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La cultura millennial in una stanza, buttando la chiave

Bret Easton Ellis pensava al suo ultimo romanzo «Le schegge» da quando aveva diciotto anni. Lo ha scritto oggi, cercando sui social i compagni di liceo. La gioia e la liberazione di scrivere per sé stessi, le classifiche di vendita e la vittoria del talento, sempre, su tutto

A vent’anni, mentre studiava al Bennington College, Bret Easton Ellis ha scritto il suo primo libro, Meno di zero, vendendolo a Simon & Schuster per cinquemila dollari nel 1985. Nel 2000 da uno dei suoi romanzi è stato tratto il film American Psycho. Nel 2013 è uscito Imperial bedrooms. Ora, dopo 13 anni dall’ultimo romanzo, ha pubblicato Le schegge (Einaudi, tradotto da Giuseppe Culicchia), una storia ambientata nella Los Angeles dei primi anni Ottanta. Mentre beve una Coca Cola Zero in un hotel di Milano, Ellis mi prende in giro per le crepe sull’iPhone che uso per registrare la nostra conversazione. Le crepe, dice, sono un segno distintivo dei millennial. «Non ho mai fatto cadere il mio telefono», dice. «Probabilmente lo uso meno di te, in quanto vecchio membro della Gen X».

 

Tredici anni dall’ultimo romanzo. Perché?

Perché non avevo un romanzo. E i romanzi non sono una cosa che semplicemente decidi di scrivere un giovedì qualsiasi. Non ti svegli una mattina e dici “voglio scrivere Le schegge”. I romanzi sono qualcosa che si manifesta, e solitamente partono da dei sentimenti che provi, e questi sentimenti si sviluppano nel corso dei mesi, a volte anche nel corso di un anno. Sono sentimenti che spesso hanno a che fare con il dolore, con cose da cui sei ossessionato ma non sai perché. Perché a 56 anni di colpo ero ossessionato dagli anni in cui ero al liceo? Perché ero ossessionato dagli amici che avevo allora, da questa ragazza che avevo e da questo ragazzo che poi è venuto fuori che non era davvero il mio ragazzo? L’anno dei miei 17 anni è l’anno in cui ho perso la mia innocenza, è stato l’anno di demarcazione dall’adolescenza all’età adulta. Ma perché adesso? Perché? Non lo so ma è così. E poi improvvisamente nell’aprile del 2020 dopo mesi in cui il mio compagno di liceo Matt Kellner mi appariva continuamente in testa ho semplicemente iniziato a scriverne. Penso che molto abbia avuto a che fare con i lockdown, con il Covid, con la pandemia. Tutti i miei progetti erano stati cancellati e quindi avevo molto tempo libero e ho iniziato a cercare i miei compagni di liceo sui social. Molti di loro non sono riuscito a trovarli. Non ho trovato Ryan Vaughn ma ho trovato Debbie Shaffer, e non riuscivo a trovare Matt Kellner e questo mi ha ossessionato ancora di più. Questo romanzo lo volevo già scrivere, nel 1982 avevo già la scaletta pronta. Avevo smesso di scrivere Meno di zero per scrivere Le schegge. Mi sembrava molto più attuale, molto più drammatico. Ma non ci riuscivo. Meno di zero mi sembrava un libro più facile da fare, era corto, non era basato sulla trama, era incentrato sulla coscienza, nel romanzo c’era una vibe sull’intorpidimento. Quel libro potevo scriverlo, ma non potevo scrivere Le schegge, era troppo lungo, c’erano troppi personaggi, succedevano troppe cose. E quindi alla fine – finalmente! – dopo 40 anni è riapparso. Non pensavo nemmeno di scrivere Imperial bedrooms. Pensavo che Lunar Park sarebbe stato il mio ultimo romanzo e pensavo che sarebbe diventata una serie tv. Allora la televisione era diventata fantastica, la gente sembrava abbandonare il romanzo per guardare ottime serie e scrivere ottime serie. E ho pensato: è quello che voglio fare, questi sono i nuovi romanzi. Così sono arrivato a Hollywood e ho sprecato 15 anni lavorando a cose che non sono mai state realizzate. Ma l’ho sempre fatto con passione, e questo forse ha peggiorato ancora di più le cose. Appassionarsi ed essere pagati bene per fare cose che non sarebbero mai state realizzate. Ecco, questa è la versione corta del perché ci sono voluti 13 anni tra un romanzo e l’altro. Ma io la vedo così: era arrivato il momento di scrivere questo libro e finalmente liberarmene.

