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Il momento in cui andiamo a fondo

Lia Thomas gareggiava contro gli uomini e adesso è una delle nuotatrici più forti del mondo. Tra ormoni, femminismo e identità, la questione della sopravvivenza e la conquista del diritto di esistere, anche nello sport

Nuotare è una questione di sopravvivenza. A chi mi dice che non ha paura non credo: più impari e più capisci di avere a che fare con l’abisso. Nuotare è conoscere il momento in cui vai a fondo.

Nuoto da sempre e ovunque ho ricercato l’acqua. Oggi faccio parte di una squadra agonistica affiliata alla Federazione italiana nuoto, Master 30. Sento che l’acqua minaccia e mette alla prova il corpo. Eppure resto su, appena sopra, appena fuori dall’acqua.

Non a caso si impara a nuotare con degli esercizi – i drills – la cui funzione è rendere sempre più complicato il galleggiamento. Nuota con un braccio avanti. Con le gambe legate. Braccia ferme. Nuota respirando ogni 3, ogni 5, ogni 7 bracciate. Apnea. La sensazione di annegare è, immagino, paragonabile al bondage: del resto ogni sport è anche masochismo. Per ritrovare quel momento servono allenamenti più duri, più lunghi, e che qualcuno costantemente addosso renda impossibile fermarsi.

Dico queste cose perché la questione della sopravvivenza – survival of the fittest – è centrale in questa storia, che ha fatto traballare alcune certezze e buone maniere, e messo in difficoltà molti maestri delle discipline contemporanee di banalizzazione e ipersemplificazione del reale.

Lo sport femminile, nato soprattutto dall’esigenza di creare una competizione equa,

da sempre combatte per spazio, dignità, e più in

generale per il diritto di esistere. È una conquista recente e precaria, esattamente come la presenza delle donne in altri ambiti politicamente ed economicamente rilevanti, e per questo è un’arena in cui si concentrano tensioni sociali cruciali.

Durante la stagione atletica 2021-2022 dei campionati di nuoto delle università americane – i cosiddetti Collegiate – la University of Pennsylvania ha schierato in squadra una nuova nuotatrice senior, Lia Thomas. Tutti i programmi sportivi universitari sono gestiti e regolati dalla Ncaa, National collegiate athletic association, e per inquadrare il peso che la Ncaa ha sullo sport nazionale americano, e gli interessi che chiama in causa, bisogna innanzitutto capire che cos’è lo sport universitario in America.

Katie Ledecky, 24 anni, americana, ha vinto a Tokyo 4 medaglie, 2 d’oro e 2 d’argento, portando a 10 il suo totale di medaglie olimpiche. Ledecky oggi non è solo una delle nuotatrici più veloci, ma una delle atlete più forti al mondo, e lo è almeno dal 2016. Dopo due Olimpiadi, fresca di 5 medaglie a Rio, a chi le chiedeva se avrebbe lasciato la squadra di Stanford – gli atleti universitari non percepiscono uno stipendio, e fino al 2021 non potevano neanche accettare sponsor – rispondeva: “Finché potrò, io nuoterò e sarò orgogliosa di nuotare per Stanford. Nessuna offerta cambierà questa cosa”.

Questo è il livello dello sport universitario americano. Nella Ncaa si gareggia per future carriere fuori dall’ordinario. Borse di studio in college di élite che svoltano l’esistenza, qualificazioni olimpiche, opportunità di contratti milionari. In questo contesto Lia Thomas ha cominciato a vincere. Di parecchio. Ecco alcune espressioni usate per descrivere le sue vittorie: “Zipped past her competitors”, “looked effortless” (Washington Post). “Cruised along”, “ate up the margins” (New York Times), ha superato tutte senza mostrare nessuno sforzo. Un po’ incurvata nelle spalle come molti specialisti di stile libero, capelli legati e mascherina, Thomas a bordo vasca guarda soprattutto l’acqua. Si tuffa e fin dalla prima bracciata è vero che sembra spostarsi senza sforzo. In una particolare gara, la 1.650 yards (circa 1.500 metri) è arrivata 38 secondi prima delle sue avversarie, oltre a segnare record sui 200 e 500.

