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Ehi piccolo uomo, il finale dipende da te

Lewis Mumford analizzava già nel 1956 il percorso dell’umanità: la scienza e la tecnica prendono sempre più il posto della letteratura e della filosofia e nel futuro automatizzato anche l’intelligenza sarà priva di coscienza. L’utopia è guardarsi di nuovo negli occhi

Si parla da tempo di uomo post-storico e post-umano. Comunque si intendano queste espressioni, il loro primo significato è preoccupante, nonché sfuggente. Ogni epoca o periodo o situazione della nostra storia che pretenda di definire che cosa “sostanzialmente” ci sta accadendo, cerca anche di comunicarci qualcosa di assolutamente originale. È come dire: ci tocca il privilegio o la disgrazia di vivere esperienze mai in precedenza vissute dal genere umano. In questo non manca naturalmente una certa retorica. Eppure senza dubbio la storia umana, soprattutto ora che sentiamo il bisogno di considerarla sinotticamente, dall’inizio fino al presente e al prossimo futuro, impone periodizzazioni progressive o involutive piuttosto precise.

A cominciare dai manuali scolastici, i libri di storia ci avvertono dell’esistenza di una Preistoria, che poi diventa storia antica, poi medievale, poi moderna e infine contemporanea. Ma per quanto chiari siano i caratteri di ogni usuale ripartizione, bisogna dire che mai come oggi si era arrivati al punto di parlare di post-storia e post-umanità: e come non pensare che dire post-umano non significhi disumano?

Il Novecento è stato un secolo così storicamente catastrofico, con le guerre del 191418 e poi del 1939-45, che “gli ultimi giorni dell’umanità”, di cui parlò subito Karl Kraus in uno dei capolavori letterari meno letti del secolo scorso, sono diventati un ammonimento incancellabile. Da allora in poi, che si conosca o si ignori Kraus, l’idea di fine, il senso della fine e le ipotesi di un superamento di ogni precedente concezione umanistica e perfino umana, incombono sulla nostra cultura.

Al primo posto nelle stratificazioni di significato di un prossimo salto nel futuro, c’è anche l’idea di regressione, di involuzione e catastrofe. L’andare oltre un certo limite, del quale sappiamo poco, significherebbe anche un tornare indietro: e non si sa di quanto. È noto che Walter Benjamin, in uno dei suoi testi più famosi, le Tesi di filosofia della storia, avendo in mente l’annuncio apocalittico di Kraus, dice che “tutto il patrimonio culturale (…) non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie”. Fra progresso e regresso, non bisogna trascurare la possibilità di un’implicazione reciproca. Le catastrofi spingono a progredire, ma anche un cieco progredire è di per sé catastrofico.

Del tutto estraneo alla tradizione filosofico-teologica tedesca, il quasi coetaneo di Benjamin che era l’americano Lewis Mumford pubblicò nel 1956 Le trasformazioni dell’uomo, un saggio di antropologia storica pubblicato solo ora in Italia a cura e con un originale saggio introduttivo di Massimo Rizzante (Mimesis, 248 pp., 18 euro). L’arco storico preso in considerazione forse fa venire le vertigini, ma aiuta a ricordare in sintesi l’intera vicenda evolutiva in cui i progressi mettono sempre a rischio quanto si è in precedenza acquisito.

Il capitolo iniziale è intitolato “Dall’animale all’uomo” e alla fine si arriva all’uomo poststorico e alle prospettive offerte nel prossimo futuro da una “cultura mondiale”.

“Non essendo uno specialista” dice Mumford “ho approfittato di una libertà a cui gli specialisti rinunciano troppo spesso: quella di mettere in relazione i dati provenienti dai campi più diversi”. Negli studi settoriali spesso a mancare sono le connessioni antropologiche e storiche fra una dimensione sociale e un’altra, fra le risposte ai bisogni primari di sopravvivenza da un lato e dall’altro l’universo simbolico-culturale di miti, credenze e valori: “Quel che ai nostri giorni si caratterizza come ‘cultura dell’istante’ è un tentativo deliberato di eliminare i tratti più essenziali del patrimonio umano: la memoria collettiva degli avvenimenti del passato, la trasmissione delle realizzazioni del presente, l’anticipazione degli effetti nel futuro”. Mitizziamo i risultati tecnico-organizzativi del presente e pensiamo al loro prolungamento lineare nel futuro, dimenticando la portata creativa di molte imprese umane realizzate dal passato più remoto fino al passato più recente. Le piramidi sono state costruite senza l’aiuto di macchine rudimentali come la carrucola e il carro e in più “il linguaggio degli egizi e dei sumeri, come di altri popoli ancora più antichi, aveva già raggiunto un grado di ricchezza, complessità, unità, flessibilità e autonomia organizzativa che superava di molto i risultati delle macchine più perfezionate (…) Le misurazioni meravigliosamente esatte degli ingegneri-costruttori erano il prodotto di un’organizzazione mentale raffinata e non solo di una abilità manuale di routine”.

