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Dostoevskij è morto, ma noi siamo vivi

L’aggressione russa riserva un accanimento speciale contro i simboli dell’Ucraina: c’è un piano deliberato di distruzione culturale, e si vede. I tre colpi in testa alla statua di Shevchenko, la falsa distinzione tra soldati e civili, le discussioni sui cadaveri da recuperare mentre parte un altro “allarme del cazzo”. Il viaggio ucraino di Paolo Giordano

A Leopoli ogni mattina ci sono i funerali dei soldati. Ogni mattina, nella stessa chiesa, con un sacco di gente che si ritrova lì. Tutti i giorni, due, tre, quattro morti: ogni cosa gira attorno ai feretri, ai corpi, alla materia”, dice Paolo Giordano, che ammette di essere arrivato alla prima tappa del suo viaggio ucraino un po’ troppo baldanzoso – “me l’aspettavo più calma, ma la guerra è dappertutto” – cercando “la materia”, come dice lui, in contrapposizione con l’immagine della guerra che ci siamo formati qui: astratta. Giordano fa i conti con l’astrazione e con la concretezza del conflitto e, come nel suo ultimo romanzo Tasmania, affronta la crisi del mondo intrecciandola con le percezioni e le attese di noi che siamo in guerra ma non siamo nella guerra, e possiamo distrarci, persino lamentarci di essere stanchi – “Quale stanchezza intendiamo, di che cosa siamo stanchi noi?”. Astrazione e materia, i commenti nei salotti televisivi d’occidente e la vita sconvolta, in cui in ogni momento un missile può cancellare tutto ciò a cui tieni. “Siamo tentati di fare la distinzione tra soldati e civili uccisi – dice Giordano – perché se sono i soldati a morire allora possiamo dirci che la guerra è guerra, è brutta e si muore. Ma quei soldati ucraini erano per la maggior parte dei civili fino al 24 febbraio dell’anno scorso, persone che facevano quello che facciamo noi, ragazzi giovani che studiavano, che non avevano mai imbracciato un’arma. Trovo fuorviante distinguere tra soldati e civili in una guerra come questa: muoiono tutti, sta morendo una generazione”.

Dopo Leopoli, dove sei stato?

Mi ero reso conto che dopo un anno di guerra, di fronte a una cartina muta dell’Ucraina restiamo ancora spiazzati: non sapremmo indicare con precisione dove si trovano le città che hanno scandito l’aggressione russa. Credo sia il sintomo della nostra idea compatta e piccola di questa guerra. Invece l’Ucraina è immensa e l’attacco di Vladimir Putin è capillare, per questo ci tenevo a fare un giro ampio. Sono partito da Leopoli con Kateryna, una scrittrice ucraina, suo marito Sachko e un altro scrittore lituano. Siamo stati a Dnipro, nel centro del paese, poi verso il fronte a est, l’irriconoscibile Donbas, a Kramatorsk, fino ai bordi di Bakhmut, a Izyum, Kharkiv, poi sono andato a Kyiv da solo e lì, con alcuni volontari, sono stato nella zona a nord della capitale, Bucha, Stommel, Borodyanka, e poi di nuovo a Leopoli. E’ stato un giro circolare, l’auto piena di generi di conforto, cibo, sacchi a pelo, un generatore; di notte eravamo ospiti di alcune famiglie che Kateryna aveva contattato. Non sapevo che avremmo dormito nelle case degli ucraini, è stato un completamento forte, inaspettato.

Che cosa hai trovato in queste case, nelle conversazioni con le persone che ti hanno ospitato?

Noi europei occidentali abbiamo un’idea complessa con l’Ucraina: non avendo un’immagine pregressa o quantomeno diffusa del paese, cioè considerandolo anche noi, diciamolo, un pezzo di Russia, siamo pieni di pregiudizi e ci mancano i riferimenti. Entrare nella vita degli ucraini anche per pochi giorni aggiunge un livello di sostanza al tutto. Vicino a Kramatorsk, la coppia che ci ospitava mi ha mostrato con orgoglio gli animali e i mezzi agricoli che aveva comprato: ho avvertito concretissima l’idea che è sufficiente un missile per cancellare immediatamente tutto questo, gli animali, il trattore, la casa ereditata dal padre di lui, un luogo con un profondo significato affettivo, come ne abbiamo tanti anche noi. Il pregiudizio che spesso colgo è che trattiamo questi posti come se fossero un po’ meno importanti, come se gli affetti di un paese che conosciamo così poco fossero meno importanti.

L’interesse per gli ucraini e per questa guerra nel cuore dell’Europa mi sembra ben più alto di quello che ha interessato altri popoli altrettanto vessati dalla Russia.

