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Grazie a dio, Eva ha mangiato la mela

In ebraico il cimitero è la “casa dei vivi”, perché la morte riguarda noi vivi, e solo questa consapevolezza ci fa rimboccare le maniche. E poi ridere di tutto, anche dei tabù, con l’umorismo spietato che salva

C’è una vecchia storiella che racconta più o meno così: l’anzianissimo Moishele sta morendo. È ormai un cartoccio di ossa e pelle incartapecorita. Tutta la mishpoche, la famiglia, è riunita sotto il suo tetto in attesa del terribile ma imminente e inevitabile momento. «Zayde, nonno, siamo tutti riuniti qui accanto. Che cosa possiamo fare per te, zayde? Che cosa vorresti prima di lasciarci per raggiungere l’altro mondo e dimorare nel Gan Eyden insieme ai giusti?». Moishele libera due brevi, secchi colpi di tosse, tira un respiro colmo di affanno, allarga le tremule narici, e dalle labbra screpolate esce un sottilissimo filo di voce:

«Oh, bubele, vorrei tanto una fettina della torta di mele che prepara la mia cara mogliettina… uhmmm… sento il profumo».

«Non se ne parla nemmeno», s’ode una voce dalla cucina, «quella è per dopo il funerale». L’umorismo ebraico sa, a volte ma nemmeno troppo di rado, essere spietato. Ma non si può dire che non vada al punto. Sa far ridere là dove meno te lo aspetti, dalle ristrettezze economiche ai pogrom a Hitler, ha un talento tutto speciale per l’autoironia e va a nozze con i tabù. Anche con l’unico che forse ci è rimasto e cioè la consapevolezza drastica, incontrovertibile eppure inaccettabile, che prima o poi si muore. Che la morte è l’unica certezza di cui la vita è capace, perché il resto è tutto fatto di ipotesi, speranze, minacce, attese, paure, desideri, corpo a corpo con l’arbitrio.

Ridere della morte in fondo è più facile che accettarla per davvero, che prenderla sul serio. Perché nel tempo laico e multiforme in cui stiamo vivendo – e ben vengano ancora, tempi laici, multiformi e liberi come il nostro: per smettere di lamentarsene basta uno sguardo fuggevole al “come eravamo”, e trovarci dentro tutto quel che mancava e invece ora c’è, dall’acqua corrente al pensiero debole – in questo nostro tempo, insomma, l’ultimo tabù, l’ultimo argomento intoccabile se non per giro di parola, metafora, congettura, è la morte. Pensare che è proprio questo il confine fra noi umani e il regno animale tutto o anche solo la parte più “evoluta” (sempre in un’ottica umana, mai animale): che noi lo sappiamo, di dover morire – in prima persona. Gli animali, fino ai primati, conoscono la morte altrui ma non la propria. Noi, teoricamente, sì.

Quasi da sempre, lo sappiamo, che prima o poi tocca a noi. A tutti, senza distinzione di razza, cultura, fede, rango. Lo racconta già la Bibbia, che è così, lo dice chiaramente e all’inizio del racconto. Tutto parte di lì e lì arriva, alla consapevolezza della mortalità. Lo sappiamo bene, che siamo di passaggio: ce lo hanno spiegato.

Perché quando Eva, bontà sua, assaggia il frutto proibito, nel momentum in cui lei, bontà sua, affonda i suoi denti nuovi (tutto è nuovo in lei, del resto) in quella drastica polpa, lì succede. E meno male che lo ha fatto: altro che peccato!

Innazitutto perché nel momento in cui il Signore dice ad Adamo: prendi e mangia tutto quel che ti pare in questo giardino dell’Eden, tutto tranne quel frutto lì, vedi, quello della conoscenza (del bene e del male), quello no, lascialo stare, in quel momento della storia Eva non c’è. Ma non nel senso che si era allontanata, assentata, era impegnata a fare altro. Eva in quel momento non era ancora stata creata, e nemmeno concepita (né da Adamo né da Dio). Dunque, quanto meno il beneficio d’inventario del non aver sentito l’ingiunzione divina perché doveva ancora venire al mondo, lei e le sue orecchie per sentire e la sua mano per prendere e i denti per assaggiare, quanto meno quel beneficio lì glielo si potrebbe concedere invece di considerarla la matrice della colpa, unica artefice del peccato originale, come da millenni succede.

Ma poi, e questa è la vera ragione per cui Eva va benedetta, assaggiando quel frutto fa qualche cosa di indispensabile, anzi salvifico per tutti noi che siamo venuti dopo. Che non saremmo venuti dopo se prima Eva e poi Adamo non avessero assaggiato quel frutto e grazie a quell’assaggio compreso che erano – no, nudi no, o fors’anche ma non è questo il punto – mortali. Il “morire morirai” che viene dopo il divieto biblico “non mangiarlo, sennò…”, non significava che sarebbero rimasti stecchiti sul momento – cosa che in effetti non succede –, bensì che avrebbero conquistato una immediata e folgorante conoscenza della propria natura effimera. Infatti, appena appropriatisi loro malgrado di tanta lucidità, Eva e Adamo non si “vergognano”, come normalmente viene tradotto l’oscuro verbo ebraico. Più presumibilmente, “hanno contezza della propria fragilità di esseri inermi di fronte al tempo che passa”.

