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E adesso siediti su quella seggiola: stavolta ti ascolto

Quanto è difficile essere adolescenti mentre gli adulti non ci capiscono niente, ma con le migliori intenzioni. «Sii te stesso a modo mio» è più di una puntura di spillo. La tentazione di spaccare le sedie, la doccia di cinque ore, il post narcisismo di chi dice: non lo vedi come sono buona?

C’è un’immagine che non riesco a togliermi dalla testa: mio figlio nato da tre mesi, in braccio a me, e mia figlia di quasi tre anni in più, quindi tre anni appena compiuti, che non vuole fare la doccia perché ha paura dell’acqua negli occhi. Siamo al mare, è estate, lei ha i capelli pieni di sale e di sabbia e la doccia bisogna farla. Non capisco perché non voglia, perché stia facendo i capricci, lei che nuota sott’acqua e non ha nessuna paura del mare. Ho in braccio questo bambino minuscolo e lei in confronto mi sembra un’adulta con i codini, la trovo perfino molto alta. Parla a raffica, spiega le cose, non porta più il pannolino da anni, mangia con la forchetta, dorme nel suo lettino, gioca con gli amici, va all’asilo, insomma è grandissima no? E allora perché non vuole farsi fare lo shampoo in piedi dentro la vasca da bagno? Mi innervosisco, scivolo su una piastrella bagnata e quasi cado, le dico: ma insomma, ormai sei grande. Lei mi guarda, guarda suo fratello che la guarda dalle mie braccia e dice: no mamma, io non sono grande! Siamo in bagno e a me viene da piangere, mentre lei già sta piangendo. Niente shampoo, chissenefrega della sabbia e del sale, usiamo l’asciugamano, magari proviamo con la testa all’indietro nel lavandino, tuo padre ti tiene in braccio e io ti lavo i capelli, ma dopodomani.

Certo che non eri grande, eri una bambina microscopica, hai trent’anni meno di me, eppure io pretendevo che tu fossi grande. Grande e felice di fare lo shampoo in piedi dentro la vasca da bagno mentre tuo fratello si addormentava asciutto in braccio a me. Grande e felice di andare a dormire all’ora giusta, grande e per niente gelosa, per niente arrabbiata, grande proprio come ti volevo io mentre pensavo con soddisfazione: stai diventando grande. Quante volte avrò detto: ormai sei grande. Vorrei rimangiarmele tutte. Così adesso quando qualcuno mi dice che nascerà fra poco un altro bambino e che per fortuna la sorellina o il fratellino ha già quattro anni, io non mi trattengo dal piazzare il mio consiglio non richiesto (c’è qualcosa di peggio dei consigli non richiesti?): ricordati che è piccolo! Adesso vuoi che sia grande e responsabile, tra dieci anni gli dirai ma perché sei così grande, perché non vieni a farti abbracciare?

È una questione di desiderio, di proiezione, e anche di fragilità. Fragilità mica dei bambini, dei ragazzi, fragilità nostra di adulti pieni di desideri, bombardati dai desideri e dalla paura di sbagliare, ma soprattutto dalla paura che i nostri figli non siano esattamente la cosa che ci aspettiamo, che crediamo di meritarci. Ma come, non ti va di fare la doccia? Anzi: ma come, non sei felice di fare la doccia con una madre così amorevole, così stressata e carina che ti ha fatto rotolare nella sabbia fin adesso? Avanzamento veloce negli anni: perché fai una doccia di cinque ore e poi ti chiudi in camera con i capelli bagnati invece di parlare con me, invece di dirmi tutto di te? Non ti sto simpatica? Guarda che sei ancora piccola.

Ho letto il saggio dello psicoterapeuta Matteo Lancini, appena uscito per Raffaello Cortina, l’ho letto perché si intitola Sii te stesso a modo mio, e mi sono sentita punta da uno spillo ancora prima di cominciare. Il sottotitolo è: “Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta”. Va bene, presente, imputato alzatevi. Ci siamo tutti, genitori e insegnanti e anche gente a caso che straparla in tivù. C’è la scuola, c’è Internet, a cui ci piace dare le colpe perché sta fuori da noi, e abbiamo bisogno di qualcuno da demonizzare e di qualcosa da vietare. C’è pure la pandemia, e anche alla pandemia ci aggrappiamo per dire: che guaio, come hanno sofferto questi ragazzi, sono piccoli, sono grandi, ascoltiamoli.

