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La donna che stava nel mezzo

Buoni o cattivi? E poi c’è la terra di nessuno. Anahita non si fida della protesta contro il regime a Teheran, non esce, non guarda le ragazze che camminano senza velo e non ascolta le canzoni di rivolta. Non crede più a niente, è disillusa e ha paura. Ma l’altro giorno ha preso l’auto e l’ha visto: lo sconvolgimento coraggioso della rivoluzione
Le immagini sono tratte dal film “Shirin” di Abbas Kiarostami (2008), non distribuito in Italia e disponibile su YouTube

Quando suona il campanello, il cielo, lo stesso cielo di velluto che dieci anni fa ha convinto Anahita a cambiare quartiere, ha appena iniziato a scolorire sopra le montagne. “Sono io, Golnaz, la vicina”, dice la voce squillante al di là della porta, e Anahita schiacciata contro lo spioncino si vede costretta a girare due volte la chiave nella serratura per aprirle. Il fatto è che Golnaz la rende nervosa, non perché si siano verificati screzi tra loro, tutt’altro, ma perché una decina di giorni fa Anahita si è trovata più o meno casualmente, dietro alla porta, e Golnaz sul pianerottolo insieme alla figlia. “Buoni o cattivi?”, ha chiesto la bambina alla madre indicando le porte dei cinque appartamenti del sesto piano. Era il genere di gioco con cui anche Anahita avrebbe tenuto occupati i suoi figli da piccoli, per cui si era incuriosita e aveva avvicinato l’occhio allo spioncino. Davanti ai primi due appartamenti ha sentito Golnaz rispondere di getto, “buoni”, “cattivi”, come pretendeva la figlia, ma quando la bambina ha puntato il dito verso la sua porta, Anahita ha visto Golnaz prendere tempo, inspirare, espirare lentamente e uscirsene sentenziando “vasat baz”, quello era un appartamento abitato da una persona che stava nel mezzo.

Golnaz suona un po’ in affanno, come se arrivasse da una corsa, ha le guance arrossate, gli occhi lucidissimi, quasi liquidi, stavolta la bambina non c’è, nella mano destra tiene un sacchetto, si tratta di compresse alla curcuma, spiega estraendo un flacone dalla busta di plastica, pare siano portentose contro i dolori alle articolazioni. “Che pensiero gentile, grazie”, risponde Anahita con tutto il calore di cui è capace, ossia non molto, e poi se ne resta piantata sulla soglia a chiedersi cosa diavolo ne possa sapere Golnaz dei suoi dolori, consapevole che sarebbe il caso di invitarla a entrare, e ciò nonostante incapace di procedere. Forse è il tono confidenziale di Golnaz a indispettirla, il tono insinuante di una che la sa lunga e non rinuncia al vezzo della premessa: “Non mi piacciono i pettegolezzi ma…”, e un attimo dopo inizia a sparlare della signora del quinto piano che ha aperto la porta a un fattorino di Dijikala. Dijikala è l’Amazon iraniano e Golnaz ritiene che vada boicottato perché i suoi proprietari sono legati mani e piedi alle Guardie rivoluzionarie. Forse a irritare Anahita è proprio la foga con cui Golnaz pontifica che il nuovo Iran è già nato e che è impossibile ignorarlo, la sicumera con cui disquisisce di ogni fatto vero o verosimile: dalle mani che grondano sangue di Dijikala al professor M., licenziato dall’università per essersi schierato a difesa dei suoi studenti, ai bancomat che non erogano contanti, non si capisce se “perché tutta la città sta ritirando denaro all’unisono” o perché “il sistema ci vuole terrorizzare”. Ma può anche darsi che a mettere a disagio Anahita su quel pianerottolo sia qualcosa di diverso, qualcosa di più personale che ha a che vedere con le guance in fiamme di Golnaz, e con i suoi occhi accesi di speranza, qualcosa che riporta Anahita a un tempo in cui nessuno l’avrebbe accusata di essere il tipo di donna che ha paura, il tipo di donna che, pur di non rischiare, rimane nella terra di nessuno. Prima di quest’appartamento con la vista sulle montagne, nella vita di Anahita c’è stata un’altra casa, in una via bordata di platani e sicomori, un marito, dei figli e anche un’altra vicina, chiamata Nazli. A quei tempi, gli anni dell’austerità e della guerra con l’Iraq, Anahita e Nazli si prestavano scatole di pelati, libri e bottiglie di shampoo Darugar, e ogni volta che arrivava un pacco di una cugina o di una sorella dall’America o dall’Europa, condividevano l’emozione di sparpagliarne il contenuto sul letto ora dell’una ora dell’altra, perché era più bello indossare un rossetto o un reggiseno nuovo davanti allo stesso specchio e poi spartire tra i figli le tavolette di cioccolata Lindt, mentre loro si eclissavano per sfogliare i numeri speciali dedicati alla moda della rivista Hola. La vita pubblica era grigia, opprimente e pericolosa, povera di sorrisi e di musica, ma a casa, nonostante le privazioni, Anahita tornava a respirare. Certo, accadeva che la Repubblica islamica allungasse la sua ombra tra le mura domestiche, che un figlio tornasse a casa in lacrime a causa delle reprimende di un insegnante di educazione morale, ma in quegli anni il sabato sera, alle nove, la sua famiglia e quella di Nazli si riunivano in religioso silenzio per guardare la soap opera giapponese Oshin, altre volte a dispensare il sollievo ci pensava un “filmi”, che passava di casa in casa affittando pellicole proibite da inserire in un videoregistratore Betamax – sì a quel tempo Nazli e Anahita si dicevano che solo un legume sarebbe riuscito a non deprimersi in quell’Iran, ma la verità è che erano ancora giovani e che il solo parlarne le aiutava ad andare avanti.

