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La nostalgia per la mia piccola città

Nella bella e stanca Odessa viene voglia di rintracciare gli incroci della canzone yiddish del cuore, “Beltz, Mayn Shtetele Beltz”. Inizia così un viaggio nel mondo perduto tra Ucraina, Moldavia e Polonia fatto di fiumi, musiche e campi annientati dalle persecuzioni e dalla guerra. Ritrovarsi nella voce di un ragazzo, sotto un giovane albero verde

Lo scritto che segue ha bisogno di un paio di avvertenze. La prima è che avrebbe potuto essere scritto dovunque, col solo ausilio della rete, ma soltanto a Odessa ho avuto la curiosità di rintracciare i molteplici incroci di una canzone con questa città bella e stanca. La seconda è una richiesta interattiva, per così dire: vorrei che lettrici e lettori eventuali la ascoltassero prima, la canzone yiddish cui sono più affezionato. Si intitola “Beltz, Mayn Shtetele Beltz”. Vi suggerisco di ascoltarla almeno in due versioni. Una degli anni ’30, cercando su YouTube “Mein Shtetle Belz – My Little Town of Ba˘lt,i”. Un’altra dei nostri anni, per la voce di Talila, con l’Ensemble di Kol Aviv (Talila è una cantante e attrice nata in Francia nel 1946 da genitori ebrei polacchi).

Le parole della canzone sono di Jacob Jacobs (1892-1972), attore e autore, la musica di Alexander Olshanetsky (1892-1946). Dirò più avanti della genealogia della canzone; intanto ne copio il testo, il cui pregio più evidente sta nella semplicità di parole e sentimento: la nostalgia.

Az ikh tu mir dermonen Mayne kindershe yorn, Punkt vi a kholem

Zet dos mir oys.

Vi zet oys dos hayzele, Vos hot amol geglantzt,

Tzi vakst nokh dos beymele, Vos ikh hob farflantzt?

Oy, oy, oy Beltz, mayn shtetele Beltz, Mayn heymele, vu ikh hob

Mayne kindershe yorn farbrakht.

 

Beltz, mayn shtetele Beltz, In ormen shtibele,

Mit ale kinderlekh dort gelakht. Oy, eden Shabes fleg ikh loyfn Mit ale inglekh tzuglaykh

Tzu zitzn unter dem grinem beymele, Leynen bay dem taikh

Oy oy oy Beltz, Mayn shtetele Beltz,

Mayn heymele, vu kh’hob gehat Di sheyne khaloymes a sakh.

Dos shtibl is alt, Bavaksn mit mokh

Dos shtibl is alt,

In fentzter keyn gloz Dos shtibl is alt, Tzeboygn di vent, Ikh volt shoyn zikher Dos vider nit derkent

 

Una sommaria traduzione dice: “Quando ripenso alla mia infanzia, mi sembra di sognare. Come starà la casetta che un tempo brillava di luci? Cresce l’alberello che ho piantato tanto tempo fa? Beltz, la mia piccola città! La casetta dove ho trascorso la mia infanzia. La povera stanzetta dove ridevo con gli altri bambini. Ogni Sabbath correvo sulla riva del fiume per giocare con gli altri bambini sotto un giovane albero verde. Beltz, la mia piccola città! La mia piccola città dove ho fatto tanti bei sogni! La casetta è vecchia e ricoperta di muschio. Il vecchio tetto è crollato e le finestre sono senza vetri. La soffitta è storta, i muri curvati. Non la riconoscerei mai…”.