C’è una scala di sensibilità che riguarda i popoli e la geografia, ma vale anche per lo stesso conflitto in Ucraina: dopo la controffensiva, quando il fronte è tornato in Donbas, tutti abbiamo un po’ rinormalizzato la situazione, come se fossimo tornati alla guerra che c’era già prima, dal 2014. Ma il modo in cui l’intero paese è tenuto sotto pressione è fortissimo. E’ un paese completamente, tutto, in balìa della guerra: ci siamo costruiti una fantasia di gestibilità che non corrisponde alla realtà.

Bucha, Irpin, il nord di Kyiv: qui l’orrore dell’offensiva russa si è mostrato per la prima volta, e per la prima volta abbiamo scoperto la determinazione ucraina a sistemare, ripulire, rimettersi in piedi, e in fretta.

A Bucha e a Irpin la ricostruzione anche edile è accelerata. Ci sono cantieri ovunque, ma per fortuna non è una ricostruzione che avviene in modo cieco, è stato evitato il rischio di una ricostruzione forsennata che cancella le tracce di quel che è accaduto. A Irpin per esempio non stanno ricostruendo il famoso ponte crollato che abbiamo visto tutti poco dopo l’invasione: questo ponte resterà così, spezzato, ma accanto ne stanno completando uno nuovo. Il ponte di Irpin resterà come memoriale: non tutti sono d’accordo, ma come principio è molto sensato, siamo una civiltà abbastanza evoluta da sapere che dobbiamo conservare la memoria mentre le cose accadono. In ogni caso, la ricostruzione va sì veloce, ma il livello di distruzione è talmente grande che ci vorrà tantissimo tempo. E c’è la devastazione psicologica, che ha tempi diversi, più lunghi.

L’assalto russo è sterminato nella geografia ma con obiettivi precisi, che vanno dalle reti che fanno funzionare il paese ai suoi simboli, la sua incarnazione culturale.

Mi sembra che non sia stata compresa appieno la devastazione del patrimonio culturale, che tra l’altro credo figuri tra i crimini di guerra: si vede chiaramente che i simboli della cultura ucraina sono obiettivi specifici, contro cui c’è un accanimento speciale. Questi luoghi di bellezza e di cultura vengono bersagliati dall’esercito russo perché siamo di fronte a una prevaricazione coloniale, con un piano deliberato di distruzione della cultura ucraina. A Borodyanka, c’è la statua di Taras Shevchenko, il famoso poeta ucraino, con tre proiettili conficcati nella testa: è un simbolo molto preciso di quel che sta avvenendo. Questo tipo di devastazione sarà difficile da recuperare: un conto è ricostruire un ponte o un condominio, un altro è ricostruire un palazzo con una storia.

A proposito di simboli, cultura, storia. Gli ucraini stanno vietando tutto ciò che è russo, dalla lingua ai libri dei grandi scrittori russi alle statue rimosse. È una cancellazione rischiosa che pregiudica un futuro in cui una coesistenza tra ucraini e russi andrà costruita?

Oggi questo discorso in Ucraina non è ricevibile, risulta lunare e persino offensivo. Una sera ho avuto una conversazione con una ragazza e le ho spiegato il dibattito sulla cancellazione della letteratura russa. Lei mi ha guardato con un’espressione di incredulità – la materia contro l’astrazione – e mi ha detto: “Dostoevskij è morto, questa guerra non gli può fare alcun male. Ma noi siamo vivi”. Intendeva una cosa chiara: discutiamo di temi che non solo non sono nel momento giusto, ma non sono nemmeno opportuni. Ci sono molte cose non opportune: la preoccupazione per Puškin e per Dostoevskij non appare opportuna, perché ha un effetto direttamente lesivo sugli ucraini, mina una parte di credibilità e di legittimità della loro difesa. Non siamo nella condizione di dire loro come prendere certe decisioni: è chiaro che nascerà un nazionalismo molto spinto, non può essere altrimenti, ma non sta a noi introdurre un correttivo morale in questo momento, non ne abbiamo il diritto. Poi in questa discussione c’è una parte che viene sempre negata: l’aggressione molto esplicita contro la cultura ucraina. La nostra preoccupazione è secondo me ancora una volta un retaggio coloniale: noi ci agitiamo per la cultura della grande madre Russia, ma la cultura ucraina non la consideriamo, non la conosciamo, non distinguiamo il fatto che ci sia una lingua diversa, e percepiamo soltanto il danno alla cultura russa. Questa nostra distorsione è stata prodotta dalla lunga imposizione di stampo coloniale che si vede oggi in atto nel modo in cui i russi distruggono ogni simbolo ucraino. È un tema molto importante, quello della coesistenza futura, ma va proprio modificato il paradigma.

