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Guarda lei, è proprio come ti vorrei

Tutte le storie ci riguardano, ogni canzone parla di noi. Il legame emotivo diventa autobiografico: si chiama identificazione, ma anche erotomania. Da Lucio Battisti a Charlie Brown, la mia vita è un’enorme confusione tra quello che ho vissuto, visto, letto e ascoltato

C’è una coppia che discute per strada. In realtà litigano, ma se glielo chiedessero,  risponderebbero  che stanno discutendo. Anzi, sono su per giù alla fine del litigio, visto che lui sfinito dice: non parliamo più, a parlar non serve granché. E le offre le castagne arrosto che ha comprato (ma le ha comprate mentre litigavano?). Poi, in modo fintamente conciliante: hai ragione tu, io non sarò mai come vuoi.

È la questione primordiale delle coppie. Non si può desiderare che l’altro sia come lo si vorrebbe, tutti sono coscienti e d’accordo su questo; ma non riescono a non desiderare, a non combattere, a non incazzarsi perché l’altro non è come lo si vorrebbe. Se si concedesse un’amnistia su questo nodo filosofico, sarebbero risolti i problemi di tre quarti delle coppie nel mondo.

E comunque i due stanno passando accanto a un cinema; e lui, anche forse per non litigare (discutere) più, esclama entusiasta: guarda c’è un bel film, se facciamo in tempo ci andrei. Già il fatto che passino accanto a una sala cinematografica, in centro, fa intuire che non è una storia di oggi. Entrano. Lui dice: c’è un posto siedi, io resto in piedi.

Quindi, è definitivamente chiaro che non è una storia del 2022. Non ci sono sale cinematografiche così piene da restare in piedi; e in ogni caso, al cinema, da molti anni, i posti si prenotano, e non si può stare in piedi. Così come non si fuma più, non si sta più in piedi. Io per esempio da ragazzo ho visto Ricomincio da tre tre volte in tre giorni consecutivi al cinema, e tutte e tre le volte l’ho visto in piedi. Perché il cinema era strapieno, e non potevi sederti nemmeno per un po’ a terra, perché c’era così tanta gente in piedi che sedersi a terra voleva dire non vedere più niente.

La storia della coppia è in una canzone del 1978. È di Lucio Battisti con il testo di Mogol. Fa parte di un album leggendario, Una donna per amico. Si intitola Al cinema, è l’ultima canzone del lato b. Nel film che i due vanno a vedere ci sono Dustin Hoffman, Al Pacino e Faye Dunaway. Ma è un film che non esiste. Probabilmente, la Dunaway nella canzone e quindi nel film c’è per questioni di rima (“la Dunaway, guarda c’è anche lei”). Ma è un film che i due guardano, dopo aver discusso, una seduta l’altro in piedi. Il punto di vista della canzone è di lui, e quindi è con lui che guardiamo il film inventato.

E così, accade quello che accade così spesso nella vita delle persone, e in particolar modo delle persone che hanno appena litigato, o comunque con problemi d’amore – ma accade anche a quelle felici, o solitarie, o alle prese con un dubbio esistenziale, leggere, pesanti, di carattere facile o difficile, timorose, coraggiose, sensibili e anche alcune di quelle insensibili: lui nel film vede molte cose che lo riguardano. Accade continuamente, specialmente se presi da un tormento emotivo. Adesso non so – e non ha importanza – se sta rimuginando nella sua testa o sta parlando con lei; ma se lui è in piedi, e lei è seduta, lui dovrebbe continuamente muoversi, abbassarsi, sussurrare nell’orecchio di lei e rimettersi in posizione. Gli altri, tanti, nel cinema non sarebbero contenti. Eppure credo che la canzone suggerisca che lo stia facendo; ma io preferisco pensare che stia rimuginando nella sua testa.

Guarda lei, è proprio come ti vorrei

Guarda lei, lo ama e non si lamenta mai

In fondo lui assomiglia a me

Perché non mi capisci, dimmelo perché

Cosa c’entra se

Lui la sta portando in Rolls Royce?

Sta tranquilla che

Verrebbe anche sulla Mini con me

Non vedi che per amore

Lei sta diventando assassina?

La donna, la vera donna

È quella che resta vicina

E invece tu

Beh, non ne parliamo più

 

Si capisce subito che è una canzone di Battisti-Mogol, anche se non l’avessi rivelato: lo ama e non si lamenta mai; la donna, la vera donna è quella che resta vicina. In ogni canzone di Battisti-Mogol c’è almeno un verso indicibile di questi tempi. Ma Battisti e Mogol se ne fottevano dei loro tempi, figuriamoci dei nostri. Ma non è questo il punto.

