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I supereroi di solito fischiettano

Meglio lanciare in aria le arance, come la madre di Sorrentino, come Catherine Deneuve, come Fellini. Cercare ogni giorno un colpevole e prendere le cose alla lettera non ci renderà più felici, ma nemmeno più adulti. La magnifica arte di minimizzare

L’ironia era il sollievo per qualsiasi problema. Ai primi sintomi di adolescenza, quando si cominciava a frequentare con quella gravosità affranta, la profondità, mia madre ricorreva a uno strumento irritante: minimizzava. Da adulto, ho compreso. Mi è parsa l’unica strada. Minimizzare”. Ha il gusto di una madeleine la lettera a mia madre di Paolo Sorrentino. Il ricordo di quell’educazione un po’ spartana, approssimativa, senza libri di riferimento, tutta improvvisata, parziale, sghemba. Noi che siamo cresciuti detestandola, la conosciamo bene. Forse per questo abbiamo allestito il mondo in cui siamo diventati adulti come un museo del disagio. Ecco qua la mia piaghetta: che ve ne pare? Fa schifo, vero? Fa malissimo, ve lo giuro. Un’eterna esposizione di ogni minuscolo graffio. Privati di veri drammi, abbiamo utilizzato quelli che avevamo a disposizione per i nostri viaggi nella sofferenza che qualcuno ci aveva spiegato essere un veicolo di conoscenza di chissà cosa. Le separazioni per esempio, l’infinito a disposizione di qualsiasi barboncino. Fiumi di lacrime e di pagine, romanzi in cui lui/lei perde la testa dietro un amore interrotto, incapace di ritrovare il senso della propria esistenza. Di me, certo, sto parlando di me. Massimizzatori dell’uggìa di chiunque, compresa la nostra, ci siamo però divisi in due categorie: quelli che si vergognano di questa debolezza ma la riconoscono come l’unico dramma a disposizione (sto ancora parlando di me) e gli altri, quelli che, legittimandola e prendendola immensamente sul serio, devono attribuirne a qualcuno la responsabilità. Ma poveretta che brutta quella piaghetta, certo, fa schifo, certo, immaginiamo quanto male possa fare. E chi te l’ha fatta? A morte, alla gogna! Riempiamo le carceri e le pagine dei giornali ma facciamo in fretta, che domani ne arrivano altri più brutti e altre, più cattive. Un bel daffare. La madre di Sorrentino, nel film È stata la mano di Dio è una struggente Teresa Saponangelo. Che fischietta e lancia le arance in aria come un giocoliere e a volte ride tanto che non riesce a smettere. Minimizzare è uno strano gesto palindromo, non è che renda i guai minuscoli, anzi: li ingigantisce perché rivelino il lato ridicolo dentro il cannocchiale dell’ironia. Il film è diviso in due parti e la prima fa molto ridere. È piena di personaggi che per comodità chiamiamo felliniani. Ma Fellini faceva proprio questo: minimizzava. E mentre i problemi diventano piccoli, i corpi si fanno enormi, gli eccessi più evidenti, i colori più squillanti e i rumori più forti. E arrivano quei mostri bellissimi dei sogni, i film, i libri. I supereroi della vita qualunque, che non rinunciano a sorridere mai, fino alla fine. Minimizzare è un’arte che va ballata e danzata fino in fondo, come in quel film, Les parapluies de Cherbourg, di Jacques Demy, con Catherine Deneuve e Nino Castelnuovo, in cui per dirsi qualcosa, qualsiasi cosa, bisogna cantare. Che ti amo, che la macchina non parte perché il meccanico ha sbagliato la riparazione, se si può avere un altro bicchiere di vino a tavola: sempre cantando. Ma poi lei rimane incinta e lui parte militare e sta via troppo tempo cosi prima si scambiano delle gran lettere, sempre cantando, in cui decidono anche il nome del figlio, che sarà François e poi piano piano non si scrivono più e lei, sempre cantando sposa un altro