Le tappe del lungo percorso esaminato da Mumford sono queste: l’uomo arcaico, l’uomo civilizzato, l’uomo “assiale”, l’uomo del Vecchio Mondo, l’uomo del Nuovo Mondo, l’uomo post-storico e la cultura mondiale dal presente al futuro prossimo.

L’uomo arcaico risponde a un primo bisogno di umanizzazione in “uno sforzo costante di autoidentificazione, autoaffermazione, autodisciplina e autosviluppo (…) Diventando umano, l’uomo scambia l’io naturale, proprio di ogni specie biologica, con una moltitudine innumerevole di io possibili (…) ogni comunità, nel suo isolamento, considerava la sua cultura superiore alle altre (…) la vita dell’uomo acquisiva senso e valore solo all’interno di un gruppo ristretto”. Questo uomo arcaico si formò nel villaggio neolitico, fatto di tribù, clan, famiglie, ma la sua cultura ha continuato a vivere fino alla fine del diciannovesimo secolo.

L’uomo civilizzato, fra il Quarto e il Primo millennio a. C., crea l’organizzazione politica che oggi chiamiamo Stato e ci ha lasciato città sepolte, templi, palazzi, tombe monumentali, opere d’arte, testi scritti e registri contabili. Economicamente è un ordine “basato in larga misura sul feroce sfruttamento imposto ai coltivatori e agli artigiani da una minoranza armata e minacciosa”. Si sono creati gruppi e ruoli rigidamente distinti: soldati, mercanti, uomini di lettere, funzionari amministrativi. Specializzazione, efficienza e competenza determinano la “vita civilizzata”. Ma questa civilizzazione ha già i suoi lati sinistri: schiavitù, lavoro obbligatorio, irreggimentazione sociale, sfruttamento economico e guerra organizzata.

Il passaggio al cosiddetto uomo “assiale” si verifica con la nascita delle prime religioni universali come il buddismo, lo zoroastrismo e poi con il cristianesimo e l’islam. Dal Sesto secolo a. C. con le Upanisad indiane e con profeti come Isaia compare la tendenza a considerare la vita come una lotta costante fra il bene e il male nel mondo esterno e in quello interiore, nella prospettiva utopica di un cambiamento dell’ambiente che passa attraverso la cura, il perfezionamento dell’anima individuale.

L’uomo del Vecchio Mondo è quello che continua a caratterizzare la specie umana fino alle soglie dell’Ottocento. Si perpetua la fede nella memoria del passato e nella sua eredità custodita e tramandata da eruditi e sacerdoti. I progressi tecnici sono stati minimi per circa due millenni.

Siamo così all’uomo del Mondo Nuovo, nel quale l’uomo romantico e l’uomo meccanizzato convivono o si contrappongono. L’uomo romantico si è rivolto al passato e alla natura, l’uomo meccanizzato alla razionalità utilitaristica, all’organizzazione standardizzata e sorvegliata, a una collettività dominata dalla macchina. La cultura che ha ridotto tutti i fenomeni naturali a unità misurabili e calcolabili non poteva risparmiare l’uomo e il suo io. Gli individui sono stati trattati socialmente soprattutto come unità numeriche. È l’economia come sistema globale.

A questo punto Mumford non può evitare un’ovvia constatazione: nel passaggio all’uomo del Nuovo Mondo l’ira, l’avarizia, l’invidia, la gola, la lussuria, peccati capitali combattuti dall’uomo del Vecchio Mondo, diventano le forze motrici dell’economia del Nuovo Mondo. Quelli che erano stati “i vizi dei ricchi, sono diventati, come voleva la dottrina della crescita dei bisogni, i vizi di tutte le classi sociali”. Mentre il Vecchio Mondo aveva posto limiti a tutte le attività umane, la cultura del Nuovo Mondo, creata dallo sviluppo economico ininterrotto, non teme più i pericoli di ogni eccesso e anzi li induce, li incoraggia e li crea perché ha bisogno di una quantità di consumatori adeguata alle dimensioni illimitate della crescita produttiva: “Secondo questo sistema di vita, gli scopi e i fini in grado di suscitare una trasformazione interiore diventano obsoleti: l’espansione della meccanizzazione era ormai lo scopo supremo. La macchina era nello stesso tempo il fine necessario e il mezzo ultimo”.

