Da vero islandofilo, io guardo i film islandesi soprattutto per vedere i panorami dell’Islanda: le distese di lava punteggiate di muschio, il bianco abbagliante dei ghiacciai, i fiumi e le cascate rapinose, i villaggetti di tre case con dietro la piscina d’acqua calda e il maneggio, cavalli tarchiati e dalla folta criniera. Mi bastano i panorami e sono contento, questa boccata di Islanda mi basta per convincermi di aver speso bene i soldi del biglietto. Però da qualche tempo ho l’impressione che questi se ne stiano approfittando.
Una delle idee geniali degli islandesi, dopo la bancarotta del 2008, è stata concedere permessi gratis alle troupe che volevano girare nel territorio dell’isola, e anzi aiutarle, queste troupe, con “a generous refund policy on production costs for foreign film makers” (così il portale www.iceland.is). Insomma, cinematografia sovvenzionata dalla pro loco, un po’ come nelle nostre Film Commission regionali, ma con un dipiù di esotismo, ed evidentemente di appeal nei confronti delle fondamentali produzioni americane, che sono calate come mosche sul miele. Risultato: molti suggestivi scorci islandesi in blockbuster come Game of Thrones o Batman Begins o Die Another Day; ma soprattutto valanghe di video musicali girati tra i ghiacciai e i vulcani e il litorale di sabbia nera, dai Take That che hanno aperto la strada (Patience, già nel 2006) a I’ll Show You di Justin Bieber (mezzo miliardo di visualizzazioni: vuol dire potersi permettere di chiudere l’agenzia del turismo), a Holocene di Bon Iver, a I Don’t Want To Change You di Damien Rice, a Head Above Water di Avril Lavigne, al nostro Mengoni (Ti ho voluto bene veramente); senza parlare degli autoctoni: i Sigur Rós, Björk, gli Of Monsters and Men. Una gioia per gli occhi, nonostante un sospetto di kitsch; e una gioia che non richiede grandi sforzi registici: basta mettere la macchina da presa in mezzo a un prato, o far decollare il drone, e il paesaggio islandese fa il resto. Ma i film? E’ possibile che la retorica dei video musicali abbia stinto sul lavoro dei registi islandesi di cinema, facendo diventare anche loro retorici, anche loro kitsch? Apprezzato ai festival di Cannes e di Torino, elogiato dai recensori, anche premiato da qualche parte, 88 per cento di gradimento su RottenTomatoes, il film Godland (2022) racconta l’avventura di un giovane prete protestante che parte per l’Islanda su incarico della diocesi di Copenaghen per costruire una chiesa nelle regioni settentrionali dell’isola. Siamo alla fine dell’Ottocento, l’Islanda appartiene ancora al Regno di Danimarca (gli islandesi non ne sono contenti, e questa scontentezza, anche quest’odio nei confronti dei danesi, è uno dei motivi ricorrenti nel film). Il giovane prete Lucas è anche fotografo, in quell’età aurorale della fotografia, perciò si porta dietro dalla Danimarca tutta un’attrezzatura ingombrantissima per scattare e sviluppare foto, e lastre al collodio, e alambicchi col nitrato d’argento, e treppiedi e drappi per costruire una piccola camera oscura en plein air (il turbolento air islandese: impresa per niente banale, e infatti la cosa lo farà molto innervosire). Porta con sé anche una gigantesca croce impacchettata che giustamente perderà al primo guado, e valanghe di altri bagagli che lo impicceranno tantissimo lungo il tragitto. Del resto si capisce: “Viaggiare leggeri”, dovendo stare via tutta la vita, non era un’opzione. Lo accompagnano un traduttore danese-islandese, una guida saggia e malmostosa, una pattuglia di sherpa, cavalli da soma.