Il punto è che questa canzone rende esemplare il rapporto tra un’opera (quel film o un’altra storia qualsiasi) e la nostra vita, quel legame emotivo che si trasforma in autobiografico (quel personaggio sono io) ed è così naturale – ripeto, è ingenuo, ma cosa importa che lo sia? C’è tempo per ragionare e valutare, per approfondire. Intanto in questa canzone due discutono sul loro rapporto, poi entrano in un cinema per caso, vedono un film a caso, e quel film parla di loro, del loro rapporto, del loro litigio. Chiarisce qualcosa, fa in modo che ci si spieghi meglio di quanto fossero riusciti a farlo prima, camminando e mangiando castagne arrosto. Dustin Hoffman, Al Pacino, la Dunaway, che stanno interpretando dei personaggi di un film (tra l’altro inesistente) riescono a parlare a quei due che sono entrati al cinema, facendoli smettere di litigare. E così, alla fine del film, lui propone di andare a mangiare in un ristorante nuovo e di andare a ballare. Possiamo addirittura immaginare che è cambiato? Che è successa quella cosa che non succede mai? Che è diventato come lei vorrebbe che fosse? Che potrebbe dire, come dicevamo quando tornavamo da una estate lunga, abbronzati ma con aria greve e assorta: sento di essere cambiato?

Non esageriamo, e poi non ci interessa. Quello che importa, e che la canzone vuole raccontare, è che quel film ha chiarito qualcosa, ha migliorato chi lo guarda, che si è identificato e ha trovato qualche buon motivo per capire qualcosa in più di sé stesso e della sua relazione.

Il problema è, allora: ma com’è possibile che un film a caso, visto in modo del tutto rocambolesco, fosse il film giusto per questi due? Che sta parlando proprio a loro? Ovviamente, è più probabile che siamo noi ad adattare ogni storia alle nostre esigenze emotive del momento. È così che succede. Che siamo ingenui o sofisticati, alla fine non possiamo fare a meno di pensare: sta parlando di me, sta parlando di noi. Ma non è tanto quello che vediamo, ma quello che vogliamo vedere, ogni volta, sempre.

In più, se ci fate caso, le opere che leggiamo, vediamo o ascoltiamo parlano sempre a vantaggio di chi le usa.

Non solo un film a caso c’entra con la mia situazione proprio di questo momento, ma oltretutto mi dà ragione. Chissà perché l’identificazione con una storia avviene sempre dandoci ragione.

In psichiatria, questo vedere in ogni gesto o parola un messaggio vivo della persona amata, si chiama erotomania, ed è un disturbo delirante. Sei convinto che un altro ti ama, e quindi vedi segnali dappertutto. Anche se uno dice: mi piace il gelato al pistacchio, l’erotomane pensa: mi sta dicendo qualcosa attraverso il pistacchio, mi sta dicendo che mi ama, è evidente (non è evidente, ma guarda caso il pistacchio è a favore dell’amore e non del disamore).

Questo disturbo delirante diventa sopportabile socialmente quando tutti noi vediamo un film, leggiamo un libro, ascoltiamo una canzone, e pensiamo che stia parlando proprio a noi. A quel punto l’erotomania diventa non solo sopportabile, ma sublime; ed è quello che Al cinema mostra: il continuo rapporto emotivo e autobiografico con le opere che vediamo. Se stiamo male e se soffriamo, i film, i libri e le canzoni sembra sempre che ci vogliano dire delle cose, ci possano sollevare, o far soffrire di più. A volte capita addirittura che nel film non ci sia la Rolls Royce ma direttamente la Mini come ce l’ha il personaggio della canzone di Battisti – ma quando ascoltavo la canzone, per me non era un personaggio di Battisti, per me era Battisti; diceva io, e nella mia testa appariva lui (o un altro, che dopo dirò), e nella mia testa appariva la donna che stava in copertina del disco (o un’altra, che dopo dirò). Che poi era pure sbagliato immaginare quella donna della copertina, perché in teoria erano solo amici, era quello che diceva il titolo del disco e della canzone principale, senza troppe ambiguità. Ma non potevo farci niente: io immaginavo loro (o altri due, che poi dirò).

Certo, alcune identificazioni in quello che si legge hanno fatto male ad alcuni personaggi che abbiamo letto: Don Chisciotte, prima di tutto; Madame Bovary, naturalmente; o la Catherine Morland di Jane Austen, che sbaglia tutto perché si fa guidare dalla sua passione per i romanzi gotici. Ma in questi casi siamo in un gioco sofisticato che ci dice: il personaggio che legge i libri e cerca di riprodurli nella vita si rovina, quindi sta avvertendo te che stai leggendo quei romanzi di non fare la stessa cosa.

