Una delle automaledizioni meglio riuscite, la nemesi più precisa e feroce che mi sia passata sotto gli occhi ultimamente si è consumata su Instagram.
Era l’anno passato, se ricordo bene. La protagonista me la ricordo perfettamente invece, era Chiara Ferragni in piena (naturalissima) hybris da onnipresenza. Era quello il picco più alto di carriera, coi fatturati stellari si crogiolava felice nel paiolo d’oro, incassava incarichi uno dietro l’altro, dalla moda ai formaggini chiunque la voleva, contendendosela, ma tanto era inutile perché lei diceva sì a tutto. Convocata in televisione in prima serata nientemeno che a Sanremo, come presentatrice. La trovavi sulle piattaforme, protagonista di serie tv. Quando si presentò alla Mostra del cinema di Venezia calcolarono un totale di cinque milioni di interazioni online. Imperversava sui cartelloni pubblicitari, cento metri per cento, coi boccoli biondi freschi di shampoo, macinava denari a destra e a manca. Non si riusciva a capire la logica economica, era un sovvertimento di tutte le leggi più elementari di domanda e offerta.
Ferragni Chiara doveva essere una bolla, invece sfuggiva alle leggi fondamentali di economia che parevano tutte spezzate per incantesimo.
In particolare una, la legge dei rendimenti decrescenti (Ricardo, 1817): se utilizzi parecchio un fattore, la sua produttività prima aumenta, poi inevitabilmente decresce. Cioè: usi molto una cosa? Ne ricavi un’utilità sempre minore. Questa sarebbe – larga e stiracchiata per adattarla al marketing – una delle applicazioni del principio. Se ti fai vedere troppo, stufi.
Sponsorizza il suo marchio, sponsorizza trucchi, sponsorizza abbigliamento, sponsorizza gioielli, sponsorizza quaderni per la scuola. All’aumentare della quantità, dovrebbe diminuire l’interesse del pubblico. E invece sembrava di no.
Chiara Ferragni genera eccezioni antinflazionistiche non contemplate? – ci si chiese. Più era sovraesposta più la volevano, pareva una macchina spaziale.
In un momento di leggera turbolenza, ma niente di irrisolvibile, sarà stata una litigata col marito, aveva pubblicato un autoscatto, e poi una storia, la cui frase di accompagnamento morale, la lezioncina di vita in didascalia, diceva così: Nobody queues for a flat roller coaster. Letteralmente si traduce: «Nessuno farebbe la fila per delle montagne russe piatte». Che anatema. Pensai solo: ma tu sei pazza figlia mia. Cos’è questa prosopopea? Nasconditi alle ire di Zeus, con quale tracotanza chiedi movimenti al destino per non stufarti di fare sempre le stesse cose? Chi vuoi che abbia voglia di montagne russe superate le scuole medie? A trent’anni e con una discreta riuscita professionale si ringraziano i Padri Penati e si accendono ceri propiziatori perché tutto resti esattamente com’è.
Sui rami alti della maturità i sogni si riducono a uno: speriamo che non succeda niente. Speriamo che tutti quelli che conosco stiano bene e felici, che le loro famiglie non si sfascino, che in vecchiaia non ci faccia troppo male la schiena. Speriamo di stare tranquilli e raccontarci le solite sciocchezze in pace.
C’è qualcosa che è il contrario del burn out, dell’innamoramento, della sorpresa, ed è il gradevolmente meccanico tutti-i-giorni-uguali. Quando non cambia niente, non succede niente, la si chiama noia. E la noia, nella vulgata, è una perdita di tempo e senso. Bisogna liberarsene, puntare orizzonti nuovi con la prua della nave, andare.
Job Hopping.
Tra le molte discussioni recenti che ero convinta non avessero proprio le premesse per durare, c’è il Big Quit. Le Grandi Dimissioni. C’è il record di quelli che lasciano il lavoro. Era sempre stata un’americanata, sono loro che corrono appresso ai sogni di gloria, che cambiano ufficio come si cambia il cappotto. Da noi, dove era sempre andato di moda il posto fisso, al massimo facevi un salto (con la rete sotto) se ti pagavano molto più profumatamente da un’altra parte. Ora no, vogliamo di meglio, ci garba cambiare, anche in Italì.