Un discorso astratto, questo della cancellazione. Com’è invece la materia, la concretezza della vita quotidiana?

Ogni città in cui sono stato ha un livello diverso di elaborazione della guerra. A Izyum, si stanno ancora documentando le fosse comuni e dando sepoltura ai singoli morti; quando sono arrivato a Kharkiv era già sera e mi ha fatto impressione il buio: la città ha un’architettura imponente e massiccia, ma potevi contare le finestre accese. E’ una città che è stata svuotata, ma che vive, vuole vivere. Avevamo appuntamento con la ragazza che poi ci avrebbe ospitati alla fine di un evento culturale, in cui una regista ucraina presentava un suo lavoro dentro a un sotterraneo: c’erano molte persone ad ascoltare. Dodici ore dopo l’università di Kharkiv è stata bombardata. Ma qui, e questo mi ha colpito molto, nessuno si è arreso, nessuno rinuncia alla vitalità sotterranea della città: le persone fanno le cose della vita. Il pensiero della guerra però è costante, te ne accorgi appena fai la prima domanda: non ti risparmiano nulla dei loro racconti. Poi ci sono elementi di stress che possono sembrare marginali, ma se ci pensi bene sono pesanti: l’interruzione continua della corrente, per esempio, davvero continua, e il frastuono dei generatori in sottofondo. In una casa significa che i ragazzini non possono guardare la televisione o fare i compiti con la luce. Devi stare attento a caricare il telefono, fare i calcoli di quando nei avrai bisogno e programmare ogni cosa: in questo senso, la normalità è impossibile. Poi c’è la minaccia missilistica aerea: anche questa è una specifica strategia contro i civili. Nel nord gli aerei decollano dalla Bielorussia, non bombardano perché altrimenti la Bielorussia sarebbe direttamente coinvolta nella guerra, ma decollano, sorvolano le città, fanno scattare l’allarme, e poi rientrano. Che cos’è questo se non un modo per tenere sotto pressione continua tutti gli abitanti dell’Ucraina? I bambini fanno discorsi spaventosi, parlano di missili, droni, cadaveri: la guerra è capillare.

E violentissima.

A Kyiv ho iniziato a leggere The Torture Camp on Paradise Street di Stanislav Aseyev, un libro che spero sarà tradotto anche in Italia. Ho dovuto smettere, faticavo a dormire. Non ho trovato alcuna reticenza nel raccontarmi le storie delle violenze sui civili, le irruzioni nelle case, gli stupri: la volontà documentale è molto forte. C’è un grande realismo, mentre noi ancora una volta abbiamo a che fare con una versione molto astratta della guerra. Questo spazio di astrazione lì semplicemente non c’è: uno dei problemi di cui dibattono di continuo, per esempio, è il recupero dei corpi dal fronte. E’ una cosa estremamente materiale che preoccupa molto: se le truppe perdono terreno, i corpi restano sul campo, i russi non permettono di raccoglierli e anzi spesso li minano. Molte famiglie vivono da mesi nella sospensione tra il sapere che la loro persona cara è morta al fronte e non avere, e forse non avere mai, il suo corpo: quando ne parlano però hanno un approccio molto materiale – la mina, il terreno di battaglia, il cadavere.

Realismo, concretezza, determinazione nell’andare avanti: è il carattere ucraino che abbiamo imparato a conoscere, nella sua straordinarietà, fin dal primo giorno dell’invasione russa.

L’aggressione vista dai nostri paesi ha molti veli, lì invece non è né opinabile né ridimensionabile: c’è qualcuno che è arrivato nei tuoi luoghi, nei tuoi affetti, nella tua vita, qualunque vita tu avessi, e ha devastato tutto. Questo produce un moto di conservazione e difesa molto forte che credo riguardi qualunque popolo aggredito. Poi c’è un elemento ucraino: l’invasione di Putin non è un fatto isolato e non comincia veramente soltanto nel 2014. Gli ucraini cercano disperatamente di farti capire che esiste un’oppressione culturale, politica, di infiltrazione, propagandistica, che si svolge su una miriade di livelli e che va avanti da moltissimo, da quando cioè l’Ucraina cerca di esistere come nazione. L’Ucraina era nel pieno del proprio processo di legittimazione internazionale: noi abbiamo un’idea molto più arretrata del paese rispetto a quella che hanno gli ucraini. L’aggressione li ha colti quando non erano affatto sguarniti: questo ha reso la reazione molto compatta, efficiente, emotiva, in tutti gli strati della società.