 

Quindi ora si sente libero?

Sì, completamente libero. È stata una gioia scriverlo. Scrivere è godimento. Adoro scrivere, e adoro scrivere narrativa. Sapere di svegliarsi e sapere che hai un romanzo a cui lavori tutti i giorni è il massimo della felicità.

 

Scrive tutti i giorni?

La prosa è diversa dalle sceneggiature. Per esempio stamattina stavo scrivendo la prima puntata della serie tratta da Le schegge. C’è un piacere anche nello scrivere sceneggiature. Però sì, sono sempre a scrivere qualcosa, nel mio ufficio.

 

In una vecchia intervista racconta che mentre scriveva Rules of attractions stava leggendo l’Ulisse di Joyce. Cosa ha letto mentre scriveva Le schegge?

Negli ultimi dieci, quindici anni, ho iniziato a credere che gli scrittori del diciannovesimo secolo siano le vere rockstar. Sono i grandi veri romanzieri. Dickens, Tolstoj, George Eliot, per cui ho iniziato ad avere una vera cotta, Balzac, Flaubert. Questi grossi romanzi realisti con panoramiche sociali hanno iniziato ad avere un serio impatto su di me. E penso che abbiano anche avuto un impatto su Le schegge, in termini di ampiezza e di lunghezza. Mi è sembrato che il libro respirasse, cosa che secondo me Meno di zero non faceva. Meno di zero è un libro conciso, che puoi leggere in due ore, e riguarda una cosa molto specifica. Qui volevo ricostruire storicamente la Los Angeles di allora, volevo scrivere un romanzo di formazione sulla mia giovinezza e sui sentimenti che provavo verso i miei amici, e su molte cose che mi sono successe, intrecciandole a questa specie di crime thriller con un serial killer. Quando però ho iniziato a scrivere Le schegge nell’82 c’era sicuramente l’influenza dei libri di Stephen King, e il titolo stesso del libro aveva un che di spaventoso, The Shards, in stile King, come The Shining. Ora invece il titolo mi ricorda solo qualcosa di molto triste.

 

È contento di aver aspettato?

Sono molto contento di non aver scritto questo libro quando avevo diciotto o diciannove anni, cioè quando lo avevo iniziato.

 

Shining è citato anche nel suo libro.

King è stato importante quando avevo dodici anni. Shining è uscito nel marzo del ’77 e l’ho letto appena uscito, ero già un fan di King. Ha avuto un impatto gigantesco allora. Era un libro molto spaventoso. E mi ci sono immedesimato. L’ho riletto cinque o sei anni fa e ho pensato: non è un gran romanzo.

 

Continua a leggere King?

No, ho smesso.

 

Quando ha smesso?

Penso dopo Il talismano, scritto con Peter Straub. Ma mi è piaciuto quello sull’assassinio di JFK, 11/22/63. Forse è stato Tommyknockers a farmi smettere, non riuscivo a finirlo, non faceva proprio per me. E fino ad allora avevo letto tutti i suoi libri. Ero già da un’altra parte, stavo abbandonando l’idea che un romanzo dipendesse dalla storia, dai personaggi. La mia guida ero lo stile, era quello che mi guidava attraverso i romanzi, era la coscienza dell’autore, e non le varie cose che possono succedere in una casa stregata, o in un’automobile dannata, o in un cimitero per animali, o quello che è. Volevo lo stile, volevo la voce. E King non ce l’ha, ma l’ha avuta per un po’, ed è stato importante per un giovane scrittore come me, perché King ha preso l’horror e ci ha inserito il realismo, in un modo che non avevo mai visto fare prima. Nomi di marche, canzoni pop, politica… ha portato un’autenticità a questo genere antiquato pieno di ragnatele, molto diverso rispetto a quell’horror inglese con cui sono cresciuto negli anni Settanta. Stephen King ha cambiato tutto.

 

Vi siete mai conosciuti?

