuano ad arrivare, ci sono dei risparmi, una famiglia che è riuscita a rifugiarsi in Polonia ha offerto la propria casa di Kremenchuk ai genitori di suo marito, “si resiste come ostaggi”. I suoi cugini e suo marito, i mariti e i fidanzati delle sue amiche non hanno ancora ucciso nessuno, nessuno ancora li ha uccisi, si nascondono e aspettano, ma non sanno che cosa aspettare. “Non è facile da un giorno all’altro diventare assassini”, adesso l’ha detto. Ora che l’ha detto ricomincia a guardarmi negli occhi, mi sfida a dirle: mi dispiace. Fino a un attimo fa mi sembrava così giovane, quasi una bambina, ma adesso ha cambiato faccia, è diventata di pietra, con gli occhi verdi ma di pietra.

Nei nostri nuovi pensieri sul coraggio e sulla necessità, pensieri giovani nati il 24 febbraio scorso, nei nostri elogi della strenua resistenza ucraina, nella nostra paura commossa, viva, nella nostra immedesimazione data dalla vicinanza e dalla comprensione dell’enormità di quello che sta succedendo, abbiamo immaginato tutto, anche di morire per la libertà, ma forse non davvero questo: uccidere. Non così bene. Non in modo così reale. Con un fucile, sparare a qualcuno. Con le mani, ammazzare qualcuno. Toccare il suo sangue. Prima eri un tecnico informatico, un muratore, un ingegnere, un medico, un insegnante, uno studente, un pensionato, un cuoco, adesso pensi a come uccidere la gente per proteggere il tuo paese, il futuro di tuo figlio. Porti in salvo il tuo gatto e intanto nella mente fai le prove con il fucile. Racconti una storia ai bambini, inventi che stanno andando in vacanza dalla nonna, e intanto pensi se è meglio mirare alla testa o sparare a caso. Il marito di Eugenia, i cugini di Eugenia: hanno tutti l’età per combattere. Sua nonna non ha le forze per scappare, sua sorella invece non vuole andare più da nessuna parte, ha paura di venire ammazzata per strada con i bambini e ha avuto così tanto freddo che ha ancora il terrore del congelamento, non le importa niente se abbiamo detto che qui a Roma fa caldo e andremo tutti al mare: anche la sorella di Eugenia diventa di pietra, non risponde, le si scarica il telefono e la linea fissa non esiste più. Ogni giorno impariamo qualcosa, ci risvegliamo un altro po’, facciamo i conti con la nostra libertà e con il nostro bene più prezioso che è il vivere in pace.

L’abbiamo costruito, l’abbiamo ricevuto, abbiamo creduto di entrare in un secolo finalmente risolto, tanto che durante il Covid ci sembrava di essere in guerra, ma adesso verso sera andiamo al supermercato di fretta, gli scaffali della pasta sono vuoti e ci gira la testa. La madre di Eugenia ha settant’anni e ha detto: non mi sono mai fatta troppe illusioni. Erano quindi illusioni anche le nostre?

Posso solo cercare di ridurre questa enormità alle dimensioni della persona, per cercare di capirci qualcosa, per trovare una parola che sia adatta e che non sia: mi dispiace.

Ma anche qui, nello spazio di una persona reale, non c’è mai niente di prevedibile o di lineare. E niente di solenne. Ci sono le traiettorie delle bombe e c’è la vita quotidiana. C’è chi dice: il futuro è morto, ma c’è chi ha partorito il futuro dentro un bunker senza elettricità e ha pianto di gioia più che di paura, accanto due bicchierini di plastica con dentro il tè e un uomo in piedi che sorride.

Svetlana Aleksievicˇ, ucraina, premio Nobel per la Letteratura, ha scritto nel suo La guerra non ha un volto di donna che i commilitoni ridevano per come le ragazze in treno tenevano i fucili: come delle bambole. Poi non hanno riso più. Ha scritto che quando camminavano per il villaggio della nonna ucraina, la nonna le mostrava sempre una casa dalla quale stare alla larga: lì abitava una donna che per fame aveva mangiato i suoi figli, nella grande carestia degli anni Trenta (l’Holodomor). E ha scritto di un’infermiera che è andata in guerra a sedici anni e ha perso le lacrime. “Dopo la guerra non sono mai più stata giovane”. Ha scritto della sorella che si dondolava avanti e indietro seduta per terra: le avevano bruciato la casa con i tre figli dentro. Della ragazza che si nascondeva le gambe perché erano belle e aveva paura che restassero mutilate e che non ha mai più indossato niente di rosso perché le ricordava tutto quel sangue. E dell’aiuto infermiera che ha offerto metà pagnotta al giovane soldato prigioniero con le lacrime congelate sul viso: “Lui la prende e non ci crede…Non ci crede. Non ci crede! Ero felice…felice di non potere odiare”.

“Morivamo per difendere la vita e ancora non sapevamo cosa fosse”.

La vita reale è diversa dalla rappresentazione ideale, e la vita reale è già cambiata per quasi tutti. Anche in Russia, anche qui. Magari di poco, ma è cambiata. Però la rappresentazione ideale, di un paese libero e democratico, è ancora e sempre tutto quello che abbiamo per difendere la vita reale. Eugenia vuole tornare in Ucraina a ricostruire la casa di sua sorella, e vuole restare sempre vicino a lei. “Litigare con mia sorella è la cosa che mi manca di più e al telefono non mi riesce: la libertà che voglio è questa, la vita in pace è questa: a casa mia a litigare con chi mi pare, a dirle che la odio e che mi ha rovinato la vita mentre mi prepara il tè”. Non è più di pietra, ma solo per un attimo.