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Il dolore è una cosa con le piume

I cannibali romantici di Luca Guadagnino, Il Colibrì e il mio pettirosso dentro la scatola da scarpe. Il continuo dondolarsi tra paura e speranza e la ricerca di regole, amuleti, libri che siano una bussola per il dolore. La lotta contro la solitudine

Il dolore è un topo –
sceglie l’intercapedine nel petto
per nido timido –
ed elude la caccia.
Emily Dickinson, Poesie

Il dolore è una cosa con le piume, ho letto in un libro di uno scrittore inglese che si intitola così e mi fissa da qualche anno dal comodino: ma non era la speranza ad avere le piume?, gli rispondo ogni volta che incrocio il suo sguardo. Per Emily Dickinson è sempre la speranza a essere piumata, il pettirosso che sfida l’inverno e consola il cuore con la sua melodia senza parole, non chiede mai una briciola per sé e vola anche nella terra più fredda. Hope, speranza. Una mattina di qualche giorno fa ero con mia figlia e il cane vicino a casa, mi stavo lamentando del cane (“mamma, smettila di farlo sentire scemo”) e lui si è tuffato dentro un cespuglio di edera che si arrampica sulla facciata di un palazzo: da quel cespuglio è uscito un uccellino. Un pettirosso. Saltellava su una zampa sola, non riusciva a volare, si è fermato proprio al centro della strada mentre avanzava verso di lui, molto lentamente, sbadigliando, un taxi. Come sempre nelle emergenze, io sono stata presa da paralisi, il cane mugolava eccitato e disperato insieme, è la sua natura, il pettirosso non si muoveva dal centro della strada e allora mia figlia si è parata davanti al taxi con le mani in alto. Il taxi si è fermato, il tassista è uscito dall’auto, ha guardato in basso, ha visto il pettirosso e ha detto: che vogliamo fa’, fermare il mondo pe’ sto poraccio? Ma sorrideva: se fosse stato un piccione, ho pensato da dentro alla mia paralisi, l’avrebbe preso a randellate. Il tassista è risalito in auto, mia figlia ha raccolto il pettirosso come se non avesse mai fatto altro nella vita, io ho telefonato alla Lipu, il cane ha abbaiato eccitatissimo per tutto il tragitto fino a casa facendomi pentire di una buona azione non mia di cui mi stavo prendendo il merito. A casa abbiamo adagiato (mia figlia ha adagiato) il pettirosso dentro una scatola da scarpe con i buchi in attesa che venissero a prenderlo per curarlo. Al telefono con la Lipu ho detto: zampa, ala, shock, non so. Ma respira? Non so, non vedo il naso, però apre il becco.

I gatti danzavano sul tavolo intorno alla scatola mentre il cane si disperava ulteriormente perché sentiva di avere un ruolo nel dramma e come sempre non ci capiva un tubo, non è molto intelligente ma ha altre qualità, ad esempio se qualcuno urla: hai dato la medicina a Fix?, lui si sdraia per terra su un fianco per impietosire e non prendere la medicina.

Avevamo il divieto di dare cibo all’uccellino, al massimo una goccia d’acqua, lui restava immobile in un angolo della scatola e fissava mia figlia scioccato da quella faccia gigantesca che si sporgeva sull’orlo dell’abisso in cui era precipitato. Povero pettirosso, povero Hope. Ma dopo essersi finto tramortito un tempo sufficiente a farci abbassare la guardia, Hope (gli esseri umani hanno questa fissazione di dare i nomi a tutto e a tutti) si è buttato fuori dalla scatola scalando e mordendo la faccia di mia figlia, si è lanciato a terra, ha saltellato su una zampa sola fino al frigorifero sbattendo le ali e si è infilato dietro il muro, lasciando piume in aria e causando il quasi svenimento mio e del cane. I gatti sono stati chiusi fuori dalla cucina, non era più il caso che partecipassero al rave, e il pettirosso è stato imprigionato di nuovo (non da me, che ero la solita statua di sale) nella scatola bucherellata. Nonostante il coraggio e la forza, Hope non poteva niente contro di noi.

Guardavo il coperchio bucato e chiuso della scatola e mi chiedevo: più dolore o più speranza, Hope? Speranza di farcela o dolore di non avercela fatta contro i giganti? Speranza di avere incontrato giganti buoni o dolore per la sopraffazione, dolore per la zampa, per l’ala, per la scatola chiusa? Hope alla fine è stato sequestrato da persone molto gentili che l’hanno portato via, curato, nutrito, e dopo pochi giorni liberato. Il cane non ha mai più saputo nulla dell’uccellino che ha salvato, noi abbiamo saputo soltanto che è volato via. Quel cosetto con le piume chissà che fine ha fatto adesso, ma è chiaro perfino al mio cane che la condizione sulla terra di Hope è un continuo dondolarsi tra dolore e speranza.