E quale sarebbe, il desiderio? Che sia più meaningful, il lavoro, sempre nuovo, che mi faccia crescere e stupire ogni giorno. Addio abitudine, viva il job hopping.
Sotterrata la tendenza a restare nello stesso posto per costruirsi un ruolo, relazioni solide e fiducia quasi amichevole. La stanzialità professionale scavalcata dalla tendenza più legittimamente mercenaria: «Vado via appena mi annoio». Per scoprire poi che da un certo punto tutto scoccia, perfino quello che ti piace, specialmente quello che ti piace. Non c’è rimedio, e quella stanchezza conviene farsela amica: si chiama abitudine.
La non Dea.
L’abitudine è stata scartata dal mito. Non è una dea per i greci, non è piaciuta fino a quel punto. Per un posto nell’Olimpo e una definizione si è aspettato per secoli, finché il miglior francese passato per la letteratura, Proust, non ha messo in colonna i benefici e le priorità.
L’abitudine è la Gorgone che ti impedisce di sapere se vuoi davvero la vita che ti sei costruito? Macché. È il contrario, un miracolo di adattamento, un sollievo, un’alba di pace che rischiara i campi di vecchie battaglie nere.
Abitudine, ordinatrice abile ma molto lenta, che comincia con il lasciar soffrire il nostro spirito, per settimane, in una sistemazione provvisoria; ma che, nonostante tutto, esso è ben contento di incontrare, giacché senza l’abitudine, e ridotto ai suoi soli mezzi, sarebbe impotente a renderci abitabile una casa.
Sentimento senza stime, non ci si vanta, dell’abitudine. Eppure è quello a cui non si rinuncia mai, tiene calmo pure il cuore quando vuole fare troppe scale. Omnia vincit amor ma una cosa l’accoppa inesorabile: l’abitudine. Pare strano, ma queste sono le leggi di natura. Si alzano preghiere alla noia sempre, continuamente, anche quando uno non se ne accorge.
Abitudine e fine degli amori.
La potenza dell’abitudine la conosci per la prima volta alla fine degli amori, hai più o meno vent’anni, le montagne russe ti piacciono parecchio. Te le cerchi, le iatture e le novità. Arrivano i guai, sottoforma di amori sciancati. Il primo amore debolmente corrisposto, o corrisposto a saltello, corrisposto ma siete in tre, corrisposto ma solo per sei mesi e poi l’altro t’abbandona senza un minuzzolo di pietà. Fai esperienza della detestabile successione.
Atto primo.
Ti lasciano.
1) Addio. La percezione precisa di un sentimento nuovo che pare inventato apposta per te, per ucciderti, il «non ce la farò ad arrivare a domani». Non ci sono unità di misura per le lacrime che versi sul cuscino. La testa tutta impegnata nel pensiero unico: se entro sette giorni non mi richiama, muoio.
2) Non richiama.
3) Non muori.
4) Una settimana dopo sei ancora lì. Dolorante, surgelato, fiacco. Ti trascini da casa al lavoro, ti trascini dal lavoro a casa, speri di dormire, di dimenticare, ma non dormi e ti ricordi tutto benissimo, la memoria se ne va ai momenti felici che ti appaiono nitidi, irripetibili, più di quello che pensavi.
5) Passa ancora qualche tempo e il cuore si fa le sue ragioni, questa volta gliele detta la ragione. Devono cessare le immense speranze. Non richiamerà nessuno. E l’abitudine, sempre lei, t’accompagna, infermo, a speranze più modeste, obiettivi minimi: funzionare fisicamente e fare amicizia con un malumore più costante ma pure un poco più leggero. Il bicchierino di veleno degli amori finiti va bevuto tutto.
