Cerca

Il desiderio di Odessa, all’indirizzo giusto

La fotografa Anna Golubovskaja si perde e si ritrova negli indirizzi dei Racconti di Odessa di Isaak Babel’. In un cortile incontra Zakir, che di quel libro è parente, e si fa raccontare tutto della sua famiglia. Storia inedita di fughe e di arresti, della Signora e del latte che salva, del lusso di un’automobilina, dei nazisti e di Stalin. Entrate pure, la vita è qui

Chi di noi non ha letto i Racconti di Odessa di Isaak Babel’? Ho sempre creduto che si sapesse tutto sugli indirizzi di Odessa di Babel’ e sui luoghi in cui avevano abitato gli eroi delle sue storie. Dopo la partenza di Babel’ per Mosca, il suo appartamento di Rishelevskaya 17 andò a Lev Flaumenbaum, collaboratore di una delle editrici di Odessa, poi a suo figlio e poi alla sua nipote Luda. Da bambina trascorsi molte serate nell’appartamento di Rishelevskaya con Lyudochka, davanti al caminetto ereditato dallo scrittore. I miei genitori hanno accompagnato in questa casa Lydia, la figlia di Isaak Emmanuiloviˇc, e Andrej, figlio di Lydia e nipote di Isaak. Volevano vedere la stanza, l’armadio rimasto, e soprattutto il camino di Babel’.

E conosco il numero 12 di Tiraspolskaya, dove Babel’ visse con la sorella Mariia per quattro anni, e poi ci abitò una zia di Babel’, Gitl (Katya); e l’enorme cortile di Hospitalnaya 23 – poteva tenere cinquecento persone! Là nel primo racconto, Il Re, si celebrò il matrimonio di Dvoira, la sorella di Benja Krik, “il re di Odessa”. Ho visitato la Zaporozhskaya 9, dove era nato Mishka Yaponchik, il vero gangster prototipo di Benja Krik, e il cortile dove è cresciuto. Alexander Rosenboim, biografo e specialista della toponomastica di Babel’, era a portata di mano: era stato compagno di classe di mia madre. Sapeva le cose, benché lavorasse più con gli archivi che con le persone. Insomma, non sembravano esserci punti bianchi su questa mappa, nemmeno per me che non sono una storica locale, né una critica letteraria, solo una lettrice.

Poi la guerra ha portato visitatori stranieri coi giubbotti antiproiettile, coi racconti di Babel’ in tasca, e con un antico desiderio di Odessa. Così mi è successo di reinnamorarmi dei libri familiari alla mia adolescenza. Nelle prime tiepide giornate primaverili me ne sono andata, da sola, all’angolo tra Balkovskaya e Dal’nickaja a fare qualche foto, senza aspettarmi niente di speciale. Sapevo che da molti anni non c’era più la casa al numero 21 di via Dal’nickaja, dove Babel’ era nato, dove avevano vissuto suo nonno e sua nonna, dove aveva collocato nel racconto l’ostessa Ljubka, detta “il Cosacco”. In mancanza di luoghi autentici da visitare, le guide scelgono una casa vicina che grosso modo le somigli. Ora c’è l’edificio dell’ex stabilimento Kinap. Di fronte si trova il cortile di Dal’nickaja 26. Sono entrata. Ha conservato la sua architettura semplice, un ingresso robusto a più arcate, all’interno si vedono ancora i resti di una vecchia colombaia.

Sotto un vecchio noce, davanti a una dépendance a due piani verniciata di un blu slavato, probabilmente una settantina di anni fa, due signore molto anziane si crogiolano al sole. Il nome di Babel’ è loro familiare. Entrambe si sono stabilite qui negli anni Sessanta, dopo essersi sposate. Il marito di una è morto molto tempo fa, il marito dell’altra è vivo, ma «non è con lui che devi parlare della vecchia Odessa». E con chi? «Con il nostro vicino Zyaki, lui è un discendente dei primi proprietari del cortile». Una delle signore si alza, svelta come una ragazza, afferra un bastone e bussa alla finestra:

«Zyaki, vieni fuori, c’è una che ti vuole vedere!». È spuntato un vecchio cittadino di Odessa con un berretto in testa, esattamente quello che stava sulla zucca di Froim Graˇc nella mia immaginazione. Sa il diavolo come succede: vedi una persona e capisci immediatamente che sei arrivata all’indirizzo giusto. E inizieranno le sorprese.

