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Il desiderio che spinge avanti e spacca tutto

Il tempo passa comunque e non si torna mai più a essere giovani, ma non sarai mai più giovane come in questo istante. E in questo. E in questo. E in questo. La storia di quello che desideriamo, di quello che volevamo tanto e ora non vogliamo più. E un consiglio ai maschi di mezz’età

Come faceva a essere così disperatamente infelice

se in fondo era felice?

Fleishman is in trouble

 

Toby Fleishman si sveglia una mattina da solo nel letto matrimoniale: è nella città in cui ha trascorso tutta la sua vita adulta, che ora scoppia, all’improvviso, di donne che lo desiderano. Si è appena separato, e la prima reazione del mondo alla notizia è: quindi adesso sei sulle app? Sì, Toby Fleishman, quarant’anni, imbranato, medico non cinico, idealista, correttissimo, padre amorevole, è sulle app. Il suo telefono è illuminato tutto il giorno, e la notte con una luce più forte, da messaggi pieni di perizomi e richieste di appuntamenti liberi, erotici, insistenti.

Nella stanza accanto, due bambini dormono, i suoi figli. E tutto intorno c’è New York, con le persone che si cercano, sperano, tradiscono, lavorano, corrono, vogliono di più. Da qualche parte c’è sua moglie, la sua ex moglie con cui la vita era diventata insopportabile. Troppa ambizione, troppa poca ambizione. Troppi soldi, non abbastanza soldi. Troppa speranza, non abbastanza speranza.

È l’inizio di Fleishman is in trouble, la serie tivù in otto puntate su Disney+ tratta dal romanzo di Taffy Brodesser-Akner, che in Italia è stato pubblicato due anni fa da Einaudi. È il racconto dei desideri e del tempo che passa. I desideri riguardano anche i soldi, la classe sociale, i palazzi con il portiere, l’appartamento più grande, le scuole prestigiose con le spaventose madri entusiaste e concentrate sugli obiettivi. Ma poi spaventose perché? Perché hanno scelto di puntare sui figli anziché su sé stesse? O su sé stesse attraverso i figli? La cosa più spaventosa è di certo il sorriso feroce alle sette di mattina.

Una mattina ti svegli e non sei più giovane, oppure ti svegli e tua moglie è scomparsa, oppure ti svegli e tua figlia ti odia, oppure ti svegli e fumi alla finestra guardando tutto quello che avresti voluto fare e non hai fatto. O quello che facevi e non farai più. Indossi in piscina un costume intero uguale a quello di tutte le altre madri del circolo del tennis, cerchi di dimagrire, pensi: è tutto qui? Un punto morto, se ti ci senti affondare dentro, un punto vivissimo, appena ti accorgi di averlo superato. Un punto che si sposta a seconda di chi lo guarda, e di con quale sentimento lo si guarda.

Poiché siamo fra adulti, possiamo dirci che accendiamo la tivù o leggiamo un libro, andiamo al cinema e a teatro, sfogliamo i giornali cercando noi stessi. L’evasione è immedesimazione. Pezzetti di chi siamo o avremmo voluto essere: comunque abbiamo bisogno di qualcosa che ci parli. Cerchiamo un’epica in cui riconoscerci in tutte le storie che ci passano davanti, anche negli horror che esaltano mio figlio (lui, però, non è un adulto). Anche quando vogliamo scappare da noi, cerchiamo un aggancio, una voce, una frase che avremmo voluto pronunciare o che nessuno ci ha mai detto.

Io ho trovato la mia in questa serie, e poiché non rivela niente di quel che succede alla storia la posso scrivere qui, un po’ a memoria: «Il tempo va avanti comunque. Non si torna mai più a essere giovani. Ma non sarai mai più giovane come in questo istante. E in questo istante. E in questo istante». Non sarà mai meglio di così, in quella foto con i bambini piccoli, in quell’altra al ristorante con l’aria furba, in quella davanti al tuo computer due anni fa. Non sarai mai meglio di ora. Meglio di adesso. Proprio un attimo fa, mentre mi angosciavo per tutto e come sempre perché è tardi. È molto tardi, ma non sarà mai più così presto.

Va bene, Fleishman is in trouble, con questa mi hai steso.

La frase la pronuncia Libby, l’amica dell’università, l’aspirante scrittrice, l’amica degli anni passati a costruire momenti da ricordare. Lei adesso vive nel New Jersey con due figli, un marito che nel romanzo è molto scialbo e nella serie è molto figo, e porta quel costume intero che indossano tutte al circolo. Quel costume intero ha inserti d’acciaio, promette miracoli di contenimento delle carni e di sfida ai limiti del metabolismo e della desiderabilità. Quel costume intero sono i quarant’anni, i cinquanta, i sessanta e oltre, lì sotto si può coltivare l’illusione di nascondere tutto, basta aumentare la compressione, diminuire la sgambatura, aumentare le stampe a fiori oppure scegliere il blu navy. Ma appunto, è un’illusione. I costumi interi sono impietosi, soprattutto quando ci si siede a bordo piscina con le gambe dentro l’acqua. Intorno, sdraiate sui lettini mentre fingono di leggere, ci sono le altre madri, le altre mogli, ma anche gli altri padri con la pancia e senza capelli. Guardano, misurano, confrontano.

