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La pelliccia dell’ape regina

Di mia nonna, la falsaria, ho avuto il visone nero da duchessa decaduta in un film di Visconti. Avrei voluto invece uno degli oggetti contraffatti che la spingevano a mentire. Ora che se ne è andata a tormentare qualcun altro, chi era la punk tra noi due?

La madre di mio padre è morta d’estate due anni fa, in un giorno in cui era impensabile indossare delle calze, eppure gliele abbiamo dovute mettere lo stesso, per contenere il gonfiore e l’aspetto screziato delle gambe tinte di blu, di viola e di nero, colori che non dovrebbero neanche starci su delle gambe. In realtà non so chi gliele abbia messe, 30 denari color carne: la pandemia aveva riorganizzato tutti i protocolli della morte, e l’unica volta che mi ero potuta avvicinare per salutarla ero stata costretta a indossare una tuta bianca con un cappuccio dotato di reticella. Non un indumento da infettivologa o da guerrigliera contro le invasioni batteriologiche, ma la tuta bianca di chi si avvicina a un apiario e non può farsi pungere troppo. La divisa di chi si accosta a un alveare per vedere un’ape regina. E un’ape regina, lei era. Avevo un talento per distinguerle: la prima volta che mi avevano portato a vedere le api da ragazzina, ci avevo messo meno di un minuto a individuare chi comandava, quella diversa da tutte le altre. I miei amici erano colpiti, ma non c’era nessuna somiglianza tra me e quell’ape: piuttosto ce l’avevo avuto in famiglia, e adesso era morta. Ero convinta che la morte di mia nonna avrebbe scatenato delle guerre sul possedimento dei suoi beni. In qualche modo lo auspicavo, e credo se lo aspettasse anche lei, così il distratto disfarsi della sua vita materiale mi è sembrato un po’ malinconico e un po’ indecente, come se niente fosse troppo prezioso per essere custodito. C’è stato persino un po’ di imbarazzo quando si è trattato di distribuire gli oggetti che la rappresentavano di più: i ferri per lavorare la lana (sono stati seppelliti con lei), la macchina da cucire che si è comprata quando aveva sedici anni e l’aveva fatta diventare sarta, un visone. A me, dato che questa storia non contiene molta suspense, e non ha faide, è toccato il visone. Quando  qualcuno  mette  un  annuncio  per la perdita di un oggetto, spesso scrive che non vale molto economicamente, ma ha un “immenso valore affettivo”. È impagabile. Impossibile da sostituire. Vi prego di restituirlo se lo trovate, è un caro oggetto di infanzia, o di famiglia. Ci sono giacche da uomo con le toppe ai gomiti che ho perso negli alberghi – due, a distanza di anni – che potrebbero rispondere a questa definizione, ma sono giacche che mi sono comprata da sola ai mercati dell’usato, che appartenevano a uomini che non ho mai visto, e che non sono cari oggetti di infanzia o di famiglia, ma della persona che mi sono impegnata a diventare, dopo che ho molto fantasticato di esserlo. Questi sono i miei oggetti smarriti privati, quelli per cui metterei degli annunci. Non potrei mai scriverli per le cose che ho ereditato da mia nonna, anche se le perdessi: più che un’eredità guadagnata o agognata, si tratta di un’opera di salvataggio per impedire che tutto si estingua della sua persona. Ma se avessi potuto scegliere cosa prendere, invece del visone che potrebbe avere un valore materiale anche se non ne ha uno affettivo, avrei puntato sugli oggetti che spingevano mia nonna a mentire. I quadri, due, appesi in salotto. Il primo era l’evidente frutto di un pittore o una pittrice della domenica, con dei tetti blu in un villaggio funestato da un ammanco di corrente. Una tela notturna circondata da una cornice sproporzionata rispetto al resto che mi è sempre sembrata una scelta strana per mia nonna, che non concepiva tre cose nella vita di una donna: il fatto che potesse sudare, avere il ciclo mestruale ed essere triste. Era la spiegazione di quel quadro a interessarmi: sollecitata dai visitatori, negli ultimi anni della sua vita, mia nonna diceva che era “un Picasso che ho fatto commissionare”. Lo aveva preso a Porta Portese, ma il riferimento a Picasso mi inteneriva, credo fosse l’unico residuo culturale di una delle sue poche trasferte all’estero, la Spagna dei Mondiali dell’82, in cui diceva di essere andata a vedere i tori e i musei, ma in realtà era sgattaiolata a Fatima in Portogallo per pregare per il figlio sordo e matto che le era nato, dopo che le avevano detto di smetterla con Lourdes e Padre Pio e poi era tornata, e guarda un po’ neanche Fatima aveva funzionato. (Il falso Picasso in qualche modo sì, dato che era servito ad attirare almeno la mia di attenzione). Il secondo quadro era una riproduzione sgranata di Le dejeuner sur l’herbe di Manet, probabilmente associato al viaggio francese alla ricerca di altri miracoli nei santuari, e resto convinta che avesse acquistato quella stampa perché la donna seduta sull’erba le somigliava, diafana e con i fianchi larghi, qualche accento di rosso nei capelli, anche se mia nonna non lo avrebbe mai ammesso. Io non ero riuscita ancora a vederla nuda, sarebbe successo solo un giorno in cui l’avevo dovuta cambiare perché non c’era nessuno ad aiutarla in casa, e mi ero dovuta arrendere alla magrezza di cui si era vantata per tutta la vita. Ma era una magrezza ereditata dalla vecchiaia e dalla malattia, e so che mia nonna ha sempre avuto la vita stretta e i fianchi larghi come la donna del quadro di Manet, fianchi simili ai miei che si è sempre sforzata di negare accusandomi di non rispondere al suo ideale e di non aver preso niente da lei.