Perché, uno si domanda, portarsi addirittura il crocifisso da casa? Forse perché in Islanda non crescono alberi? Vero, ma le spiagge islandesi sono anche piene di tronchi portati dal mare (le case e le barche le hanno costruite così), e infatti a metà film vediamo lo scheletro della chiesetta in costruzione, e le assi sono tutte lì in bell’ordine, tagliate e sagomate, solo da verniciare. E quindi? No, il crocifisso portato dalla Danimarca è un simbolo, più precisamente qualcosa di simile a ciò che i critici letterari chiamano correlativo oggettivo, un oggetto parlante che serve a dire quanto è cieca la fede e quanto è faticoso il viaggio: serve a far venire in mente la follia di Fitzcarraldo o la devozione di Mission (dove Mendoza-DeNiro si porta appresso il fardello dell’armatura per ricordarsi di aver ammazzato il fratello durante una lite, ed espiare il suo peccato: correlativo oggettivo giustificato dal punto di vista narrativo), è il segnale che non ci troviamo nel perimetro del romanzo ma in quello dell’epos.
Dunque, viaggio dal sud al nord dell’Islanda per costruire una chiesa. Ma perché invece non sbarcare direttamente a nord, e risparmiarsi questo calvario, con i cavalli stracarichi di valigie, con i fiumi in piena che li travolgono, con l’inverno che incombe? Non si poteva fare un’altra volta? Troppo facile. Il prete-fotografo – lo spiega lui stesso al suo ospite nord-islandese, verso la metà del film – vuole proprio attraversare il paese, conoscerlo, sfruttare l’apparato fotografico sesquipedale che si è portato da casa: l’ha comprato, ora gli tocca usarlo. Come il crocefisso impacchettato, anche questo attraversamento dell’Islanda non si giustifica, o meglio si giustifica solo simbolicamente, intanto in quanto conferisce un’aura epica a quello che, organizzato meglio, più razionalmente, avrebbe potuto essere un viaggio persino piacevole. Anche perché, per quanto poco ospitale, l’Islanda dell’Ottocento era transitabilissima. Ben prima che inventassero la fotografia, ben prima che padre Lucas montasse a cavallo senza saper cavalcare, il magnifico sir Richard Burton (1821-90) aveva esplorato l’isola in lungo e in largo senza grandi patemi. Facendo deliziosi disegni, anziché fotografie. E come Burton altri precursori: Ebenezer Henderson (1784-1858), Lord Dufferin (1826-1902). Insomma, quella di Godland è tutta una tragedia di cartapesta, tutta una finta; ma la cosa si spiega, perché questi eccessi patetici, oltre a dare allo spettatore il brivido di un’epica posticcia, devono sopperire a difetti evidenti della sceneggiatura e dei dialoghi. Il film è diviso in due metà: la prima è il viaggio, la seconda è il soggiorno nel micro-villaggio in cui si costruisce la chiesa. Il finale è tragico, cruento; ma la verità è che niente ci ha preparato a quegli ultimi dieci minuti, allo scoppio di quella violenza: non si capisce minimamente perché X uccida Y (che gli ha salvato la vita, e sta per tornare a casa sua), e non si capisce bene perché Z uccida Y (che si stava togliendo dai piedi). Bei paesaggi, però.