Finché a poco a poco entrambe smisero di dirsi le cose che facevano male. Il marito di Anahita si stava spegnendo, i figli di Nazli sarebbero partiti per non tornare e lo stesso, un giorno, sarebbe capitato ai suoi. “Ieri notte ho sognato il poeta Hafez. Spalanca le ali e vola, mi ha detto”, le racconta Nazli, sdraiata sul copriletto su cui anni addietro leggevano Hola. E’ troppo difficile per Nazli chiamare le cose con il loro nome, confessare di aver già comprato un biglietto per Toronto da sei mesi, Anahita lo sa.

Sono già passati gli anni della speranza e della disillusione di Mohammed Khatami, gli anni delle invettive e della repressione di Mahmoud Ahmadinejad, gli anni del doloroso abbaglio di Hassan Rohani e con il presidente di oggi, Ebrahim Raisi, il cerchio si è chiuso. Orrore per orrore. Anahita ormai non crede più a niente. Ogni tanto le capita di pensare a un racconto di Heinrich Böll che le ha passato Nazli: si intitola La mia faccia triste, è la storia di un uomo che vive in un regime totalitario e che un giorno viene condannato a scontare dieci anni di prigione per aver mostrato la sua tristezza, a dispetto della legge che esige da tutti una faccia felice. Anni dopo, la regola cambia, e l’uomo finisce nei guai nuovamente, quando lo stato decide che quello che non può più essere mostrato stavolta è un volto felice. Vivere nella Repubblica islamica, si dice Anahita, è come abitare dentro al racconto di Böll, non puoi mai vincere a dispetto degli sforzi, per cui è inutile provarci.

“Che tempi, eh?”, la saluta Golnaz, più radiosa del solito, davanti all’ascensore.

“Eh già”, le risponde Anahita perché non sa mai come reagire alla sua energia. Non le piace l’idea di apparire disfattista, la donna che sta nel mezzo, la donna incapace di fidarsi del coraggio, ma è così che si sente. Si fa consegnare la spesa a casa per evitare gli ingorghi causati dai manifestanti. Non vuole sentire i clacson che strombazzano nel cuore della notte, non ha ascoltato le canzoni di rivolta di cui parlano tutti né vuole vedere le bambine coraggiose che escono a capo scoperto dalle scuole, o le ragazze che danzano e lanciano i loro veli nel fuoco, Anahita non guarda i video che fanno il giro del mondo, le veglie, le marce, i funerali, i maschi e le femmine che si tengono per mano e invadono le mense delle università, mentre il volto di Mahsa Amini rinasce nel cuore della notte sul fianco di un palazzo di Ekbtatan. E’ troppo vecchia per imparare a usare i Vpn. E a cosa servirebbe se non ad aggiungere dolore alla galleria del dolore che già conosce? Golnaz intanto sorride. Porta la figlia sulle spalle e con una mano manovra il passeggino. “La rivoluzione è già cominciata, mi creda signora Anahita”, dice Golnaz. “Sarà quel che sarà mia cara”, sospira accarezzando la mano della bambina mentre esce dall’ascensore.

Sono settimane che Anahita non prende la macchina, ma quando esce dal box ha l’impressione che sia trascorso un tempo che non riesce a definire. La distanza tra il prima e il dopo la misurano i colori delle foglie e la sirena di un’ambulanza che quando passa la fa rabbrividire, perché Golnaz le ha raccontato che è anche così che si muovono per la città i reparti antisommossa. Per passare inosservati, requisiscono ambulanze e camion dei pompieri, è possibile pure che trasportino i feriti nei furgoncini che vendono gelato. Intanto, la bandiera della Repubblica islamica giace in precario equilibrio sul camion della nettezza urbana che sta cercando di superare, una ragazza senza velo batte le dita su un tamburo, cantando davanti a un chiosco che vende succhi di frutta. Nei pressi di piazza Haft-e-Tir, una signora cammina mano nella mano con il nipote, e a ogni passo i suoi lunghi capelli bianchi fremono come piume giù per la sua schiena. Hassan, il macellaio del quartiere, si sbraccia dal finestrino della sua Samand.

“Sarà quel che sarà”, pensa mentre ricambia il saluto e senza pensarci si ritrova a divaricare le dita in segno di vittoria.

Tatiana Boutourline (Firenze, 1975), giornalista e scrittrice. La sua famiglia non ha più potuto tornare in Iran dal 1978. Ha studiato a Oxford, oggi vive e scrive in Italia. Racconta l’Iran sul Foglio dai primi anni Duemila.