Una cosa che avrei voluto prendere da lei, nei giorni in cui mi sento particolarmente cattiva, altro che il visone: la sua capacità di distruggere qualsiasi idea che gli altri potevano avere di loro stessi.

La migliore amica di mia nonna viveva nel palazzo accanto, una donna di timide pulsioni con un’aria bonaria da Maga Magò che veniva dalla Calabria ed era cresciuta in Ciociaria, ma nonostante quest’angosciante combinazione di meridioni era riuscita a conquistarsi l’affetto elitario di mia nonna, e andavano a fare merenda vicino casa compiacendosi delle loro differenze: per mia nonna essere amica di questa donna era la dimostrazione della sua generosità e del suo buon carattere, per la vicina di casa era la prova di essere riuscita a entrare nel giro delle ragazzine giuste a scuola, di essere stata accettata al loro tavolo a mensa. Io ero un’adolescente, la vicina di casa aveva sessant’anni, ma avrei voluto dirle di uscire da quella scuola, di smettere di rispondere alle chiamate al citofono di mia nonna, che c’era sempre tempo per rinsavire da quella umiliazione e da quella crudeltà. Che non c’era nessuna magia nel conquistare l’apprezzamento delle ragazze cattive. Il giorno in cui era venuta a casa per una visita, mia nonna le aveva porto un cestino di cioccolatini che conservava per le occasioni speciali, poi l’aveva guardata e le aveva detto “Meglio di no, ti sei ingrassata”, e io  stavo per insorgere, convinta che se avessi salvato la vicina di casa avrei salvato anche me e tutte le sorelle, le ragazze, le compagne di scuola e colleghe che avevano subito le angherie e perfidie di quella sarta, ma la vicina di casa aveva fatto qualcosa che mi aveva sorpreso: si era messa a ridere, sedotta e grata della schiettezza di mia nonna, dalla sua evidente trasgressione delle buone maniere. Quella che per me era cafonaggine e maleducazione, per l’amica di mia nonna era una manifestazione di libertà: tra noi due, chi era la punk e chi era la borghese?

A differenza del falso Picasso, questo non era un quadro che aveva commissionato, lo aveva semplicemente pagato una cifra sconsiderata di soldi. E poi c’era il terzo oggetto su cui mentiva, un orologio laccato in oro comprato all’Autogrill che sosteneva essere un Piaget. Era una riproduzione perfetta, tanto che dopo la sua morte qualcuno di noi si era premurato di andare a farlo valutare – quell’orologio era l’unico bene materiale appartenuto a mia nonna che potesse scatenare una lite e speravamo disperatamente che fosse vero, la guerra tra noi sembrava l’omaggio più sincero che potessimo prestare a quella donna, – e l’orologiaio aveva raccontato una storia bizzarra, e cioè che per un dato numero di anni erano andati di moda quei falsi Piaget venduti negli Autogrill, patacche fatte veramente bene, destinate a ingannare persino i più accorti e scettici dei profani.