Ma ecco che cosa scrive Babel’ nel racconto Il padre (dall’ed. BUR a cura di Rossana Platone):

«Tutto ciò accadde di sabato, giorno festivo. L’occhio purpureo del tramonto, frugando la terra, la sera si imbatté in Graˇc che russava sotto il suo carro. L’impetuoso raggio si fissò sul dormiente con infuocato rimprovero e lo fece uscire sulla via Dal’nickaja, polverosa e brillante come verde segale al vento. Dei tartari risalivano la via Dal’nickaja, tartari e turchi con i loro mullah. Ritornavano dal pellegrinaggio alla Mecca a casa loro, nelle steppe di Orenburg e in Transcaucasia. Un piroscafo li aveva portati a Odessa, ed essi andavano dal porto alla locanda di Ljubka Schneeweiss, soprannominata Ljubka il Cosacco. Le tuniche a strisce stavano rigide addosso ai tartari e inondavano la strada del bronzeo sudore del deserto. Asciugamani bianchi erano avvolti intorno ai loro fez, a indicare la persona che aveva reso omaggio alla tomba del profeta. I pellegrini arrivarono all’angolo, svoltarono verso la locanda di Ljubka, ma non poterono passare perché dinanzi alla porta si era riunita una moltitudine di persone. Ljubka Schneeweiss, con la borsa sul fianco, picchiava un ubriaco e lo spingeva sulla strada. Lo picchiava col pugno chiuso sulla faccia come su un tamburo, e con l’altra mano reggeva l’uomo perché non stramazzasse. Rivoletti di sangue scorrevano tra i denti e accanto all’orecchio dell’uomo, che era pensieroso e guardava Ljubka come un’estranea, poi l’uomo cadde sui sassi e si addormentò. Allora Ljubka gli diede un calcio e tornò nel suo negozio. Il guardiano Evzel’ chiuse la porta dietro di lei e fece un cenno di saluto con la mano a Froim Graˇc che stava passando… ‘I miei rispetti, Graˇc,’ disse ‘se volete osservare qualcosa della vita entrate nel nostro cortile, c’è da ridere…’. E il guardiano portò Gracˇ verso il muro dove sedevano i pellegrini arrivati il giorno prima. Un vecchio turco con un turbante verde, un vecchio turco, verde e leggero, giaceva sull’erba. Era coperto di sudore perlaceo, respirava a fatica e roteava gli occhi.

‘Ecco’, disse Evzel’, sistemandosi la medaglia sulla giacca consunta, ‘eccovi un dramma della vita dall’opera Il malanno turco. Sta morendo, il vecchietto, ma non si può chiamare il medico perché colui che muore sulla via del ritorno dal Dio di Maometto, è considerato da loro un uomo felice e un riccone… Mammalucco!’ gridò Evzel’ al moribondo e rise. ‘Ecco che arriva il medico per curarti…’

Il turco fissò il guardiano con terrore infantile e con odio, poi si voltò dall’altra parte. Allora Evzel’, soddisfatto di sé, condusse Graˇc dal lato opposto del cortile verso la cantina…».

Il bisnonno di Zakir “Zyaki” Fazlyeviˇc era Ismitullah Rashkin (SultanAli Bikbaev). Nell’elenco degli indirizzi “Tutta Odessa” per il 1913 figura come proprietario di una casa in Dal’nickaja 26, e come gestore di una moschea nella sezione musulmana del Primo Cimitero, vicino alla Chumnaya Gora, la Montagna della Peste. (Dopo la rivoluzione, la moschea fu chiusa e all’inizio degli anni 30 il cimitero fu distrutto. Ora al suo posto c’è uno stadio).

Zakir era interessato alle sue radici, e negli anni in cui l’Archivio regionale era disponibile trovò un atto di vendita: nel 1890 il suo bisnonno acquistò la casa da un ebreo, di cui non ricorda il cognome. Il nostro dialogo è durato settimane e io, da parte mia, ho cercato tracce di questa sua famiglia. È singolare che nessuno abbia parlato del passato né con Zakir né con sua madre e sua nonna in tutta la loro vita: così sono stata la prima.

Nel libro Il mago di Odessa (The Wizard from Odessa: In the Footsteps of Isaac Babel’, Odessa, 2011) Rosenboim cita il nome Rashkin, letto anche in “Tutta Odessa”, e ricorda i tatari che si incontravano allora per strada. Ma a quanto pare, pensando che nessuno della famiglia fosse sopravvissuto al Ventesimo secolo, non entrò in questo cortile.