Eravamo sguarniti noi, non loro. Così come noi non facciamo altro che parlare della fatica della guerra, della nostra stanchezza. Ma loro piuttosto, non la sentono, la stanchezza?

La stanchezza per gli ucraini è traslata, come tutte le cose che non puoi permetterti. Tutti indistintamente, grandi e piccoli, i miei accompagnatori letterati così come le persone che ci hanno ospitati, dicevano: la guerra continuerà, a lungo. Non c’è alcuna forma di negazione: la vera stanchezza produce una negazione, invece c’è una grossa lucidità. In tanti stanno facendo ricorso a risorse che vanno prese altrove: il loro sarcasmo feroce, per esempio. L’argomento principale di cui ho sentito parlare sono i droni, da combattimento – con specifiche tecniche, dove si attacca la granata, la gittata di questo o quel missile, e via dicendo. Una parte della fatica viene messa lì: bisogna impegnarsi, ognuno deve essere affaccendato, quasi ossessivamente, nel fare cose che lo facciano sentire utile. E usano tutti una comunicazione estremamente sarcastica, più cruda della semplice ironia. Mi sono iscritto a un gruppo su Telegram a Kharkiv che ti avvisa degli allarmi: ho scoperto che ha un suo lessico, costruito. Non dice: è partito l’allarme. Dice: allarme del cazzo. E poi: fine dell’angoscia. E poi mette una freddura sui russi. Morte, violenza, paura vengono affrontate così: con una risata amara, durissima, che però dà forza e coraggio. Tale durezza mi sembra una risorsa.

Così come ripetere che l’Ucraina vincerà, per la sua sopravvivenza, e per la nostra.

Noi siamo increduli quando sentiamo parlare di vittoria, loro invece non mostrano alcuna incrinatura. È una necessità: come fai a pensare che tuo figlio di vent’anni è al fronte e probabilmente morirà senza l’idea che questo ti porterà a una vittoria? E’ l’unica motivazione che ti puoi dare ed è la ragione per cui no, non si possono cedere i territori occupati perché noi decidiamo che sono cedibili: sono già morti migliaia di uomini e donne per quella terra. Noi ci rifugiamo spesso nell’idea ingenua che, tolto Vladimir Putin, tutto questo rientrerà, ma per loro tale idea è un’assurdità. Parlano meno di Putin e molto di più della Russia, perché anche tolto Putin questo scontro andrà avanti: è un processo storico, non un individuo irrazionale che ha scatenato una guerra. La nostra fantasia infantile in Ucraina suona bislacca. La vittoria è una questione molto più complessa del mettere Putin nella condizione di non nuocere più.

Per contrastare questa nostra ingenuità, o per approfittarsene, il presidente russo evoca sempre la minaccia nucleare.

Fin dall’inizio non riesco a tenere la minaccia nucleare dentro al quadro: è un’eccedenza, che fa saltare le regole del gioco, e tale doveva restare, dal 1945 in poi.

In Tasmania, quando racconti la bomba nucleare di Nagasaki con la testimonianza di un sopravvissuto che allora aveva dodici anni, ripeti spesso: allora non si sapeva nulla, non c’erano le parole tecniche per descrivere quel che stava accadendo, perché era la prima volta. Non temi che anche ora siamo di fronte a un’altra situazione senza precedenti?

Siamo nel dominio dell’imprevedibile e del nuovo. L’utilizzo dell’arma nucleare è un’eventualità, ma mi risulta difficile tenerne conto nell’esito di questa guerra: la elimino dal quadro. La possibilità dell’irrazionale e dell’inconcepibile è un tratto distintivo del nostro presente, ma la minaccia nucleare è un’informazione che non riesco a gestire: mi costringe a un compromesso morale a cui io non voglio aderire in questo momento. La deterrenza nucleare è diventata garanzia di aggressione, da che doveva essere garanzia di pace è diventata per la Russia garanzia di aggressione e questo dato per me non è ricevibile, non riesco ad accettarlo moralmente.

Ancora una volta: astrazione e materia. Cos’hai trovato in questo tuo viaggio ucraino?

Materia, tanta materia, fin troppa materia.

Paola Peduzzi (Milano, 1976), vicedirettrice del Foglio.

Paolo Giordano (Torino, 1982), scrittore e fisico. Con il suo esordio, “La solitudine dei numeri primi” (Mondadori, 2008), è stato il più giovane vincitore del Premio Strega. Il suo ultimo romanzo, “Tasmania” (Einaudi), è adesso in libreria.