Una volta abbiamo rischiato di incontrarci a una festa a New York, ma non è successo. Ma aveva scritto un’entusiastica recensione di Lunar Park su Entertainment Weekly. Era prima degli iPhone ed ero così scioccato che, mentre ero lì in piedi all’aeroporto di Miami, mi sono messo a piangere. Il pensiero che a un mio eroe della gioventù gli fosse piaciuto così tanto un mio libro…

 

Lei è dipendente dall’iPhone?

Sì. Completamente.

 

È meglio o peggio della dipendenza da cocaina?

Peggio. Molto peggio della cocaina.

 

Dentro Le schegge non ci sono iPhone, è ambientato nel 1981.

Parlavo con Quentin Tarantino e mi ha detto: «Non è bellissimo scrivere qualcosa dove non ci sono gli iPhone dentro? Non farò mai più un film con un iPhone dentro. L’ultimo mio film, The movie critic, è ambientato nel 1979». Questo [prende in mano il mio iPhone] ha rovinato tutto. In termini di segreti, trama, backstory. È tutto finito, caro mio. Basta. Ovviamente non ho scritto Le schegge per fare un libro dove non ci fossero gli iPhone. Bisogna comunque accettare il tempo in cui viviamo, e io non voglio combatterlo. Però avere 59 anni è molto diverso da averne 17. Penso che allora fosse un periodo più innocente, ed era senza dubbio preferibile essere giovani allora rispetto a esserlo nel 2023. Era tutto più divertente, c’era più libertà, non ti sentivi soffocare. E nessuno prendeva gli psicofarmaci. E poi non c’erano sparatorie nelle scuole, e il tasso dei suicidi non era così alto tra i giovani. Nonostante la nostra insensibilità, il nostro cinismo… erano un’insensibilità e un cinismo divertenti. Penso davvero che fosse più divertente essere giovani.

 

Nell’epilogo dice che è stato più facile scrivere della giovinezza a quest’età.

Sì. Finalmente potevo essere onesto. Non dovevo più stare attento. A 18 anni quando ho provato a scrivere Le schegge non potevo essere così onesto sulla mia omosessualità, o sui miei amici di allora. Non potevo scrivere con onestà, o nemmeno sapere, cosa stavo attraversando, rispetto invece a 40 anni dopo, quando sei pieno di consapevolezza. Ora posso far combaciare tutto, connettere tutti i punti, e posso davvero solo adesso con molta più onestà scrivere di quando avevo 17 o 18 anni, e con più libertà. È stato più facile, quella parte del libro, scriverla a 57 anni.

La versione delle Schegge che stavo scrivendo allora, e parliamo di circa cinque pagine, faceva così: «Sto andando in macchina verso le stalle a vedere il cavallo della mia ragazza. Sono in hangover da cocaina. Alla radio passa una canzone di Blondie. Vedo Debbie in piedi nel campo, il cielo è nuvolo. Vado verso di lei. Eccetera eccetera». Era lo stile di Meno di zero. Mi ero subito reso conto che non avrei potuto scriverlo così. Non era lo stile adatto per questa grande storia sinfonica.

 

Il modernismo era più influente allora, prima che leggesse George Eliot.

Sì, molto di più. Questo, nonostante il lato di autofiction, è più vicino ai romanzi ottocenteschi. Non penso mai a tutto il discorso che si fa sull’autofiction, ma so che la gente la chiama così. Mi hanno dato quest’etichetta ma non so cosa sia. Questo libro non è stato concepito così, pensavo più a Dario Argento che non a Ben Lerner, ecco.

 

Il discorso sull’infanzia fa venire in mente una domanda del questionario di Proust: quand’è che è stato più felice?

Evito sempre di rispondere al questionario di Proust, non ho mai voluto farlo. Ma il momento in cui sono stato più felice era l’estate del 1991 dopo la pubblicazione di American Psycho e sapevo che quello che avevo scritto non era come gli altri lo avevano descritto. Vivevo in un piccolissimo bungalow sulla spiaggia, a Wainscott, vicino a New York, con il mio ragazzo di allora. E finalmente mi ero innamorato di lui, anche se avevo iniziato a uscirci solo per via dell’Aids. Nessuno andava a letto con gli altri con leggerezza, appena usciti dal college ci siamo persi la rivoluzione sessuale per via dell’Aids. Quindi io mi sono trovato un noioso avvocato con cui stare e speravo di riuscire a sopportarlo, e poi nell’estate del ’91 mi sono reso conto che ero innamorato di lui. E abbiamo passato quell’estate vivendo sulla spiaggia. Non sono mai più stato così felice come nell’estate del ’91.