Di mia nonna volevo solo gli oggetti contraffatti e da falsaria, e invece mi è rimasto un visone nero lungo fino ai piedi da duchessa decaduta in un film di Visconti, che lei indossava poco e temeva le venisse rubato insieme al colbacco mal abbinato con cui lo indossava, una specie di castoro gonfio e spelacchiato nei punti sbagliati. È un oggetto ingombrante, che sta male nelle nostre case, e non abbiamo trovato nessun’altra soluzione dopo il funerale e lo sgombero dell’appartamento che parcheggiare il visone nel garage della persona che più l’ha detestata nella sua vita: mia madre.

La prima volta che si erano viste, mia nonna le aveva chiesto se fosse una prostituta, e quando aveva messo al mondo mio fratello, le era venuta la tentazione di rubare il bambino in ospedale e di scappare, per salvarlo dalla negligenza della nuora, ma si era limitata a rubarle i mobili ogni volta che mia madre andava in vacanza. Ancora oggi mia madre mi chiede che fine hanno fatto i suoi cuscini di pelle marrone, e i suoi quadri e le sue lampade, ma ho l’impressione che mia nonna li rubasse per venderli, per far impazzire la nuora attraverso l’apparizione dei ladri o di forze oscure che potevano minacciare la sicurezza del suo giaciglio domestico: come in Rosemary’s Baby di Polanski, ma senza i maschi e i diavoli veri.

Niente cuscini, niente quadri e niente lampade: l’unico modo in cui mia madre si è potuta vendicare dell’ex suocera è stato ospitare quel visone nero che le stava malissimo, ma adesso che sono passati due anni, la soddisfazione è scemata, e vuole restituirlo alla sua legittima proprietaria, che sarei io. Sono mesi che provo ad accampare scuse per impedire che questo oggetto mi entri in casa: tiro in ballo la mancanza di spazio, confermo che non prevedo un viaggio nelle terre fredde del nord in cui potrebbe avere un senso indossarlo, annaspo tra scuse varie pur di non ammettere che non lo voglio e la decisione più sensata sarebbe abbatterlo, uccidere l’animale che ha generato la pelliccia per una seconda volta: ripagare la morte con un’altra morte attraverso la morte.

Mia nonna se n’è andata a tormentare qualcun altro da due anni, ma attraverso i suoi oggetti continua a offendermi, dato che la risposta di mia madre alle lamentele sulla pelliccia che non voglio è stata una sola: “Ma il visone devi conservarlo per il banco dei pegni nel caso tu non avessi più soldi”. Questo è quello che pensa mia madre del mio lavoro e della mia vita editoriale: che io sia sempre sull’orlo del lastrico e in procinto di perdere tutto. Forse perché è successo anche a lei, solo che lei non aveva neanche un paio di scarpe da barattare. Anche mia nonna pensava che la disgrazia fosse imminente, così mentiva alle amiche dicendo che facevo l’avvocato o lavoravo in televisione, perché la televisione rispetto ai libri dava un altro prestigio e un’altra sicurezza nella mia famiglia paterna. Il caso ha voluto che qualche giorno dopo questa discussione abbia incontrato un amico scrittore che ha provato a vendere le pellicce di sua madre dopo che è morta, ma nessun rivenditore dell’usato e nessun banco dei pegni le ha volute: costava più smaltirle che tenerle, ed era impossibile spiegare a certe donne che nel corso della loro vita il valore era cambiato.

Non è una brutta pelliccia: è setosa, nera,

ha un odore di lavanda, a differenza di tutti i vestiti che abbiamo dovuto buttare perché puzzavano da morta anche se li aveva messi soltanto da viva. Pesa una decina di chili, sta piegata in una scatola bordeaux e vellutata senza marchi, e diventerà un’eredità problematica, per cui in fondo nessuno litigherà. Messa via, di lei non mi resterà neanche un oggetto. E quel giorno forse potrò dirmi una delle verità: che era una regina, non aveva terre, e le volevo bene.

Claudia Durastanti (Brooklyn, 1984), scrittrice e traduttrice. Ha tradotto, tra gli altri, Ocean Vuong, Donna Haraway e Joshua Cohen. Il suo ultimo romanzo, “La Straniera” (La Nave di Teseo, 2019, finalista al Premio Strega), è stato tradotto in ventiquattro paesi. È direttrice editoriale della collana La Tartaruga de La Nave di Teseo e consulente del Salone del Libro di Torino.