Zakir – Zyaki – ha conservato una grande fotografia del 1913, vi figurano decine di persone, tatari, che lavoravano in un panificio situato in questa casa. Al centro c’è lo stesso Rashkin. Anche il panificio era suo. Ha ricordato che suo figlio si era imbattuto nella riproduzione di un particolare di questa foto su internet. Come ci fosse arrivata, non ne aveva idea.

Ho iniziato a cercare. E ho trovato la stessa foto nel libro di Zakir Kalmykov, Odessa Memoirs of a Father, Odessa, 2017. È uguale ma non è strappata, è chiaramente una copia diversa. Ho scoperto che il nonno di Kalmykov, Rekhmetullah Yanmurzin Lyapin, tataro originario di Astrakan, era arrivato a Odessa già nel 1880 e per molti anni aveva lavorato come fornaio in una panetteria. Più di 50 tatari lavoravano lì, dice Zyaki. Fornivano il pane quasi a una metà del grande, famoso, famigerato, quartiere ebraico di Moldavanka – il regno di Benja Krik. Erano tutti musulmani sunniti. Dal libro si ricava che prima della rivoluzione a Odessa c’era un ufficio centrale per il trasporto dei fedeli musulmani a Gedda attraverso Costantinopoli, con un albergo dei pellegrini, “Hajilar Caravan Serai” o semplicemente “Khadzhi Khane”. Gli edifici dell’albergo potevano ospitare più di tremila persone e disponevano di un bagno turco e di un ospedale con 20 posti letto. Nel caso che qualche pellegrino morisse, veniva sepolto in un cimitero musulmano.

Come nel racconto di Babel’.

Sultan Ali aveva quattro figlie. La maggiore, Mirziya Ismitullovna, era la nonna di Zyaki. Toccò a lei diventare la leggenda del cortile di Dal’nickaja. Era nata nel 1886, si è sposata ed è andata dal marito in Turchia. Ha preso il suo cognome ed è diventata Kazizade. Così la madre di Zakir, Enisya, è nata in Turchia. Suo nonno, medico militare, ha partecipato alla guerra italoturca, o alla prima guerra balcanica, ed è morto nel 191112. Allora la nonna e la sua figlioletta si imbarcano su un piroscafo e tornano a casa, a Odessa.

Zakir mi mostra un ritratto di sua nonna. Una grande fotografia artistica, abito e copricapo sono colorati a mano. Il volto è dolce e audace. Questa giovane donna diventa l’ereditiera: Rashkin le regala la panetteria e l’intera casa. Fu sotto di lei che il cortile divenne una locanda – lei, che parlava non solo tataro ma anche turco, aprì la strada per Gedda.

Qui le mie prime interlocutrici, le vicine di casa, sentendo il nome di Mirziya, si uniscono alla conversazione. «Me la ricordo», dice Tatyana. «Io mi sono sposata nel 1966. Sedeva spesso in cortile, beveva il chifir più forte, fumava. Era incredibilmente rispettata. La Signora del cortile…». Questo è stato proprio nell’ultimo anno di vita di Mirziya, è morta nel 1966.

Nel 1949 Mirziya era stata esiliata in Kazakistan. Zakir racconta che i poliziotti del distretto che vennero ad arrestarla insieme all’ufficiale della polizia segreta, l’Mgb sovietico erede del Nkvd, se ne scusavano: «Ci dispiace, padrona, non dipende da noi…».

Fortunatamente, nel 1956 tornò a casa.

La madre diede alla luce Zyaki durante l’occupazione nazista. Il padre, Faizullah, era un tataro della Bashkiria, per coincidenza anche lui fornaio in una panetteria. Nel 1937 il caposquadra gli si era avvicinato amichevolmente e gli aveva sussurrato: «Sei in lista per l’arresto, ti porteranno via stanotte». Senza tornare a casa dopo il lavoro, il giovane era saltato sul primo treno e aveva raggiunto Odessa. Arrivò in via Dal’nickaja, si innamorò e sposò la madre di Zakir. Dopo la guerra lavorò come autista.