 

Le importa di quello che scrivono gli altri dei suoi libri?

No. Non è importante. Al mio ragazzo non piacciono alcuni dei miei libri. Ho avuto anche altri ragazzi a cui non piacevano. A mio padre non piacevano i miei libri. Non mi importa. Non sono scritti per gli altri. Non mi importa se non piacciono al mio agente, se non piacciono ai critici, o ai lettori. La scrittura non ha minimamente a che fare con il piacere che si può dare agli altri, riguarda solo l’auto-espressione, le cose che devo scrivere, che ho bisogno di scrivere. Scrivo solo per me stesso. Non mi sono mai arrabbiato con un critico, non ho mai risposto a una recensione negativa.

 

Ma le legge le recensioni?

Sì, non tanto quanto prima, sempre meno. E poi sono un critico, ho un podcast dove recensisco libri e film e serie tv. Essere un critico è auto-espressione, è una cosa personale, riguarda più te dell’opera che stai recensendo. Riguarda più te stesso del film o del libro. Riguarda la tua impressione, il tuo punto di vista, non quello del regista o dell’autore. L’autore non ha fatto niente di male, sei tu che hai dei problemi con la sua opera, o che provi dei sentimenti su quello che ha prodotto. Ho sempre visto la critica come un atto di auto-espressione, quindi non posso prenderla sul personale.

 

In una recente intervista Werner Herzog ha detto che Los Angeles è la città al mondo con più sostanza.

Non sono praticamente mai d’accordo con Werner Herzog. Dice sempre cose di questo genere. Non penso che si possa credere a una singola parola di quello che dice. E non credo in nessuna delle cose che ha scritto nel suo memoir, e nemmeno lui ci crede. Penso che sia Werner Herzog che fa Werner Herzog. Non penso nemmeno che lui ci creda a quello che dice su Los Angeles. È molto Herzoggiano. Los Angeles ha i suoi cliché e Herzog vuole contraddire questa cosa e su questo sono d’accordo. Penso che LA sia una città con molta sostanza, e più cresce, più si allarga, più la diventa. Ci sono sacche di persone estremamente talentuose, nel mondo dell’arte, ad esempio. Tutti parlano del mondo del cinema con un certo tono, ma ci sono tanti grandi autori, registi, set designer, direttori della fotografia, artisti, spesso usati male, ma è una città centrale per il talento. Ed è in molti modi una città molto sofisticata. Alla gente piace prendere in giro LA, Woody Allen lo fa sempre, ma è una città che ha i suoi misteri, e ha una sua espansione che la rende interessante, e c’è molta diversità. Geograficamente puoi andare dal mare alle montagne al deserto in quarantacinque minuti. E alcune zone sono bellissime. Ho vissuto lì gran parte della mia vita. Mi piace LA.

 

Le manca New York?

No. Ho provato a vendere il mio appartamento lì, ce l’avevo quasi fatta ma ho deciso di affittarlo. Vorrei venderlo. Ce l’ho dal ’97. Ma non mi manca New York. Ero brevemente lì col book tour e ho fatto solo un reading a Brooklyn e la città non mi è piaciuta per niente. L’ho surclassata nel 2003, ed era arrivato il momento di togliermi da lì. Ma gli anni Novanta a New York erano incredibili. Però poi la festa finisce, come scrive benissimo Joan Didion in Bei tempi addio, l’ultimo pezzo di Verso Betlemme. Racconta quanto sia fantastico essere giovani a New York ma poi la festa finisce e senti che è arrivato il momento di andarsene. Per me è stato esattamente così.

 

In passato ha detto che Glamorama è il suo libro preferito tra quelli che ha scritto.