Il precedente film di Pálmason, A White, White Day (2019), instant classic, “film-rivelazione di un giovane maestro”, 95 per cento di gradimento su RottenTomatoes, è ambientato ai giorni nostri, ma anche qui l’indugio sulla ruvida geografia islandese serve soprattutto a far sì che lo spettatore non presti troppa attenzione a un plot di carta velina. Il cupo poliziotto Ingimundur è rimasto vedovo, tre anni prima la giovane moglie ha preso una curva diritta ed è finita nella scarpata con la macchina. Succede. Per far capire che sono passati tre anni dall’incidente Pálmason riprende la stessa casa di campagna nel corso di 4+4+4 stagioni (in Godland fa lo stesso gioco in timelapse con lo scheletro di un cavallo). Sono belle immagini, non c’è niente di meno che bello nella natura islandese, ma la trovata in fondo è puerile e, come tanti dettagli di questi film, non si giustifica se non appunto perché aggiunge una dose di misticismo a quella cosa banale che è il passare del tempo. Per caso (ma il più telefonato dei casi: un video di lei che fornica con l’amante), il vedovo scopre che la moglie lo tradiva con un suo (di lui) compagno di calcetto. Allora per punizione il vedovo brutalizza l’adultero; il quale però si vendica, e brutalizza a sua volta il vedovo davanti agli occhi innocenti della nipotina. Nella scena madre, immortalata anche nella locandina del film, il vedovo, ferito a un braccio ma stoico, attraversa una galleria buia con la bambina in braccio. Perché lo faccia, è un mistero: ma non importa, perché il gesto incomprensibile viene subito trasfigurato in simbolo: la galleria è una soglia, varcata la quale il vedovo potrà finalmente accettare la morte della moglie fedifraga. Anche in questo film mancano gli eventi, i dialoghi sensati, gli episodi che diano un po’ di consistenza a personaggi che restano evanescenti, dimenticabili; ma c’è l’Islanda: la neve bianca, la nebbia grigia, i cavalli lungocriniti, e di nuovo tutta questa magnificenza aiuta a scordare le magagne della sceneggiatura, e avvolge di sintomatico mistero quella che è molto semplicemente la disgrazia di un vecchio cornuto.
Lamb di Valdimar Jóhannsson (2021) è una specie di elaborato screensaver messo in moto dalla seguente idea balorda. In una sperduta fattoria nord-islandese una pecora dà alla luce una strana creatura con la testa di un agnello e il corpo di una bambina. I due giovani padroni della fattoria, una coppia senza figli, accolgono il mostriciattolo come se fosse figlia loro, sottraendolo alla pecora-madre. Peccato di hybris, di specismo: che verrà punito alla fine del film dalla vendetta di un nerboruto uomo-pecora munito di fucile (il padre dell’ibrida “Ada”, si suppone). I recensori hanno molto speculato sulla simbologia animalista, sulla rivolta della natura contro un’umanità sfruttatrice e crudele, sulla maternità surrogata persino. Invece è tutta una cazzata, per di più costellata di dialoghi di questa risma, dialoghi che sarebbero imperdonabili se appunto, abbagliato dai panorami islandesi, lo spettatore non fosse disposto a bersi quasi qualsiasi cosa:
Lui: Dicono che da ora si potrà viaggiare nel tempo.
Lei: Davvero? Lui: Mmm.
Lei: E dicono anche come?
Lui: Hanno detto teoricamente, teoricamente possibile.
Lei: Ah. Dovrebbero fornire anche qualche dettaglio pratico.
Lui: Probabilmente sì… Non che muoia dalla voglia di conoscere il futuro. Io preferisco il qui e ora.
Lei: E’ possibile quanto… tornare indietro nel tempo.
Lui: Già. Hai ragione.
E vabbè. C’è bisogno di prendersela? Un po’ sì. Non tanto per la spesa per il cinema (8+8 euro) e il noleggio (3,99 euro su GooglePlay), quanto perché questi film furbi stanno facendo diventare volgare il paese che amo, l’Islanda. Che a essere sinceri si è già parecchio involgarita nell’ultimo decennio a causa dell’invasione turistica, con tutti questi pezzenti in Moncler che fanno i filmini col cellulare davanti al geyser, tutti questi europei che vanno a festeggiare gli addii al celibato a Reykjavík ubriacandosi e dormendo per strada nei sacchi a pelo. Ma come c’è una volgarità della folla, così c’è una volgarità della rarefazione, dei grandangoli spalmati su vasti paesaggi deserti, se questa rarefazione diventa un feticcio, e si finge simbolo di chissà quali insondate profondità. Uno non pretende il cinema che rispecchia le “condizioni oggettive della vita”, ma nemmeno vuole essere ricattato dalla bellezza del mondo, quando quello che cerca è una storia interessante raccontata bene. Magari basterebbe cominciare a girare in interni.