Dell’occupazione, Zakir ricorda come gli ebrei venivano portati all’esecuzione. Da un muro all’altro per tutta la Dal’nickaja. Come un uomo esausto irruppe dal cancello, porgendo l’oro alla vicina di casa: salvami! Quella prese l’oro, afferrò l’infelice per le spalle, e lo ricacciò fuori. Ho sentito tante di queste storie, mi tolgono sempre il fiato. Come sono stati rinchiusi nelle polveriere e bruciati vivi, e Zakir dice che i vecchi ricordavano questo urlo disumano che li perseguitava, gli rubava il sonno. Come suo padre era miracolosamente sfuggito al rastrellamento e al massacro delle migliaia di ostaggi, ebrei i più, dell’ottobre 1941, dopo l’esplosione nell’ufficio del comandante militare della città occupata, il generale rumeno Glogojeanu, nella Marazlievskaya. Ricorda che terribile carestia infierì dopo la guerra. La mamma riuscì a comprare una capra. Ogni giorno lei e il piccolo Zyaki andavano al burrone, pascolavano la capra. Quel latte lo ha salvato. Ricorda che i prigionieri tedeschi costruirono una casa al posto di una chiesa fatta saltare in aria, e costruirono una scuola al posto di una moschea. Lui frequentò questa scuola nelle prime quattro classi. I tedeschi gli facevano pena, anche se erano nemici. Gli sembravano molto infelici, anche rispetto a loro bambini, eternamente affamati.

Gli chiedo come è stata la sua infanzia. Fin dove ti lasciavano uscire, sei andato al parco Dyukovsky? Che giochi hai giocato? Che lingua si parlava a casa?

«Parlavano russo e tartaro tra loro. In turco no, la nonna non aveva nessuno con cui parlare. Quando eravamo fortunati giocavamo con delle automobiline di ferro, fabbricate dalla ditta di giocattoli Tsyparsky, che stava nello stesso cortile. Si saldavano con metallo rubato. Tsyparski era ricco, guidava un’auto tedesca da trofeo, una rarità incredibile. Periodicamente scompariva e risorgeva, come l’araba fenice». Il banditismo, dice Zyaki, era terribile dopo la guerra. Il Vicolo dell’Uva, nelle vicinanze, pullulava di razziatori e ladri, come tutta la Moldavanka. I bambini non li toccavano, ma i genitori cercavano di non farli uscire dal cortile. Non c’era religiosità in famiglia e del resto non c’era un posto dove pregare.

È pensieroso. «Sai, mio padre, Faizullah, chiamava Stalin bandito, anche quando era vivo. Il capobanda, il boia in capo. Aveva un amico che veniva a trovarci, un duro, un ebreo. I tedeschi portarono tanti ebrei al porto per caricarli sulle chiatte e annegarli in mare. Lui era giovane, è riuscito a scappare e non l’hanno raggiunto. Ma dopo la guerra, per quanto tempo la gente gliene ha chiesto conto, perché non era morto insieme agli altri…».

Zakir si diplomò alla Scuola di Macchine Utensili e per tutta la vita lavorò alla fabbrica di macchine fotografiche Kinap come caposquadra degli elettricisti. All’inizio era solo un caporeparto. Ride, «negli anni Cinquanta l’ufficio del personale era diretto dalla Britanova. Non si toglieva mai la sigaretta dalla bocca. Veniva dal fronte, non ci sono più donne così. Tutti avevano paura di lei. E mi prese con sé, direttamente dalla strada».

A proposito, Zakir si ricorda di mio padre: lui dopo la laurea ha lavorato per diversi anni come ingegnere elettrico alla Kinap.

Ti dispiace se scrivo tutto questo?

«Mio padre chiamava Stalin bandito, il boia in capo. Aveva un amico che veniva a trovarci, un duro, un ebreo.

Riuscì a salvarsi dai tedeschi ma dopo la guerra gliene chiesero conto, perché non era morto assieme agli altri»

«Figurati. Non mi dispiace. È storia, come puoi andarle contro? C’è qualcosa tra noi che non può essere spiegato a parole, ma ci riconosciamo fra mille. Chi è nato qui non si lamenta mai della città, e trova un linguaggio comune con gli altri. Per me non è così importante essere un tataro, sono un cittadino di Odessa e quando me ne andrò mi lascerò dietro la gente di Odessa».

I vecchi noci nel cortile sono coperti di frutti che crescono. I piccioni nella colombaia vuota. Fa caldo e non si vorrebbe andar via. Non voglio dire che questa piccola indagine mi abbia avvicinato a Babel’, lui era già nel mio cuore. Ma Isaak Emmanuilovicˇ era molto attento alle persone. Persone, destini, dettagli lo eccitavano, e questo interesse anima ogni riga. Così ancora e ancora, in qualche luogo lontano, un nuovo ragazzo avrà un desiderio di Odessa, la città dell’estate abbagliante.