Non so perché l’ho detto. [Ride]. Glamorama è stato quello per cui ci è voluto più tempo. E mi sono divertito incredibilmente a scriverlo e dovevo finirlo in tre anni ma mi divertivo così tanto che ce ne sono voluti otto. Sono andato in Europa, in Francia, ho vissuto in Italia, poi a Londra per un mese e ho attraversato l’Atlantico sulla Queen Elizabeth II, e volevo continuare a scriverlo e riscriverlo e aggiungere elementi della cospirazione, adoravo il personaggio di Victor Ward, e ridevo tutto il tempo. Ho provato una grande gioia nel lavorare a quel libro. Ed ero anche molto giovane e non avevo mai fatto così tanto sesso nella mia vita. I trent’anni sono fantastici, per alcune persone. Ma ora non vedo più i miei libri come uno migliore dell’altro. Sono tutti molto diversi scritti in periodi diversi della mia vita e riflettono quei periodi della mia vita. Mi rimangio quello che ho detto su Glamorama. Ma mentre sei in giro a promuovere il libro dici sempre che quello lì è il tuo preferito.

 

Tra i due romanzi hai scritto Bianco, un saggio autobiografico dove parli della cultura millennial, della stupidità contemporanea, e di quanto sia facile oggi offendere gli altri. Pensa che quest’èra stia finendo?

Sono diventato amico di molti zillennial, quelli della Gen Z. Sono abbastanza conosciuto e quindi conosco un sacco di gente, ho amici di settant’anni con cui vado a cena e amici della mia età, Gen X, e poi il mio ragazzo è un millennial. E ora inizio ad avere amici della Gen Z. È molto interessante come i miei amici maschi della Gen Z siano disgustati dai millennial. Trovano il loro atteggiamento, l’idea dei self space, dei trigger warning, tutta quella paura, quella narrativa esibizionista, una cosa che rigettano completamente. Si vedono separati da quella cultura lì. Questo è normale, i Gen X l’hanno fatto con i Boomer, e i Boomer con la Silent generation, eccetera eccetera. Succede spesso tra generazioni. Ma qui è giusto, e bisogna farlo con violenza, ripeto, con violenza! Bisogna mettere a tacere i millennial. Bisogna mettere questo terribile momento di cultura millennial in una stanza e chiudere la porta a chiave e buttarla via. E spero che a farlo siano i Gen Z, io ho le mie speranze.

 

E l’impatto di questa cultura su Hollywood?

Non so quanto vero potere abbiano i millennial a Hollywood. È ancora un business gestito da vecchi uomini bianchi. Per quanto a tutti piaccia dire che sia un posto progressista, inclusivo ed eterogeneo, fattelo dire, non lo è. Tutti gli studios sono controllati da uomini bianchi che sono Boomer, o al massimo della Gen X. Tutte le iniziative sulla diversità che erano state portate avanti nelle principali case di produzione ora sono state bloccate perché non funzionavano. La gente si lamentava, o erano gestite male. Con questa ideologia, per cui tutti sono andati nel panico dopo l’omicidio di George Floyd, le cose sono andate troppo oltre, verso una narrativa sentimentale che non ha niente a che vedere con l’arte o con l’assumere persone di talento. Ma il processo per cui “se hai una vagina o se hai la pelle di un certo colore allora ti assumiamo, ma non ti assumiamo se non sei così” ha segnato un momento terribile di Hollywood. Ora però alcuni finalmente lo stanno ammettendo e si vede in atto una forte reazione. C’erano troppe denunce da parte di scrittori bianchi a cui veniva detto dal loro agente “non stanno assumendo scrittori bianchi”. Ma è razzismo. Se non puoi dire “non assumo scrittori neri” non puoi neanche dire “non assumo scrittori bianchi”. E poi l’Affirmative action cancellata dalla Corte suprema… Sono tutti segnali di un massiccio respingimento in un settore che riguarda il talento, e che dovrebbe riguardare solo quello. Se sei una ispanica verde disabile e sai scrivere un’ottima sceneggiatura, fallo. Sei assunta. Ma non assumermi per il colore della mia pelle, o perché ho la vagina o perché sono gay. Ma anche la cosa dei gay è finita, ormai non hai più un lasciapassare nemmeno con quello. Credo che solo arte e talento possano essere dei grandi equalizzatori e che risolvano questa situazione.

 

Cosa pensa dell’interesse negli ultimi anni verso true crime, podcast, programmi sui serial killer?

Non so perché ma ho scritto un podcast true crime con Irvine Welsh. Abbiamo firmato il contratto quando la cosa era all’apice e ci abbiamo messo così tanto a farlo che ora nessuno lo vuole produrre. Era un finto true crime in otto puntate. È colpa mia se ci è voluto tanto, ero troppo perfezionista. Irvine avrebbe potuto farlo in una settimana ma io volevo che fosse perfetto. E Irvine mi diceva “ci stai pensando troppo”. E quando finalmente ero contento col prodotto, ora non li compra o produce nessuno. Io però non sono mai stato interessato al true crime.

