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La rovina del sesso, la vitalità del sesso: ecco la letteratura

«Solo quando scopi riesci a essere nettamente te stesso». Fino a che l’animale morente è diventato lui, Philip Roth, e ha intuito il legame indissolubile tra sesso e scrittura. La grandezza e la fine di un uomo

Per quante cose tu sappia, per quante cose tu pensi, per quanto tu ordisca e trami e architetti, non sei mai al di sopra del sesso. E per questo è un gioco assai rischioso. Un uomo non avrebbe i due terzi dei problemi che ha se non continuasse a cercare una donna da scopare. È il sesso a sconvolgere le nostre vite, solitamente ordinate. Lo so io e lo sanno tutti». Queste sono le parole di Roth, anzi del narratore protagonista de L’animale morente. Che però poi dice anche: «Perché solo quando scopi riesci a vendicarti, anche se solo per un momento, di tutto ciò che non ami nella vita e di tutte le cose che nella vita ti hanno sconfitto. Solo allora sei più nettamente vivo e più nettamente te stesso».

Quindi, cos’è il sesso? È ciò che crea problemi, o è ciò che ti vendica di tutto? È la rovina o la vitalità? Di sicuro, è uno dei temi preferiti nei libri di Philip Roth. E in questo romanzo – pubblicato nel 2001 (e in Italia un anno dopo), uno dei più grandi e strazianti, più indifesi, in cui per la prima volta il tema della vecchiaia viene affrontato frontalmente – il sesso si rivela in tutta la sua potenza e allo stesso tempo in tutta la sua fragilità. Perché il grande errore di Philip Roth, l’errore che costituisce la grandezza della sua opera letteraria attraverso l’imbuto del sesso, è credere che questo possa salvare (o salvarlo, se giochiamo con l’opera autobiografica) dal dolore dell’amore. E invece il dolore si moltiplica o si frantuma, ma non c’è salvezza né aggrappandosi alla solitudine, né al cinismo né alla poligamia.

Ecco cosa ha fatto Roth: si è messo nella posizione di chi non lo sapeva, non aveva capito (o faceva finta di non sapere e faceva finta di non aver capito); e così dal sesso è esploso l’amore, e dall’amore è esploso il dolore.

Questo, se si potesse sintetizzare, potrebbe essere uno dei possibili riassunti dell’intera opera di Philip Roth.

L’animale morente potrebbe essere Consuela Castillo, la ragazza meravigliosa di ventiquattro anni che frequenta il seminario di critica letteraria tenuto da Kepesh, uno degli alter ego letterari dello scrittore. Scatena una tale furia erotica, da fa perdere a Kepesh non solo il suo proposito tenuto saldo da trent’anni di non avere più relazioni stabili; ma distrugge a uno a uno tutti i pezzi di sé stesso, distrugge l’uomo come un mostro mangiatore di organi all’interno del suo corpo. Consuela ha un seno enorme e perfetto, che diventa il tormento ossessivo del narratore, e la forza centripeta della sua erotomania. Ma poi Consuela si ammala, e si ammala proprio nella parte del corpo più irresistibile. Ma cosa chiederà a Kepesh di fare, lo scoprirete leggendo il libro.

Però sembra impossibile che la vita faccia questo: fa incontrare un vecchio professore e una studentessa irresistibile, fa incontrare la vecchiaia e la giovinezza; e propone di far soccombere la giovinezza.

La trama sembra voglia portare a questo; ma – ovviamente – non è così.

In realtà, infatti, l’animale morente è Kepesh.

La morte comincia quando il protagonista del romanzo, invece di provare piacere per la relazione con Consuela, sente arrivare per la prima volta nella sua vita la gelosia. È l’inizio della fine. E la giovinezza non soccombe davvero alla vecchiaia, ma la svela per infilzarla. Il grande equivoco che ipnotizza gli uomini anziani quando incontrano donne giovani (e le donne anziane quando incontrano uomini giovani) è credere di aver trovato un elisir. È come quell’amico di Mastroianni in Otto e mezzo, che ha lasciato la moglie per una splendida e scatenata ragazza inglese, e adesso la accompagna sulla pista da ballo, e arranca, suda, e probabilmente anela alla vita di prima. Perché succede esattamente il contrario: l’incontro con la giovinezza misura nitidamente e sottolinea la vecchiaia; indebolisce e non rafforza; fa vedere in termini più chiari tutte le impossibilità. Tra persone della stessa età il respiro affannoso non si nota, i due respiri si coprono a vicenda alle orecchie dell’altro; accanto alla giovinezza, il proprio respiro affannato diventa assordante, intollerabile. Un incubo.

È insomma un errore fatale:

«Non fraintendermi. Non è che, grazie a una Consuela, tu possa illuderti e pensare di poter avere un’ultima iniezione di giovinezza. Mai come in questo momento senti la distanza che ti separa dalla giovinezza. Nella sua energia, nel suo entusiasmo, nella sua giovanile ignoranza, nella sua giovanile sapienza, questa distanza è drammatizzata in ogni momento. Impossibile confondersi sul fatto che è lei, e non tu, ad avere ventiquattro anni. Dovresti essere uno stupido per sentirti ancora giovane. Se ti sentissi giovane, sarebbe troppo facile. Non ti senti giovane, tutt’altro: senti l’ampiezza del suo futuro illimitato contrapposto al tuo futuro limitato, senti – più ancora di quanto fai di solito – l’intensità di ogni ultima grazia perduta. È come giocare a baseball con una squadra di ventenni. Non è che ti senti ventenne perché stai giocando con loro. Noti la differenza ogni minuto che passa. Ma almeno non sei ai bordi del campo, in panchina.