Per il resto di quello che amiamo, invece, capita esattamente il contrario: non c’è nessun cartello di pericolo; e identificarsi, ritrovarsi e dire in fondo assomiglia a me – è tutto quello che ci serve. I libri, i film e le canzoni ti spingono a fare la stessa cosa.

Il testo di Mogol, quindi, ne è una dimostrazione elementare ed efficace.

Quindi ogni storia la adattiamo a noi, e alle volte facciamo uno sforzo, ma altre volte ci sono delle corrispondenze perfette, anche un po’ spaventose che a noi, erotomani abituati a trovare in ogni opera qualcosa di noi, non sembrano così spaventose: io per esempio da ragazzo ero innamorato di una ragazza con i capelli rossi e le lentiggini, proprio nel periodo in cui compravo tutte le strisce dei Peanuts della Bur Rizzoli; e lì c’era Charlie Brown che amava una ragazzina dai capelli rossi, non ricambiato come me, esattamente nello stesso modo in cui non ero ricambiato io: e cioè, la ragazzina dai capelli rossi non prendeva nemmeno in considerazione l’idea che Charlie Brown la amasse; anzi, eravamo messi peggio: per Charlie Brown esisteva la ragazzina con i capelli rossi, ed esisteva in modo molto ingombrante; per la ragazzina con i capelli rossi semplicemente Charlie Brown non esisteva. E io leggevo quelle strisce e dicevo: lui assomiglia a me.

Così come quando ero al bar coi miei amici e non sapevamo cosa fare e rimanevamo seduti lì fino alle tre di notte pensando che saremmo voluti tornare a casa; e poi andavamo al cinema, vedevamo Ecce Bombo e c’era la scena di quelli che dicono: andiamo a casa, ciao, ciao, ciao; e rimanevano lì. Prima ancora, soffrivo per un’altra ragazza e passavo la domenica mattina a letto ascoltando Buona domenica di Venditti che parlava di una che passava la domenica a letto aspettando una telefonata che non sarebbe arrivata mai. Mi rendo conto che da ragazzino ho soltanto sofferto, ho soltanto amato senza essere riamato, e ho aspettato per mesi telefonate che non arrivavano mai. Ma questo faceva di me un perfetto erotomane dell’identificazione con libri, film e canzoni. Perché com’è noto la percentuale di opere di ogni tipo in cui le cose vanno male è decisamente più alta di quella in cui le cose vanno bene (e anche se le opere ci danno ragione, non cambiano il destino che ci è riservato). Ma io riuscivo a identificarmi anche in quelle che andavano bene, perché corrispondevano, anzi sostituivano la mia immaginazione già molto filmica, in cui poi si apriva la porta della mia stanza e la ragazzina dai capelli rossi diceva: come ho fatto a non capirlo prima? Io amo e posso amare solo te. E anche qui c’era corrispondenza tra il mio desiderio e qualche commedia romantica. Non corrispondeva alla realtà, ma che importa, per la realtà c’era già un’altra sfilza di opere che si adattavano benissimo.

Ma non c’è bisogno di corrispondenza: anche guardando una Rolls Royce si può dire: guarda lei, è proprio come ti vorrei, e verrebbe nella Mini con me. Come quando ho visto Mignon è partita ed ero quel ragazzino con gli occhiali che abitava in Piazza Melozzo e passava attraverso le sbarre del cancello. Una canzone di Alberto Fortis che mi faceva telefonare ai miei amici dicendo che mi mancavano. Anna Karenina letto il pomeriggio presto nei giardinetti aspettando che gli altri finissero di studiare e desiderando di voler soffrire più di quanto avessi sofferto fino ad allora. Essere il protagonista di Di qua dal paradiso di Fitzgerald, un personaggio dei sei di Pirandello, zio Vanja quando se ne vanno tutti, Bernardo Soares solitario per le vie di Lisbona, Gatsby alle feste. Volevo che io e i miei amici rifacessimo anche noi quello che facevano nel Il grande freddo. L’estate se ne andrà insieme al sole, l’amore se n’è andato già con lei. Dire anche io una volta: “Sono venuto stasera perché quando ti accorgi che vuoi passare il resto della tua vita con qualcuno, vuoi che il resto della tua vita cominci il più presto possibile”. Sognare di notte che qualcuna mi dicesse che ero grande, grande, grande e come me ero grande solamente io, e perché non vogliono farmi più vedere Brooke Shields quando fino a ieri tutta la famiglia mi amava, volevo dire anche io sbrodeghezzi e potacci come a casa Ginzburg, decidere chi ha più bollicine tra il Pommery e il Veuve Cliquot di Ferito a morte, stare dentro quei pomeriggi assolati ed erotici in Betty blue; la paura di tutte le penombre dopo aver visto Belfagor, non so se ho parlato di Tropico del cancro con una donna davanti a un panino oppure l’ho solo visto in Fuori orario, non voglio diventare un uomo da bruciare, e ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo; andare a giocare a tennis nel giardino dei Finzi Contini. Io sono cresciuto qui, qui hanno vissuto mio padre, mia madre, mio nonno, e io l’amo, questa casa, e senza il mio giardino dei ciliegi non riesco a pensarla, la mia vita, e se proprio è necessario venderlo assieme a lui vendete anche me.