 

Legge molti autori contemporanei?

Sì. Ho molti amici che sono autori contemporanei. Mi è piaciuto Demon Copperhead di Barbara Kingsolver, che ha vinto il Pulitzer, non pensavo mi sarebbe piaciuto e invece sì. Poi Trust di Hernan Diaz. Mi è piaciuto L’ospite di Emma Cline, e i romanzi di Rachel Kushner. Ma si stanno pubblicando troppi libri. È un problema serio. Ci sono troppi libri nel mercato e il 90 per cento non riesce a trovare dei lettori. Penso che debbano ridurre il numero di libri pubblicati ogni anno.

 

Quindi è più difficile avere successo, nel modo in cui l’ha avuto lei a vent’anni?

Non penso. C’è un libro, Tomorrow and tomorrow and tomorrow, che negli Stati Uniti ha venduto tipo 900 mila copie. E prima che uscisse il tascabile. È stata una sorpresa, nessuno se lo aspettava, ma il passaparola e certi book club possono aiutare a trovare dei lettori. Non so se questo libro esisterà ancora tra dieci o quindici anni. Penso a La ragazza della palude di Delia Owens che ha venduto 15 milioni di copie ed è diventato un film di grande successo. Ci sono dei libri che escono e raggiungono dei numeri incredibili ma si parla di tre all’anno. E parlo di romanzi letterari, non di James Patterson o di Stephen King. Alcuni veterani dicono che è sempre stato così. E io non ho certo mai venduto così tanto con Meno di zero, se va bene avrò raggiunto le centomila copie con copertina rigida tra il 1985 e il 1986. Niente rispetto al successo di questi romanzi, come Lessons in chemistry di Bonnie Garmus o Tomorrow and tomorrow and tomorrow. Ma alla fine non mi interessa, voglio scrivere romanzi ma il business dei romanzi non mi interessa. Sono completamente fuori dal mondo editoriale. Non ho quasi mai rapporti con il mio editor. Anche con il mio agente – che ora sono otto perché l’agenzia è stata comprata da una più grande – non ho molto di cui parlare, se non organizzare le trasferte e prenotare gli hotel per il book tour. Da oltre un decennio non ho più rapporti con il mondo dell’editoria.

 

Sente mai Donna Tartt, la sua vecchia compagna di college?

Non parlo con Donna Tartt dal 2013, da dieci anni. Non abbiamo più alcun tipo di contatto. Penso che le uscirà un libro l’anno prossimo, ormai son passati dieci anni dall’ultimo.

 

A un certo punto ne Le Schegge si parla delle librerie di Los Angeles che ormai sono tutte fallite.

Vivo a un minuto di distanza da una delle migliori librerie di LA, Book Soup, su Sunset Boulevard. Però io compro i libri su Amazon. Compro su impulso, so cosa voglio comprare. Compro sei o sette libri a settimana, libri vecchi, nuovi, fuori catalogo e non vado fino al negozio. E poi hai degli sconti, su Amazon. E per quanto a volte mi posso sentire in colpa, la colpa non è sufficiente per andare fino alla libreria. È troppo comodo. E poi l’era delle librerie è finita. È triste ma è così. I miei momenti migliori li ho passati da giovane in libreria e potevo stare lì seduto per ore, scegliendo libri e aprendoli e leggendoli. Ma quell’epoca è finita e ora c’è Amazon.

 

Anche l’era delle riviste è finita?

Non leggo quasi più le riviste. Mi sembrano propaganda, non sono più interessanti. Hanno dei secondi fini, un’ideologia. Per qualche cazzo di motivo sono ancora abbonato a Esquire e GQ, ma penso di aver fatto un abbonamento a vita e non riesco a cancellarlo. Cosa cavolo me ne faccio di GQ? Sono inutili. Tipo sessanta pagine. Erano belle grosse una volta, con storie interessanti, e ora le leggi in due minuti. Sono piene di wokeness e altre cose idiote. Leggo il New Yorker, a volte è buono, altre no. Vanity Fair è terribile. Le riviste sono praticamente uscite dalla mia vita.