Quando ho cercato per la prima volta notizie sulla Shtetele Beltz, ho fatto confusione. Ho trovato subito Belz in Ucraina, nell’oblast’ di Leopoli-Lviv, al confine polacco, un villaggio di nemmeno tremila abitanti. Ha il suo fiume, Solokija, un affluente del Bug. Ha cambiato tante volte nazione, e padrone: polacca, austro-ungarica, ucraina e di nuovo polacca, poi sotto il governatorato nazista, ancora polacca, poi dell’Urss e infine, dal 1991, ucraina. Accanto a una insigne storia ebraica, la piccola Belz ha un memorabile passato cattolico: è il luogo d’origine, fino al 1382, della Madonna Nera di Cze˛ stochowa, l’immagine sacra più venerata dai cattolici polacchi e ucraini, che la attribuiscono alla mano dell’evangelista Luca. È la Nostra Signora del santuario di Jasna Góra, la montagna chiara, la cui effigie campeggiava sui cancelli dei cantieri di Danzica e dell’acciaieria di Nowa Huta a Cracovia nella stagione di Solidarno´sc´.

Alla vigilia della Prima guerra, Belz aveva 6.100 abitanti, di cui 3.600 ebrei, 1.600 ucraini e 600 polacchi. Al tempo del patto tedesco-sovietico, nel ’39, la maggioranza degli ebrei di Belz fuggì in Unione sovietica: nonostante ciò, nel 1942 ce n’erano ancora 1.540, fra residenti e rifugiati. Mille furono sterminati in giugno a Sobibor, gli altri furono deportati a settembre nel ghetto di Hrubieszów (Lublino).

Belz, che era stata abitata da una comunità ashkenazita fin dal XIV secolo, dall’inizio dell’Ottocento aveva ospitato una importante dinastia hassidica, il cui quarto Rebbe riparò in Israele nel 1944, ricostituendo la hasidut a Tel Aviv e poi a Gerusalemme.

La voce di Yad Vashem su Belz mostra che il mio errore è stato fatto da tanti. La pronuncia yiddish del nome Belz/Beltz coincide con quella di Ba˘lt,i, la città della Bessarabia, oggi in Moldavia, di cui la nostra canzone cantò la nostalgia.

Dobbiamo dunque trasferirci a Ba˘lt,i, che in romeno è il plurale di balt˘a e vuol dire “pozzanghere”, o “lago”. È la seconda città della Moldova, 150 mila abitanti, dopo Chis,ina˘u. Ha naturalmente anche lei il suo fiume, Ra˘ut, un affluente del Dniester. Oggi non ci sono ebrei, salvo che siano finiti nell’ultima voce della lista, “Altri”. Aveva avuto una comunità rigogliosa di sionisti, movimenti giovanili, riformatori religiosi. Alla fine dell’Ottocento, gli ebrei erano già la maggioranza, impegnati nelle più diverse occupazioni, comprese quelle altrove loro estranee o inibite, come l’agricoltura: c’era la più importante produzione di olio di girasoli. C’erano le più rinomate fiere di cavalli, di bestiame e di cereali della Bessarabia. Nel censimento del 1930, gli ebrei erano 14.229, il 60 per cento dell’intera popolazione. Nel 1940, il patto Molotov-Ribbentrop assegnò Ba˘lt,i all’Urss. L’anno dopo fu occupata da tedeschi e romeni, e fu la caccia. Restarono i romeni, come a Odessa, e non di rado furono i più spietati: “Nel settembre 1941 gli ultimi ebrei di Ba˘lt,i – circa 2.800 persone – furono espulsi nel campo di Ma˘rcules,ti e la popolazione ebraica della città cessò di esistere. A Ma˘rcules,ti morirono molti membri della comunità e gli altri furono deportati in Transnistria”.

Anche sotto il controllo russo le persecuzioni furono vigorose: sionisti, imprenditori, “borghesi”, deviazionisti politici erano arrestati e mandati ai lavori forzati, le famiglie smembrate e deportate in Siberia. Ho trovato un dettaglio raccapricciante, che cito solo perché sembra anticiparne un altro ancora più raccapricciante, con cui si chiuderà questo racconto. “Il treno per la Siberia portava la scritta ‘Viaggiatori volontari’, e in una stazione, dove erano stati radunati anche gli ebrei dai villaggi attorno a Ba˘lt,i, veniva mandata una musica ad alto volume per coprire i pianti”.