Lia Thomas è una donna transgender di 22 anni, che per i primi due anni di università ha gareggiato nella squadra maschile dell’Università della Pennsylvania. Durante il secondo anno si è sottoposta a una cura ormonale di estrogeni e soppressori del testosterone. Un anno di cure ormonali è il requisito richiesto dalla Ncaa alle atlete transgender per competere nelle squadre femminili. La Ncaa regola non solo il nuoto, ma tutti gli sport, i campionati e gli atleti universitari americani. Gli interessi in gioco sono altissimi, per cui ogni decisione è soppesata attentamente. Fino a novembre, l’associazione stabiliva che un anno di trattamento fosse il requisito “per neutralizzare i vantaggi che gli atleti maschi potrebbero avere come conseguenza del picco di testosterone che si raggiunge nella pubertà maschile”. Lia Thomas aveva i requisiti, ma la pressione di opinione pubblica e mediatica è stata talmente clamorosa da spingere la Ncaa a rivedere il regolamento, in un modo per ora inconcludente, lasciando decidere la questione agli organi nazionali dei singoli sport (a livello olimpico è il Cio a decidere). Una nuova decisione è attesa prima di marzo, quando si svolgeranno i campionati nazionali.

La pubertà, negli atleti, segna l’inizio del divario fra le performance maschili e quelle femminili. “Un paio d’anni di estrogeni e soppressori del testosterone non cancellano il fatto che [Thomas] avrà muscoli più forti, un cuore più grande, maggiore capacità polmonare”, ha scritto su Instagram Erika Brown, campionessa olimpica a Tokyo. I media conservatori hanno riportato voci anonime di spogliatoio e di compagne di squadra scontente. La questione culturale si è mescolata a quella sportiva. Nello sport non abbiamo tanti modi, oltre ai cromosomi e ai genitali esterni, per determinare il sesso di una persona, il sesso cosiddetto biologico, e gli ormoni giocano un grande ruolo. Alcune atlete assegnate donne alla nascita hanno un livello di testosterone naturale giudicato troppo alto nei parametri del doping, e devono fare specifiche cure per poter competere.

Ma gli ormoni non sono tutto, mi dice McKenzie Wark, professoressa di Media e cultural studies alla New school di New York, donna transessuale: “Lo sport si aggrappa a questi parametri, ma probabilmente hai più testosterone tu di me”. Quello che sappiamo, perché l’orologio nel nuoto non mente, è che i nuotatori maschi, i campioni, sono in media dell’11 per cento più veloci delle corrispettive campionesse. Secondo uno studio della Mayo Clinic, Lia Thomas è solo del 5 per cento più lenta di prima della cura, quando aveva una carriera nelle gare maschili, secondo il Washington Post, assolutamente “unremarkable”, insignificante.

Le regole della Ncaa richiedono un anno di trattamento, Lia Thomas ne ha fatti due, a causa dell’anno di pausa della pandemia. Troppo pochi, per alcuni. Sufficienti, per altri, a garantire un “level playing field”, una competizione equa. Ma c’è di base una questione più ampia, culturale, che ha a che fare con l’inclusività.

“Le atlete trans competono nelle gare internazionali da molto tempo e non hanno stravolto lo sport femminile. Dire che un ragazzo è intrinsecamente più bravo di una ragazza nello sport è una posizione misogina. Inoltre è ora che il nostro corpo smetta di essere oggetto di dibattito”, continua Wark. Nello sport, i corpi delle donne sono stati costantemente studiati, nella tacita combinazione di paura e speranza che si avvicinassero alle performance degli uomini. I dibattiti sulla possibilità che Serena Williams potesse battere il numero uno maschile nel tennis sono stati infiniti (e noiosi, e francamente un po’ umilianti).

Gli uomini sembrano interessarsi allo sport femminile soltanto in questi casi soglia: lei forse potrebbe batterci, dicono, e ne escono rassicurati quando questo non accade. La stessa Ledecky è stata analizzata in dettaglio dal punto di vista biologico, e il risultato è che è stata definita “remarkably unremarkable”, sorprendentemente normale. Lo racconta quasi divertita: “Non sono particolarmente alta per una nuotatrice, non ho mani così grandi, e nessuna sproporzione, anche lieve, tra torso e gambe. Ho un baricentro normale, un fisico normale”. Non è il corpo a fare l’atleta, ma una combinazione di fattori di cui il corpo fa parte. Il feticismo biologico non ha risparmiato Michael Phelps, il nuotatore più forte di tutti i tempi, di cui ricordiamo le gambe corte e il torso lunghissimo, quel baricentro basso che gli avrebbe dato un vantaggio, per così dire, “strutturale”. Ma Phelps, che pure ha vinto tutto, e ha vinto fino a tardi – 28 medaglie olimpiche, 7 record del mondo – era solo dello 0.9 per cento più veloce dei suoi diretti avversari, con proporzioni e altezze più “normali”. Frazioni di secondo.