Eppure non si era e non si è del tutto spenta la dialettica fra la cultura economicamente preponderante della macchina e dell’uomo meccanizzato da un lato e gli “elementi romantici” persistenti dall’altro. Secondo il tipo del Filosofo Romantico “bisogna abbandonare la città, le istituzioni, i cerimoniali, smettere di affaccendarsi a comprare e a spendere, poiché tutto ciò impedisce lo sviluppo della vita affettiva”. I grandi classici del cosiddetto Rinascimento Americano, Thoreau in Walden o La vita nei boschi, Melville in Moby Dick e Whitman in Foglie d’erba, hanno dato forma ideale a questo tipo di cultura. L’elemento romantico aveva le sue radici profonde e altre ne avrebbe trovate nella scoperta delle tradizioni orientali: “Ma proprio quando la componente romantica della cultura del Nuovo Mondo era sul punto di fiorire, l’estensione implacabile della macchina cominciò a compromettere una dopo l’altra tutte queste forme”.

Le conclusioni dell’americano Mumford sull’uomo del Nuovo Mondo arrivano al Duemila e la sua diagnosi è disperatamente attuale: “il Nuovo Mondo è stato soltanto un mondo a metà” e l’uomo romantico è stato sconfitto. Si può solo aggiungere che l’uomo macchina “romanticizzato” come un’espansione della soggettività: “A questo stadio non si potrà distinguere l’automatismo dell’istinto dall’intelligenza automatizzata: né l’uno né l’altra lasceranno la possibilità di un mutamento e alla fine anche l’intelligenza sarà priva di coscienza”.

Vorrei essere riuscito a suggerire quanto attuale sia questo libro di Mumford uscito prima nel 1956 e poi nel 1972. Meglio di me lo ha fatto Massimo Rizzante nel saggio introduttivo “L’arte segreta di diventare umani”. Già, un’arte divenuta oggi una scienza esoterica che non si sa più dove imparare perché “a partire dalla seconda metà del XX secolo” dice Rizzante “la scienza e la tecnica hanno preso sempre più il posto della letteratura, dell’arte e della filosofia”. Oggi “tribalismo e high-tech vanno a braccetto in ogni angolo di strada” e il famoso uomo post-umano sarà un povero centenario che sopravvive “in una casa di riposo del Vermont o della bassa padana con un cucciolo-robot come unica compagnia”.

Questo suggerito dall’immaginazione letteraria di Massimo Rizzante è un finale in stile Arancia meccanica di Kubrick e Finale di partita di Beckett. La storia millenaria dell’homo sapiens non merita altro che la violenza del degrado psicosociale urbano e la desolata decrepitezza di un essere umano assistito e consolato da un cagnolino meccanico? In realtà il finale di Mumford apre alla speranza di una cultura mondiale trasformata in una nuova mega comunità che ritrovi i primordiali conforti degli scambi personali quotidiani, con il loro “guardarsi negli occhi” riconoscendo di essere “tutti nella stessa barca”. La famiglia, il vicinato, il gruppo di lavoro, le amicizie ci salveranno e ci renderanno migliori? Avremo un mondo più aperto e un io più equilibrato e capace? L’utopia di Mumford mi commuove. È augurabile ma poco credibile. Un’umanità “mutata” anima e corpo dalle macchine e imprigionata dal loro potere dà piuttosto ragione al pessimismo di Beckett e Kubrick, di cui saranno dimenticati anche i nomi.

Alfonso Berardinelli (Roma, 1943), saggista e critico letterario. Ha insegnato Letteratura contemporanea all’Università di Venezia. Ha fondato e diretto con Piergiorgio Bellocchio la rivista “Diario” (1985-1993, in volume Quodlibet, 2010). Il suo ultimo libro è “Giornalismo culturale. Un’introduzione al millennio breve” (il Saggiatore, 2021).