Il poeta Jacob Fichman (1881-1958) che a Ba˘lt,i era nato e aveva trascorso la sua fanciullezza, ne lasciò un ricordo già intriso di nostalgia: “Ho visto grandi città piene di

ogni genere di delizie, ma di tutti i luoghi che ho visitato e attraverso cui ho vagato, l’erba non mi è sembrata così luminosa come nei prati sulle rive del Ra˘ut, macchie d’oro sopra l’acqua limpida”.

Fichman ricevette due volte, nel 1945 e nel 1953, il prestigioso premio di poesia intitolato a Bialik (nel 1989 il premio andò ad Abraham Yehoshua, sia questo il mio saluto). Hayyim Nahman Bialik (1873-1934), che è considerato il poeta nazionale di Israele, era nato in Ucraina, in Volinia. Si trasferì a Odessa quando aveva 18 anni, e ci restò per vent’anni.

Era dunque questa Ba˘lt,i la città in ricordo della quale era stata composta la nostra canzone, destinata al musical “Ghetto Song”, “Dos lied fun geto”, per il teatro yiddish della Second Avenue, a New York. E dedicata alla celebre soprano Isa Kremer, nata a Ba˘lt,i nel 1887, che probabilmente fu la prima a eseguirla, accanto all’attore e tenore ebreo-americano Seymour Rechzeit-Rexite (secondo altre versioni, la canzone era stata scritta nel 1926 per il film “The Cantor’s Son” interpretato da Moishe Oysher. E a cantarla poi con Isa Kremer sarebbe stato Leon Goldvag, anche lui nativo di Belz).

Nel ghetto di Varsavia, Władysław Szlengel avrebbe adattato nuove parole alla canzone: “Warszawo ma… Varsavia mia”.

La canzone divenne dunque famosa a New York e nel 1935 comparve in Polonia in una colonna sonora polacca. Isa Kremer era venuta da Ba˘lt,i a Odessa, prima di viaggiare in Italia, a Milano, per seguire le lezioni di canto di un rinomato maestro. Cantò alla Scala in molte opere, poi tornò a Odessa. Fu proprio Bialik a persuaderla a portare nei teatri la musica popolare ebraica, e i testi yiddish.

Dopo la rivoluzione, Kremer era emigrata in Polonia e di lì negli Stati Uniti, dove visse a lungo, fino a trasferirsi in Argentina, dove morì nel 1954.

In visita a Ba˘lt,i nel Dopoguerra, Jacob Fichman tornò sul tema del rimpianto per un mondo perduto, quello che nella canzone, anni prima della Shoah, si era espresso in termini così deliberatamente semplici.

“Ora, nessun fratello, nessun amico, mi aspetta

Nei verdi campi del R˘aut Ora è desolato

I tetti di tegole sono scomparsi tra le rovine

La grazia del mondo che un tempo era qui

è sparita per sempre

E ciò che resta da vedere sono solo i resti spettrali della casa di mio padre”.

 

Veniamo allora al dettaglio col quale chiudiamo questa rievocazione. Preferisco trarlo dal resoconto di un viaggio della memoria di superstiti dei campi e altri cittadini israeliani ad Auschwitz, nel 2013, stilato da Kevin Connolly, un corrispondente della Bbc: “Mentre iniziavano a radunarsi per la cerimonia finale, una delle guide israeliane ha tirato fuori il suo smartphone e ha riprodotto la registrazione di una vecchia canzone ebraica – Mein Shtetele Beltz – nella luce calante.

Era già stata ascoltata, proprio qui, in passato. Nel 1944, un ufficiale delle SS sentì un orfano ebreo di 16 anni, di nome Samuel Gogol, che la suonava, e lo costrinse a ripeterla mentre le famiglie venivano ammassate lungo l’ultimo breve percorso verso la camera a gas.

A quanto pare si pensava che avrebbe reso più facile gestire la folla”.

Adriano Sofri (Trieste, 1942), scrittore.