E qui lascio un attimo Toby Fleishman e i suoi guai perché mi sento di dire una cosa agli uomini di mezz’età, una cosa poco delicata ma onesta: forse troppo spesso avete equivocato, forse credete di dovervi vendicare per le umiliazioni subite a diciassette anni quando nessuna vi guardava, forse avete ancora quell’età mentale, forse credete che il tempo che passa sia per voi una rivincita estetica o erotica. Invece non lo è, davvero non lo è. Quindi dovreste evitare i sorrisetti. Dovreste evitare le battutine, oppure farle solo nella vostra cameretta. E se riuscite, tenetevi addosso la maglietta (non aderente), tenetevi un cappello sulla testa, anzi meglio, andate in spiaggia come ci andava Enrico Berlinguer. È più scomodo, ma è più dignitoso. Puntate sulla simpatia, sulla cultura, sulla gentilezza, sull’arte del barbecue, su qualcos’altro insomma.

Comunque, i costumi interi sono mortificanti mentre le foto sulle app di incontri sono eccitanti e piene di promesse: un angolo di corpo, le calze a rete, la spallina di un reggiseno di pizzo, un appuntamento in albergo, la libertà totale dentro le regole più assolute. Ognuna mostra quello che ha voglia di mostrare, chiede quello che le piace, a volte ottiene quello che vuole. Sembra facilissimo, ma soprattutto sembra il coro greco di quando si ricomincia a dire “io” invece di “noi”. Tutta la serie parla di questo, del desiderio di passare dall’io al noi, e viceversa, senza troppo dolore, senza che i bambini soffrano troppo. Che è una cosa impossibile.

Nella storia della fine del matrimonio di Toby Fleishman, i bambini soffrono. Anche se lui pensa sempre a loro (e alle foto sulle app e a quella stronza di sua moglie, come la chiamano i suoi amici), i bambini soffrono, ed è la parte più straziante della storia. Almeno, è la parte della storia di cui possiamo dire: è straziante. Ma non è straziante anche il modo in cui Libby, quarantun anni e nessun problema apparente, fuma alla finestra e poi si infila a fatica il costume intero contenitivo e adesso ha solo voglia di fuggire di nuovo a New York e di restare alla festa fino alla fine, fino all’alba, invece di tornare a casa presto con suo marito? Dentro questa storia ci sono molte storie e soltanto all’inizio mi sembrava che la più interessante fosse quella del matrimonio che va in pezzi.

Una storia in cui, finalmente, la stronza è lei. Lei è Claire Danes ed è sempre sul punto di scoppiare. Tutta l’ambizione, il fare tardi, il cinismo, il desiderio di più soldi, il disprezzo per chi non ha ambizione e l’insofferenza verso tutto quello che fa e mangia il marito, sono suoi. Finalmente un matrimonio in cui, se c’è una vittima, la vittima è lui e il carnefice è lei. Lei che ogni sera ha una cena con qualche cliente, lei che è sempre incazzata, lei che paga i conti, lei che non dorme, lei che è insoddisfatta. Lui vorrebbe far funzionare le cose, lui non vuole rinunciare al rapporto medico paziente, a lui non interessa una casa più grande, gli interessa l’idea del fegato che è capace di rigenerarsi, lui viene guardato con commiserazione ogni volta che dice agli amici ricchi della moglie (ricca non di famiglia, ricca di fatica e lavoro) che fa il dottore. Good for you, gli rispondono. Perché bisogna mostrare ammirazione per un mestiere così nobile, ma è chiaro che nel mondo dell’Upper West Side o dirigi una clinica o sei una specie di buffo proletario. Come vanno le cose al lavoro, Toby? Beh, sai, la gente continua ad ammalarsi. E giù sorrisetti, come quelli dei maschi di mezz’età di fronte alle loro coetanee (non è il caso, davvero. Correte davanti allo specchio, prima di sorridere).

Mi è piaciuto molto il disagio di Toby a quelle cene, il suo sentirsi una schifezza, il suo temere lo sguardo della moglie che lo fa sentire ancora di più una schifezza. Mi sono divertita e ho pensato: good for you, Toby. Non vuole comprare il telefono alla figlia di undici anni, e la figlia è l’unica di tutta la classe a non avere un telefono. Le altre madri feroci e spaventose gli dicono con quel sorriso da paralisi facciale: dai, Toby, compra ’sto telefono. Hanno ragione loro.

Toby non è una vittima, Toby cerca disperatamente di affermare sé stesso e la sua idea del mondo. Come fanno tutti i personaggi di questa storia sul desiderio, come facciamo tutti noi. Sua moglie Rachel (Claire Danes) non è una carnefice, è una donna che desidera, e forse non desidera più Toby. Desidera così tanto tutto il resto che forse si farà male.

«Il desiderio non puoi pretenderlo per te», ha detto un martedì sera Concita De Gregorio a Francesca Fagnani nella trasmissione Belve, «il desiderio puoi solo suscitarlo». È il massimo della semplicità e porta con sé il massimo della complicazione. È una di quelle frasi che non ti aspetti di sentire in un’intervista televisiva, e invece Concita De Gregorio l’ha detta. È questo che si intende per “trouble” o non sembra abbastanza? I guai poi sono moltissimi, ma il guaio del desiderio, di tutti i desideri, forse li contiene tutti. E spinge, spinge, spinge sempre.

Il resto è per i pazzi, ha scritto Patrizia Cavalli.