 


Leggete i Racconti di Odessa, è il modo migliore per stare dalla parte della bella città bersagliata

Isaak Emmanuilovicˇ Babel’ nacque a Odessa nel 1894, morì a Mosca nel gennaio del 1940. Più precisamente: morì nella galera di Butyrka, dopo una regolamentare confessione – “spionaggio” – estorta con la tortura. La notizia della sua fucilazione venne nascosta per anni, i suoi manoscritti sequestrati e perduti. Ebreo, scrittore e giornalista – fu nel 1920 al seguito dell’Armata a cavallo del celebre generale Semën Michajlovicˇ Budënnyj, che raccontò nella sua opera più famosa – scampò a molte minacce fatali: al pogrom del 1905 (vi morì suo nonno), alla guerra civile, alla persecuzione staliniana, almeno fino a quando Maksim Gorky visse per proteggerlo.

Tra il 1923 e il 1932 scrisse il ciclo dei «Racconti di Odessa», la cui prima edizione (di soli quattro racconti) uscì nel 1931. I racconti sono ambientati nella Moldavanka, il quartiere ebraico di Odessa famoso per il fervore convulso della sua vita sociale e per la popolazione pittoresca di banditi, truffatori, ladri, e anche audaci combattenti contro autorità costituite varie e univocamente antisemite. Il protagonista è “il Re”, Benja Krik, cui aveva fatto da modello Mishka Yaponchik, “il giapponese”, nato Moisei Wolfovich Vinnitsky (18911919), operaio elettricista, gangster odessita, militante dell’autodifesa ebraica, galeotto e capo militare sovietico.

E poi, anzi prima di tutto, c’è lo stile di Babel’. «C’è stato un enorme errore, zia Pesja. Ma forse che non è stato un errore da parte di Dio far vivere gli ebrei in Russia, perché soffrissero le pene dell’inferno? Che ci sarebbe di male se gli ebrei vivessero in Svizzera, dove li circonderebbero laghi di prima classe, aria di montagna e francesi da ogni lato? Sbagliano tutti, persino Dio».

Se non aveste letto i «Racconti di Odessa», ecco: è il momento. O di rileggerli. Che miglior modo c’è per stare dalla parte della bella città, la perla, bersagliata da missili e droni e sporcata nel suo Mar Nero, che sapeva essere blu, dall’alluvione di corpi, detriti, mine disancorate che gli sfocia dentro dalla mortificata Kherson? Consiglio supplementare: in rete, restaurato, trovate il film muto «Benya Krik», 1927, regia di Vladimir Vilner sulla sceneggiatura di Babel’, con Yuri Shumsky nella parte del Re.

I tatari di Crimea sono una gente autonoma con lingua e destino propri: i veri abitatori della penisola, prima che Caterina II l’annettesse, nel 1783, provocando una vasta diaspora verso la Turchia. Nel 1944 Stalin deportò in Uzbekistan i tatari crimeani, che poterono tornarne, decimati, solo dopo il 1989. La pretesa che la Crimea sia russa, anzi “specialmente” russa, vuol dire questo, che diventò russa ogni volta che la sua popolazione tatara ne fu espiantata e sostituita.

Altra è la storia dei tatari di Odessa. Tatara è la cittàfortezza antenata, Khadzibey, dal nome del primo possessore nel 1382. Nel 1789 la fortezza fu espugnata per Caterina dai granatieri del napoletanocatalano José Deribas. All’inizio dell’Ottocento, i musulmani, spesso sudditi turchi, vivevano a Odessa per lo più come ospiti stranieri o prigionieri. I tatari rifiutavano di convertirsi all’ortodossia per assimilarsi. Dal 1819, con il porto franco, il loro afflusso crebbe. Arrivavano i tatari di Penza, Kazan’, Astrakhan e Bashkiria. Il porto di Odessa era il più appropriato al pellegrinaggio alla Mecca: bastimenti a vapore sei volte a settimana. Crebbero così le locande alla periferia di Odessa, e con loro si torna alla storia di Babel’.

Il potere sovietico a Odessa chiuse e distrusse moschea e cimitero musulmano. I musulmani si riunivano segretamente in un appartamento a Moldavanka per leggere il Corano, la preghiera era guidata da diversi anziani autorevoli. L’ultimo, negli anni 70, fu il vecchio fornaio Abdullah Kaipov, che in gioventù aveva lavorato anche lui nel panificio della Dal’nickaja.

Adriano Sofri

Anna Golubovskaja (Odessa, 1969) è una fotografa e storica della fotografia ucraina. Le sue ultime mostre sono state a Odessa due settimane prima della guerra e a Milano nell’estate del 2022.

Adriano Sofri (Trieste, 1942), scrittore.