Però subito arriva la didascalia: certo, ai miei tempi nessuno ci ascoltava, ai miei tempi la scuola era durissima, ai miei tempi mio padre non sapeva neanche il nome della mia scuola, noi siamo molto bravi, vero? E aspettiamo un like, anzi diecimila like, anche se internet vogliamo abolirlo. «La società del post narcisismo è abitata da vissuti dissociativi, è la società dell’estremizzazione di sé stessi, che non si limita a chiedere a bambini e adolescenti di nascere e crescere secondo aspettative ideali e competitive, ma iperidealizza il Sé in nome della propria fragilità adulta, fino a chiedere alle nuove generazioni di crescere secondo il mandato paradossale: ‘Sii te stesso a modo mio!’». L’estremizzazione di sé stessi è più di una puntura di spillo, soprattutto perché la esercitiamo mentre ostentiamo interesse, comprensione, preoccupazione per i nostri figli, i nostri studenti. Inseguendoli fino a farli sparire.

Mi è successo di andare a colloqui con professori che non avevano nessuna idea di chi fosse mia figlia: mi mostravano il massimo interesse nel dirmi che mia figlia mostrava troppo poco interesse. Una di loro mi ha detto: la ragazza è apatica. E io guardavo questa professoressa dallo sguardo apatico e pensavo: adesso mi alzo, prendo questa seggiolina su cui sono seduta e la sfascio sulla scrivania, così magari lo sguardo le si ravviva. Invece mi sono alzata, le ho sorriso, l’ho ringraziata e me ne sono andata. Nel mio totale post narcisismo non avrei sopportato di essere denunciata per distruzione di arredi scolastici, così sono tornata a casa e ho chiesto a mia figlia che cosa volesse fare. Lei ha risposto: io in quella scuola non ci voglio tornare, ma adesso vado a farmi una doccia. Nove ore dopo, il tempo di una doccia veloce, quando è ricomparsa con i capelli bagnati le ho detto che nemmeno io volevo che tornasse in quella scuola. Ho scritto una mail alla coordinatrice di classe, tanti saluti e arrivederci, spero a mai più.

E’ andata così ed è andata benissimo, ma non certo per merito mio. Mia figlia è stata coraggiosa a decidere di cambiare tutto, anche i compagni di classe, quindi la vita, a metà strada, io per una volta ho ascoltato e basta e non le ho detto: ma sei grande, ma sei piccola, ma devi reagire, ma devi essere felice, ma guarda che anche io ho sofferto, ma guarda che i miei professori erano peggio, ma guarda che è colpa di Internet, ma guarda che ai miei tempi avevo solo due paia di jeans, ma guarda che mia madre non mi avrebbe mai permesso di cambiare scuola, ma guarda che stai sempre su TikTok. «Dopotutto, per mettersi in una posizione di ascolto rispetto all’altro bisogna essere sufficientemente saldi, soprattutto se l’altro è un figlio che inciampa, che va incontro a fallimenti e delusioni, che prova dolore».

Vogliamo che i nostri figli siano sempre felici, felici a modo nostro e felici per merito nostro, per le nostre migliori intenzioni, per tutte le nostre energie profuse in empatia, per tutta la paura che abbiamo che soffrano. Quanto siamo fragili! E quanto sei fragile anche tu, professoressa apatica che non hai nessuna voglia di ascoltare, nessun interesse a tirar fuori l’interesse degli studenti, incapace di accettare che il mondo cambia, la scuola cambia, i tuoi tempi sono già cambiati, ma questi esseri umani giovani e tutti diversi che hai di fronte con i telefonini sotto il banco sono la tua grande possibilità di andare verso il futuro senza un’unica, misera ricetta. La possibilità di diventare più salda, anche. Lo dico a me stessa prima che a tutti gli altri: qui non si tratta di noi, ma di loro. Raggiungiamoli là dove si trovano, invece di trascinarli qui. Raggiungiamoli là (non sotto la doccia, come a volte cerco di fare io bussando alla porta del bagno. La risposta è sempre, giustamente: adesso tocca a me)