Ma c’è qualcosa di più che riguarda la canzone Al cinema di Battisti e Mogol. Qualche tempo dopo averla ascoltata per settimane e settimane, forse l’anno successivo o quello dopo ancora, ero con una ragazza ed eravamo in crisi e andammo al cinema dopo aver litigato (non passavamo davanti a una sala, ci andammo perché avevamo già deciso di farlo) e vedemmo un film che parlava proprio di noi due, e io le volevo dire guarda lei, e le volevo dire lui in fondo assomiglia a me, e le volevo dire: perché non mi capisci dimmelo perché. Ma non avevo il coraggio, e poi ero in quell’età in cui avevo avuto l’intelligenza di capire che non dovevo fare nessun atto di coraggio, non dovevo attaccare, solo difendermi, difendere la posizione miracolosa di stare dentro quel cinema con quella ragazza, facendo meno danni possibili. Questo mi permise al massimo di allungare un’agonia, ma pur soffrendo non ero infelice, perché potevo buttarmi sotto un treno come Anna, potevo scappare piangendo come in un altro film, potevo vedere leggere e ascoltare quasi tutto pensando che mi riguardasse, compiacendomi della mia sofferenza perché la condividevo con tanti che la raccontavano e la recepivano e la facevano loro come io la facevo mia.

Però soprattutto, da quel pomeriggio al cinema, ogni volta che nella vita ho ascoltato Al cinema, ho una vertigine doppia: quella canzone non solo racconta di come quelli che vanno al cinema possano ritrovare una situazione simile nel film, ma poi anche la canzone stessa corrispondeva ad una mia situazione. Cioè ascoltavo una canzone che mi faceva pensare a me che andavo anche io al cinema, e poi al cinema vedevo anche io, come nella canzone, un film di uno che assomigliava a me. La canzone che raccontava come ci si identifica in un personaggio o in una storia, diventava anch’essa un’opera in cui identificarsi.

E quindi, quando riascolto quella canzone, alle volte mi appaiono Lucio Battisti e quella donna della foto di copertina, e altre volte penso a me e a quella ragazza con cui litigai. E quando dice guarda lei, alle volte penso alla Dunaway, e altre all’attrice di quel mio film; e quando dice lui assomiglia a me, penso a Dustin Hoffman o Al Pacino (non si sa chi fosse dei due, ma del resto il film era inventato) ma anche al personaggio del film che avevo visto io con quella ragazza.

Non so se sono stato a Marrakech o l’ho solo vista in un film di Hitchcock, se mi sono addormentato mentre lei era in bagno a prepararsi o era George Clooney. Non so se mi hai detto che finirà, ma non sei sincera, te lo leggo negli occhi – o se l’ho solo ascoltato mentre ero in motorino e mi sono messo a piangere. Non so tutto questo se mi ha spinto in avanti o indietro, se mi ha dato sollievo o mi ha fatto soffrire di più. Se è terapeutico o scava solo nelle ferite. Non lo so, e credo che non lo saprò mai. Ma so che la mia vita è un’enorme confusione tra quello che ho vissuto, visto, letto e ascoltato – e ne sono felice; e non ho nessuna intenzione di separare il me stesso reale da tutto quello che ho immaginato per lui…

 

 

Francesco Piccolo (Caserta, 1964), scrittore e sceneggiatore. Ha pubblicato, tra gli altri: «Il desiderio di essere come tutti» (Premio Strega 2014), «L’animale che mi porto dentro» (2018), e la trilogia dei «Momenti trascurabili» (2010, 2015, 2020), tutti editi da Einaudi. Il suo ultimo libro è «La bella confusione» (Einaudi, 2023).