Wark ribatte: “C’è questa narrazione per cui se le persone transgender ottengono qualcosa, lo hanno rubato a qualcun altro. Sono da sempre una minoranza facile da opprimere, lo 0,6 per cento della popolazione, e vivono spesso sotto la soglia della povertà”. Le chiedo cosa pensa dell’idea che lo sport femminile, che garantisce opportunità, occasioni, borse di studio e possibilità di guadagno alle ragazze e donne, possa essere minacciato, ovvero che alcune atlete perderanno gare e quindi opportunità concrete per un fattore che molti chiamano un vantaggio ingiusto. “Sono posizioni fasciste, bisogna chiamare le cose col loro nome. Il femminismo deve decidere se può accettare queste posizioni all’interno del proprio movimento”.

Il femminismo ha sempre accolto spinte diverse e a volte contrastanti. Negli ultimi anni il dibattito più visibile è stato quello fra femminismo liberal – che si rifà a quello intersezionale, sostenendo che non si può considerare la questione femminile separatamente dalla questione di classe, di razza e di orientamento sessuale – e quello definito radicale. Che negli ultimi anni si è sviluppato soprattutto in Inghilterra, successivamente all’Equality Act del 2010 e al Gender recognition Act del 2004, che allarga la possibilità di autodeterminazione del genere. Questo femminismo – che da noi ha fatto notizia soprattutto in seguito agli interventi di J. K. Rowling – si è molto concentrato su quella che definisce la “salvaguardia degli spazi femminili” soprattutto in condizioni delicate (i safe spaces). Spazi sia fisici (spogliatoi, bagni, prigioni) sia metaforici e pubblici, da cui escludere le persone che hanno il pene.

È difficile vedere da qui – da una società che discrimina ancora così fortemente le persone transessuali – la situazione inglese. La serie Bbc I may destroy you mette in scena la violenza di genere ancora feroce presente in una società che per molti versi (e in confronto alla nostra) è emancipata e inclusiva. Ma anche il femminismo intersezionale si occupa di violenza di genere, che riguarda moltissimo le persone transgender, soprattutto nella forma di transmisoginia, spesso mettendone in pericolo la stessa sopravvivenza.

Quello “di J. K. Rowling” è dispregiativamente definito Terf, trans exclusionary radical feminism. Ma il femminismo radicale, sviluppatosi negli anni Settanta, non era trans escludente. Sommariamente, era anti pornografia e anti prostituzione, vedeva in entrambi gli scenari uno sfruttamento della donna, e metteva in dubbio che chi non aveva attraversato un processo di socializzazione (infanzia, adolescenza) come donna potesse capire l’oppressione femminile. Posizioni rintracciabili anche in Simone de Beauvoir (donna non si nasce, si diventa). Più in là, queste spinte che negli anni Settanta e Ottanta erano così nette e opposte (semplificando: anti porn e pro sex, o sex radical) si sarebbero riconciliate nel più annacquato femminismo liberal, che ha addomesticato entrambi gli impulsi.

A oggi, la posizione mainstream anglosassone è quella di generale inclusività, e questo lungo giro porta alle decisioni recenti della Ncaa e al loro significato nel contesto culturale del paese.

Dietro la parola inclusività, che sembra quasi garantire di stare dalla parte dei più deboli, si agitano nuove tensioni. Negandole, impedendo che i temi vengano portati in superficie, si nega anche la possibilità di

risolverle, trovando per esempio nuovi modi di regolare lo sport, che è un prodotto culturale pensato come binario, ma che può cambiare, e deve garantire l’inclusione di tutti coloro che, attraverso lo sport, esprimono il proprio talento e potenziale. Lia Thomas nuota da quando aveva cinque anni: è chiaro che il nuoto agonistico fa parte della sua identità. Presumo che faccia parte dell’identità anche delle altre donne che batte, con un vantaggio che bisogna decidere se è fair o no. E trovare soluzioni. Non sta alle donne farsi da parte, accettare di perdere già ai blocchi in nome dell’inclusività. È lo sport che deve dimostrarsi all’altezza, non rosicchiando pigramente gli spazi ma espandendosi per rappresentare tutte le identità e differenze. Più si studia più si ammette la complessità; si ammettono sfumature ed errori, proprio come più nuoti più conosci l’abisso.

Raffaella Silvestri (Milano, 1984), scrittrice, ha studiato Filosofia di genere a Helsinki e Filosofia delle scienze sociali a Cambridge. Ha scritto i romanzi «La distanza da Helsinki» (Bompiani, 2014) e «La fragilità delle certezze» (Garzanti, 2017). Ha una newsletter, “Velluto”.