6) Torni a una vita vagamente normale. Sei salvo. L’impressione è quella di un’infelicità indecente in un sottovuoto emotivo, è un’anestesia di tutto con le ossa rotte.
L’abitudine è lì, non ti abbandona. Lavora silenziosa per te, l’operaia del riaggiusto, ti sta dando linfa per la grande impresa:
L’atto secondo.
Sisifo (tu) doveva fare pace col masso, prenderselo sul gobbo e andare. Non si sa dove, ma bisognava andare. Col petto che s’è fatto di piombo, bisogna ricominciare. A fare che? Tutto. Un po’ per costrizione, un po’ per autodifesa bisognava rimettersi vivi e in piedi, recuperare brandelli della vita di prima. Sì, vedere qualcuno, provare a non stare soli, per non ridursi a un fossile. Più stai a rimpiangere, più si alza il Te Deum alle reliquie degli ex.
E neanche voglio raccontare quando non c’erano le app di incontri. Certi millenovecentonovanta-e-qualcosa di certi ventenni (io). Studia dal lunedì al venerdì, preparati il venerdì sera senza voglia, mettiti il mascara, vai nel locale, alla cena, in discoteca! In provincia l’inferno era doppio: uno perché eravamo quattro gatti, due perché non c’era niente da fare. Gli inverni erano gelidi. Si stava sconfitti, sulla riva del fiume, ma il fiume era secco, non passavano né gli amici né i nemici.
Il tizio che ti presentavano/incontravi ti pareva pessimo, il suo interesse era irricevibile, un ribrezzo che ti faceva ancora più pensare a quello di prima, rientravi a casa alle due di notte, pensavi: non ce la farò mai, non passerà, ci penserò per tutta la vita.
Dopo varie decine di impresentabili, incontravi, dopo mesi e mesi e mesi, uno che ti faceva cominciare la frase con «chissà, tutto sommato».
È lì che bisogna misurare l’abitudine, quando guarisce il malato. L’abitudine ai dolori ripaga con una moneta precisa: sei capace di far da padrone anche ai peggiori pensieri, quindi sei libero.
È Tolstoj che si prende cura di scrivere di quella mezz’ora in cui l’abitudine rompe il guscio, alla fine degli amori. Sono minuti cortissimi e limpidi, trionfi dello spirito su fissazioni dei sensi che t’avevano rovinato. Quando t’accorgi che non ci pensi più, l’amore è passato.
«Era come colui che si fa togliere il dente che lo tormenta: dopo il dolore – tremendo – e la sensazione che qualcosa di enorme, di più grande di tutta la testa gli sia stato strappato dalla mandibola, il malato sente che quanto avvelenava la sua esistenza e pretendeva ogni attenzione è sparito, non c’è più, e per qualche attimo stenta a credere di poter tornare a vivere, a pensare e a interessarsi di qualcosa che non sia il suo dente».
Non è stato coraggio, affatto, è sempre lei, abitudine. Tutto congiura a farti pensare «non passerà mai». Com’è venuto? Per caso. Come passa? Perché ti sei abituato.
Jonathan Safran Foer, in Ogni cosa è illuminata, racconta così la fine dei dolori. È la storia di due persone che vivevano sotto una cascata. Il rumore dell’acqua era insopportabile. Non si dorme, non ci si sente, non si riesce a vivere. Fino a una certa mattina: «La vita continuò perché la vita continua, e il tempo passò, perché il tempo passa, e dopo poco più di due mesi: – Hai sentito? le domandai, una delle rare mattine in cui eravamo seduti insieme a tavola. Hai sentito? Deposi il mio caffè e mi alzai dalla sedia. La senti quella cosa? Quale? mi chiese lei. Esatto! risposi».
Sopra ogni cosa del mondo c’è l’abitudine, la conservazione. Scegliere se preferirla in poesia, come Proust, o prosaica scienza di Darwin. Delle due, entrambe, il finale non cambia. Alla lunga ogni essere vivente sa definire le priorità: la linea continua, la terra che non trema, le montagne russe piatte.