E sul dolore mi sembra che stiamo concentrando negli ultimi tempi tutte le nostre energie, creative e comunicative. Parliamo, scriviamo, fotografiamo, instagrammiamo, mettiamo in scena il dolore continuamente, lo nominiamo, lo scegliamo come protagonista dei nostri racconti. Tra speranza e dolore? Dolore.

TikTok ha rilanciato un romanzo di un po’ di anni fa, Un giorno questo dolore ti sarà utile, di Peter Cameron (pubblicato da Adelphi): è un piccolo romanzo di formazione con protagonista un ragazzo di diciott’anni che vive con angoscia la sua giovinezza e confusione ed esercita sarcasmo sentimentale e conflittuale verso la sua famiglia strampalata e privilegiata. I video dei giovani lettori su TikTok si sono concentrati soprattutto sul dolore utile (il titolo è di Ovidio) e anzi qualcuno si è dichiarato un po’ deluso perché il romanzo non mantiene esattamente quel che promette nel titolo: si aspettavano tante frasi da sottolineare sul dolore, parole su cui costruire il proprio attraversamento del bosco, rimedi specifici per il dolore. Stanno cercando amuleti contro il dolore, ma senza respingerlo, senza fuggire lontano: vogliono entrarci dentro, sapere che cos’è, analizzarlo, sublimarlo e trasformarlo in qualcosa di nuovo. Che cosa cercavamo, del resto, quando leggevamo Cime tempestose? Tutto il dolore possibile e finestre che sbattono sulla brughiera. Nella tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia vogliamo una bussola per non perderci. Vogliamo sapere che cosa ci aspetta, anzi vogliamo averlo già saputo.

E’ appena uscito al cinema il film di Luca Guadagnino che è stato premiato a Venezia, Bones and all, con Taylor Russell e Timothée Chalamet: storia d’amore romantica tra due ragazzi bellissimi e enormemente addolorati, incontro di due cannibali che hanno bisogno di carne umana per sentirsi davvero vivi. Sono nati così, i loro genitori non hanno potuto farci niente. Sono due emarginati, quindi, e gli emarginati stanno dappertutto come i cannibali, e soffrono. Cercano regole per addomesticare il dolore. Guadagnino fa scintillare questo dolore e lo rende magnifico da guardare, anche se io a guardare non ce l’ho fatta sempre. Mentre mi coprivo gli occhi pensavo la stessa cosa del pettirosso: ma c’è speranza? Finirà? Troveranno il modo di aggiustarsi le ali o continueranno a sbranare e a essere sbranati? Il protagonista del Colibrì, il film di Francesca Archibugi tratto dal romanzo di Sandro Veronesi, allena questa speranza per la vita intera. Trovare un riparo dal dolore, Sul dolore stiamo concentrando negli ultimi tempi tutte le nostre energie creative e comunicative.

Tra speranza e dolore, scegliamo sempre il dolore muoversi tantissimo per restare fermo e saldo in mezzo alla tempesta.

Quel che ho capito del dolore solo guardando il mio pettirosso dentro la scatola da scarpe e guardando tutto questo dolore al cinema e in tivù (anche la serie Netflix Tutto chiede salvezza, girata da Francesco Bruni e tratta dal romanzo di Daniele Mencarelli, cerca di entrare nel dolore di chi non sa maneggiarlo e racconta la settimana di un ventenne dentro un reparto psichiatrico insieme a sconosciuti compagni di stanza che gli cambieranno la vita) è che si nutre di solitudine.

Sentirsi soli sulla terra o sentirsi amati sulla terra.

I cannibali di Luca Guadagnino da soli sono dei freak, vivono ai margini e si nascondono come ladri, insieme sono qualcosa di meraviglioso: in viaggio per l’America su un furgone, cercando di essere degni di essere amati l’uno dall’altro. Chi è solo invece soccombe o cerca ostinatamente di far soccombere.

Il mio pettirosso stava ingaggiando una lotta disperata contro tutti, esseri umani, cani gatti e frigorifero, perché credeva di essere solo al mondo. Non lo era, ma come poteva saperlo? Per lui non c’è nessuna bussola, tranne quella del vento e degli alberi, della brughiera e delle stagioni. Il suo canto è la sua bussola. Noi abbiamo di più: la speranza di non essere soli.