Ecco che cosa succede: senti lo strazio di essere vecchio, ma in un modo nuovo».

Tutto questo succede per un motivo che Roth individua con assoluta precisione e genialità:

«Un giovanotto la troverà e la porterà via. Lo vedo. Lo conosco. So di che cos’è capace perché quel giovanotto sono io a venticinque anni, ancora senza moglie e figlio; sono io nudo e crudo, prima che facessi quello che hanno fatto tutti gli altri».

I giovani non sono gli altri, non lo sono per davvero; ma il fantasma di te stesso quando eri giovane. È per questo che non puoi vincere più, perché stai lottando contro te stesso, contro la tua potenza ormai perduta; e quindi sai cos’è, sai misurarla, sai quanta ormai te ne manca. Dovresti combattere con il ricordo di chi sei stato, ed è impossibile.

Tutto questo, allora, non può riguardare solo Kepesh; ma direttamente il suo autore.

La questione allora, che in modo ingenuo e meno ingenuo ci si pone quando si parla degli alter ego di Roth, è se stia parlando di sé stesso oppure no. I lettori sono ossessionati da questa domanda, e in realtà questa ossessione non è colpa di chi legge ma di chi scrive. Perché molti, compreso Roth, fanno di tutto per far fare questa domanda ai lettori. E alla solita domanda, uno come Roth sa dare anche la risposta giusta: «Se i miei libri sono così persuasivi da convincere questi lettori che io abbia fornito loro la vita allo stato puro, senza alcun cambiamento, così com’è vissuta, be’, non è la croce più pesante che uno scrittore abbia dovuto portare. Meglio che se non mi credessero affatto. Oggi va di moda lodare libri a cui non si crede. ‘Bellissimo questo libro, non credo a una parola di quel che c’è scritto’. Ma io voglio essere creduto, e mi adopero per riuscirci» (in Perché scrivere?).

Quindi, in fondo, fino a quando è avvinghiato alla letteratura, lo scrittore respinge la morte. A questo punto, l’ipotesi può essere la seguente: l’animale morente è colui che ha deciso, negli ultimi anni della sua vita, di smettere di scrivere romanzi? Roth rispondeva di no; forse anzi solo adesso, se ne vale la pena, posso cominciare a vivere, ha ripetuto per anni nelle interviste, in modo sospettabile. Ma come sappiamo, nessuno veramente felice passa il tempo a rassicurare il mondo di essere felice.

Una soluzione a questa ipotesi viene dalla biografia di Roth scritta da Bailey – ed è una soluzione più convincente proprio perché in realtà si tratta di un’autobiografia scritta attraverso una terza persona; questo nulla vuole togliere alla bravura di Bailey, e anche a una certa sua indipendenza dai compiti affidatigli da Roth. Ma che il patto fosse quello, è chiaro. Ecco, la biografia sembra confermare una cosa. Che Roth ha smesso di scrivere e di fare sesso, più o meno contemporaneamente. E se fosse così, come del resto sembra sia, è una voragine che si apre dentro noi lettori e dentro tutti quelli che hanno a che fare con la letteratura: vuol dire che il sesso e la scrittura sono intimamente legati – o almeno era così per Philip Roth. Ma se era così per Philip Roth, potrebbe essere un teorema ipotizzabile. Un abisso. E se pure riguardasse soltanto Philip Roth, sarebbe una questione gigantesca. La conseguenza è questa: quella rovina o quella vitalità, tutti quei quintali di ossessione erotomane, sono serviti a scrivere i romanzi che sono stati scritti da uno dei più grandi autori dell’era contemporanea.

Il sesso è letteratura. E la letteratura sono i romanzi di Philip Roth. È questa la rovina? È questa la vitalità?

L’animale morente, infine, al fondo, e più di ogni altro, è Philip Roth. Quando ha smesso di scrivere. E forse quello è il libro in cui Roth potrebbe essersi reso conto di questo legame indissolubile tra il sesso e la scrittura. Forse quello è il libro dove Roth lo intuisce.

Quando ha smesso (di scrivere, di fare sesso) ha passato degli anni felici, certo, ma è stato proprio com’è la vecchiaia: come avere un cancro lento, che è chiaro che per quanto sia lento, prima o poi ti ucciderà.

Francesco Piccolo (Caserta, 1964), scrittore e sceneggiatore. Ha pubblicato, tra gli altri: «Il desiderio di essere come tutti» (Premio Strega 2014), «L’animale che mi porto dentro» (2018), e la trilogia dei «Momenti trascurabili» (2010, 2015, 2020), tutti editi da Einaudi. Il suo ultimo libro è «La bella confusione» (Einaudi, 2023).