E altro che foglia di fico: la coscienza della propria morte fa rimboccare le maniche. Così va interpretata la maledizione che Dio infligge a entrambi, ciascuno a suo modo: è il preludio della storia, di una storia che non sarebbe mai iniziata né per quei due né per noi che siamo i loro discendenti, se loro fossero rimasti, beati, ignari e fors’anche un po’ annoiati, lassù nel giardino dell’Eden. Perché la morte è certamente l’ultimo tabù che ci è rimasto addosso. Perché la morte va rinnegata e in fondo questo facciamo ogni giorno che passa quando la vediamo passare sui titoli di cronaca, quando ne sentiamo parlare in lontananza o ci sta in agguato vicina, dietro l’angolo. La rinneghiamo perché è così facile e liberatorio dire: vabbè, è toccato a lui/lei, ma a me no. Io non sono come loro, a me no, non succede. Però sappiamo anche che se non ci fosse la morte in fondo alla strada la vita sarebbe un’eternità monotona, terribilmente insopportabile. Come ha scritto anche papa Benedetto XVI, la certezza e la speranza di un aldilà sono anche l’evidenza che l’immortalità sarebbe noiosissima. L’ha detto non proprio così, ma il concetto è quello – e tutti, laici e credenti, fiduciosi nell’aldilà o meno, non possiamo che dirci tremendamente d’accordo. O no?

Eppure il sogno di un’eternità impossibile, anche se lo sappiamo bene che se ci fosse sarebbe insopportabile, è il nostro motore mobile, l’impulso primario che ci spinge a vivere, fare, riprodurci, godere e soffrire, costruire e contemplare. Ci diamo da fare (e intanto a quanto pare Dio ride) perché sappiamo che prima o poi tutto questo finirà anche per noi e non soltanto per il prossimo. In fondo in fondo, lo sappiamo che toccherà morire anche a noi oltre che a tutti gli altri, anche se ci piace e forse non possiamo fare a meno di rinnegarla, la nostra morte. Ma è lei che ci dà la spinta, ci fa muovere dentro la vita.

E sappiamo anche che quel momento lì è la fine: che la morte non è una specie di vita. È proprio la fine, anche se c’è un aldilà diviso per buoni e cattivi e quelli che non si sa bene come siano. Lo sappiamo bene, che questa cosa qui che chiamiamo vita, con un corpo e dei pensieri, con una fantasia e delle mani che si muovono e si toccano e degli occhi per guardare e delle orecchie per sentire magari musica assordante magari un silenzio profondissimo, che tutta questa roba finisce. Stop.

È la fine, sì, ma senza la morte, che vita sarebbe?

Non a caso, del resto, in ebraico il “cimitero” si chiama “casa dei vivi”. E, si badi bene, non è affatto per eufemismo, anzi. Il rito ebraico intorno alla morte, così come il repertorio di barzellette in merito, non risparmia nulla dell’evidenza che morire è sparire – per se stessi e per gli altri. Un infinitesimo attimo dopo l’ultimo respiro il corpo defunto non ha più nulla a che vedere con la persona che era: lo si copre immediatamente perché non ha più nulla da raccontare, nessun sentimento da accogliere. La morte così è riconosciuta per quello che è, e a chi resta e soffre non resta che accettarla, per quello che è. Nella tradizione ebraica l’unica concessione è il precetto che impone di coprire gli specchi di casa, come un impulso di pietà per chi ci passa davanti, rigetta uno sguardo e ritrova un se stesso orbato, diverso da prima, segnato dall’assenza di chi non c’è più. Lo specchio coperto è l’unico palliativo possibile, per lenire la perdita.

Il cimitero si chiama “casa dei vivi”, dunque, non per non nominare la morte, per tacerla, negarla alle parole. È, piuttosto, un attestato di certezza: che la morte riguarda noi vivi, e non i morti. Ci riguarda perché la morte fa parte della vita e non d’altro. Anche quando la si getta dietro l’angolo, si evita di riconoscerla. Anche quando la si subisce e si soffre indicibilmente. Ma siamo sempre noi vivi, a soffrire la morte. A sentire l’assenza come la più acuta presenza che ci sia, perché quello è.

E così, non ci libereremo forse mai dal tabù della morte, dalla nostra incapacità di accettarla. Ma provare a parlarne, da vivi, nella casa dei vivi o altrove, è l’unica strada che abbiamo per andare avanti serenamente lungo questo breve, manchevole e impagabile cammino che la vita è, proprio perché dopo c’è soltanto la morte.

Elena Loewenthal (Torino, 1960) è scrittrice, traduttrice e studiosa di ebraistica. È direttrice del Circolo dei Lettori di Torino. Tra i suoi ultimi libri: «La carezza. Una storia perfetta» (2020), «Libertà vigilata. Perché le donne sono diverse dagli uomini» (2021), entrambi usciti per La Nave di Teseo.