 

Chi vincerà le presidenziali nel 2024?

È una cosa a cui non penso. E non mi importa. Io non voterò. Non ho mai votato alle elezioni nazionali. Penso che non saranno comunque delle elezioni legittime. C’è qualcosa di marcio nel sistema. La maggior parte della gente non si fida dei risultati elettorali. I progressisti non si sono fidati dopo le elezioni del 2016 e quindi si sono inventati la teoria dell’interferenza russa. E i repubblicani non hanno creduto al risultato delle elezioni del 2020 e quindi hanno spinto la teoria dei brogli. Quindi cosa fai? Da una parte ci sarà qualcuno che si lamenta del risultato e dall’altra parte si inventeranno delle stronzate. Io sono fuori da questi giochi. Per me la politica è una carnevalata. Se la osservi troppo a lungo ti arrabbi e io non voglio arrabbiarmi.

 

Sta scrivendo un nuovo libro?

Era da un po’ che stavo pensando di fare qualcosa, un libro sul cinema, e ne ho parlato a Quentin Tarantino e lui aveva detto, «lo scriverò prima io», e l’ha fatto con Cinema Speculation. Gli avevo detto: «Voglio scrivere un libro sui film della mia adolescenza, quelli che hanno avuto un grande impatto su di me e le storie che girano intorno a quei film». Come quando sono stato portato a vedere un film, Halloween, portato dai genitori di un mio amico che lavoravano nel cinema, e racconto di quando sono andato a vedere questa sneak preview e di com’era andare in macchina fino a lì, e chi era questo tipo John Carpenter che introduceva il film e vedere il film e rendersi conto che tutto era cambiato, e parlarne. Voglio fare più roba mainstream rispetto a quello che ha fatto Tarantino nel suo libro, dove sono quasi tutti film blaxsploitation ed exploitation e molti non sono così validi come sostiene lui. Voglio fare più film tipo Apocalypse now, film degli anni Settanta e Ottanta, e raccontare degli amici con cui ero, come mi sentivo, com’era quella giornata… O anche cose più contemporanee. Nel mio podcast ho parlato di quando sono andato a vedere Top Gun nel 1986 e poi Maverick l’anno scorso. L’amico con cui ero andato a vedere Top Gun al cinema si è ammazzato poi la settimana in cui è uscito Maverick. Un momento davvero emotivo per me. E poi vorrei ristampare varie recensioni che ho fatto nel corso del tempo.

 

Nessun romanzo, aspettiamo altri 13 anni?

Ne ho scritto uno molto breve, uno spy thriller. Sono duecento pagine, ci ho messo due mesi. Non so come ho trovato il tempo per scriverlo. Parla di una ragazza che viene quasi obbligata a diventare una spia. La ragazza è molto sessuale e ha un problema di droga, ed è anche la narratrice. Il mio agente ha detto: “è fatto bene”. E io ne avrei dieci in testa con questo personaggio. Ma il mio agente mi ha anche detto che uno scrittore bianco e vecchio come me che scrive di una ragazza che fa sesso anale con un russo non troverebbe un editore. Non so cosa ci farò, ma potrei trasformarlo in una serie tv.

 

Lei ha una memoria formidabile.

Ho molti taccuini e diari. Ho così tante pagine dagli anni di Meno di zero che non ho mai usato, sono pieno di taccuini e diari e liste di canzoni, liste dei tipi a cui ho pensato facendomi una sega…Prendo appunti ma molte cose le ricordo. Tipo non ho dovuto prendere appunti dopo che un produttore mi ha fatto un pompino al Beverly Hills Hotel. Mi ricordo quel pomeriggio esattamente com’è successo. E l’ho trascritto nel libro esattamente com’è successo. Era da quarant’anni che volevo scrivere quella scena. Ma anche altre scene e dialoghi del libro, era da decenni che volevo scriverle. Ci sono molte cose autobiografiche che nascono completamente dalla memoria, che sono incise nella mia testa.

 

E una volta che sono sulla carta?

Mi sento benissimo.

 

È il motivo principale per cui scrive?

Sì, senza dubbio.

Giulio Silvano (Lerici, 1989)  è  redattore di Nuovi Argomenti, ha  tradotto  alcuni libri (tra cui Bernard Malamud e Anne Carson), collabora con il Foglio.