che si occupa di diamanti il quale quando lei gli dice che è incinta risponde che problema c’è, cresceremo questo bambino insieme. E quando Nino Castelnuovo torna dal militare un po’ si dispiace ma poi sposa una ragazza bellissima che si chiama Madeleine. E quando nel Natale del 1963 Catherine Deneuve, che nel frattempo si è trasferita a Parigi, passa con la macchina da Cherbourg, si ferma nella stazione di benzina che lui si è comprato, per salutarlo. E tu immagini che possa succedere una tragedia, o almeno qualcosa di un po’ drammatico e invece va tutto bene, e si dicono due cose e poi ognuno riparte per la sua strada e la cosa buffa è che la bambina di lei si chiama Françoise, perché era una femmina, e lui ha avuto un maschio e l’ha chiamato François. Perché minimizzare è anche il contrario dell’ossessione: si può essere fedeli a qualcosa anche senza farlo diventare una malattia. Come fa Chesaramai, la moglie del protagonista del romanzo di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti. Che non si scompone neanche il giorno in cui Berlusconi vince le elezioni, neanche quando cadono le torri, neanche quando il figlio si rompe la clavicola. Chesaramai, risponde di fronte a ogni avversità più o meno grande. Quando dobbiamo definirci, noi gente di questi anni, diciamo che siamo adolescenti, abbiamo sempre in mano un telefono che è il telecomando di qualsiasi azione sia necessario fare. Spingendo tasti abbiamo imparato a trasformare sempre tutto in un gioco, il game come dice Baricco. Ma allora perché siamo tristi? Cosa non ha funzionato in quella lunga galoppata che ci ha portato dai nostri genitori, capaci di rimuovere qualsiasi dramma semplicemente ignorandolo, alla nostra civiltà del mega-io fanciullo, che avrebbe dovuto mettere al centro le nostre esigenze, ascoltandole, coccolandole, prendendole sul serio? Se prima nessuno ci ascoltava, adesso che tutti ci ascoltano perché non siamo felici? Chi è felice è complice, dice Zerocalcare, campione mondiale di massimizzazione. Che non significa contarsi i peli dell’ombelico, ma al contrario sentirsi sconfitto nella ambizione di dare un senso alla propria vita, di fare le cose per bene, forse anche di salvare il mondo. La stessa ipocondria di Andrea Pazienza ma senza le droghe, la ciondolaggine solitaria del malmostoso protagonista dei romanzi di Luciano Bianciardi. Ma anche l’angoscia sociale, l’impossibilità di venire a patti con quello che ci sta intorno dei personaggi di Sally Rooney, forse la più brava di tutti a raccontare questi anni. Già, fare le cose per bene… Ma cosa vuol dire, davvero, fare le cose per bene? Il problema di noi massimizzatori col telefono in mano non è solo stare sopra, accanto, dietro l’altare dell’identità che ci siamo costruiti. Non è solo l’abitudine a cercare ogni giorno un colpevole e andare a letto avendo fatto la tacca sul fucile. Il nostro problema più serio è non sapere leggere tra le righe, fermarsi alla superficie, al marchio. Ogni cosa è simbolo, dunque ogni cosa è paralizzante, enorme. Non vale per sé, vale per tutto. Non ti disunire, dice a Fabietto il suo mentore Antonio Capuano, non andare a Roma, a Roma ci vanno solo gli stronzi. E lui infatti ci va, a Roma, perché anche i maestri bisogna prenderli così, non in maniera letterale. Prenderli non per quello che dicono ma per quello che sta dietro le loro parole. Bisogna minimizzarli.

Elena Stancanelli (Firenze, 1965), scrittice. Ha esordito con “Benzina” (Einaudi, 1988). Tra i suoi libri, “Un uomo giusto” (2011), “La femmina nuda” (2016, finalista al Premio Strega) e “Venne alla spiaggia un assassino” (2019). Nel 2020 ha firmato la sceneggiatura del film di Emma Dante “Le sorelle Macaluso”.