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La scuola si muove e pure tutta questa ansia

Il registro elettronico, i voti nelle griglie dei fogli excel, ti metto 4 perché devi capire, e tu non copiare da lui, ché non sa niente. Quando abbiamo smesso di ascoltare davvero i nostri figli, e abbiamo iniziato a ricattarli con il dovere della felicità?

È ricominciata la scuola, adesso la casa è silenziosa e il tavolo della cucina è ricoperto di tazze di caffelatte bevute a metà. Nutella da una parte, mezzo biscotto dall’altra, il gatto che ci salta sopra e cerca di capire se gli piace. Non gli piace. Un libro di Spagnolo per terra, ma dai te l’ho appena comprato e già lo distruggi. Prove di colazione e di scarpe da ginnastica, un paio di jeans, biglietti della metro sparsi in giro e il solvente per unghie con cui mio figlio si è tolto i resti dello smalto nero. Il periodo più bello dell’anno, con i quaderni nuovi e la sensazione che sia ancora tutto da decidere. Una volta passavamo ore in cartoleria a cercare il diario scolastico più fico del mondo, adesso non serve, c’è il registro elettronico per qualsiasi cosa, che comodità, che controllo, e che noia bestiale. Però è ancora il periodo più bello dell’anno, come tutti gli inizi, no? No, sembra proprio di no.

È ricominciata la scuola, è ricominciata l’ansia.

Ho ricevuto alcune drammatiche notizie di figli di amici che si sono ribellati con tutto il corpo (quindi con l’anima intera) a qualcosa che noi non riusciamo a decifrare. Ascolto storie vicinissime di disagio e di paura. La scuola, il mondo, gli altri, che cos’è questa tristezza, che cos’è questa fatica di vivere? Perché non sei felice, ho fatto forse qualcosa di sbagliato, io che ti amo così tanto? Il meccanismo è ricattatorio: devi essere felice perché sennò io, tua madre, tuo padre, divento triste e anzi mi dispero. Io che sono adulto o che almeno dovrei esserlo, e che quindi esercito il mio potere adulto su di te ragazzino (ed è il potere che esercitano anche gli insegnanti, non solo per il ruolo ma perché, appunto, sono adulti), rischio di andare in pezzi se tu non mi rassicuri che va tutto bene. Ho paura di chiedertelo, anche, se va tutto bene, perché ho paura di ascoltare la risposta. Cerco di trovare colpe che non mi riguardino troppo: la pandemia, i social, te lo butto dalla finestra quel telefono.

Questa è un’autocritica, naturalmente, e mi chiedo fino a che punto posso spingermi. Non è che anche la scuola è entrata a far parte dei capri espiatori? Me lo chiedo da anni, da quando ho sentito qualcosa incrinarsi, e non volevo crederci, era più semplice dire a mio figlio: studia, che sennò mi dai un dispiacere. Ora che ho cercato di disinnescare questa specie di ricatto, ora che ho capito che se un ragazzino torna da scuola con gli occhi bassi con il suo tre in qualche materia stretto dentro il registro elettronico (la prima cosa che si vede quando si apre la app), quel ragazzino potrà anche respingere l’ansia, pensare ad altro, riderci sopra, andare a giocare a calcio, chiudersi dentro la playstation, ma quell’ansia e quella disistima di sé si infilano lo stesso in un terreno fertile, in un’identità ancora tutta da costruire in cui da una parte ci sono gli adulti e dall’altra ci sono i ragazzini.

Penso che la scuola, in quanto posto migliore in cui si possa crescere e imparare il mondo, debba ripensare a sé stessa in un modo più adulto. Non è adulto dire a un ragazzino: non hai capito niente. Non è adulto dirgli che non rispetta gli standard (io non lo so che cos’è uno standard e non voglio saperlo in tutta la mia vita, mi rifiuto di pensare che uno standard sia una cosa buona). Non è adulto dirgli: ti sei impegnato, lo vedo, quindi ti metto 4 perché devi capire che devi fare di più e devi parlare meglio. Non è adulto dire alla compagna di banco di quel ragazzino: è inutile che copi da lui che non sa niente. Ma soprattutto, ed è questo il punto davvero importante, per genitori e insegnanti, non è adulto non porsi il problema (che non è un problema, è una ricchezza) di chi abbiamo di fronte. Non è adulto non fare domande, non è adulto aderire a un sistema di procedure senza applicare il nostro senso critico, senza usare la nostra adultità in un modo costruttivo. Pensiamo che i nostri figli, i nostri studenti siano tutti uguali, tutti allo stesso modo scombussolati dagli anni del covid e tutti allo stesso modo dipendenti dai social, rincretiniti dai social? Rendiamoci conto di che sciocchezza stiamo dicendo: ci siamo mai percepiti uguali a qualcun altro? Al vicino di casa, al collega di lavoro, al marito scemo della nostra amica? Ma quando mai, anzi, ci teniamo moltissimo a far presente che noi però siamo diversi da tutti. E però io chiedo a mio figlio: che voto hanno preso gli altri? E lui dice, sconcertato: mamma, ma che te ne importa? E in effetti, ma che domanda è, ma quanti anni ho, sette? No, molti di più: a un bambino di sette anni non verrebbe mai in mente di fare una domanda così sciocca. I ragazzi a scuola sentono di essere valutati ancora prima che visti. E invece hanno tantissima voglia di essere visti: hanno voglia di raccontare al professore di Scienze che loro la sera dalla finestra cercano la via lattea, hanno voglia di dire che il padre lo vedono poco e gli dispiace tanto, hanno voglia di dire che in quel tema ci hanno messo tutte le cose che pensano. E quelle cose sono più importanti dell’apostrofo saltato, quelle cose sono una grande occasione di capire, un grande atto di fiducia.

Quali sono i compiti fondamentali degli adulti, genitori e insegnanti? Capire chi sono questi ragazzi e come parlare con loro, come accendergli lo sguardo, oppure valutarli secondo le griglie di un foglio excel? Fargli venire la voglia di studiare, l’interesse per le materie nuove, o terrorizzarli con i voti? Lo so che serve un grande lavoro, ma siamo adulti, non ragazzini, dovrebbe essere il nostro compito, a prescindere dalle questioni burocratiche del sistema scolastico. Invece li trattiamo, spesso, come una massa indistinta di “giovani” dipendenti dai telefoni (come se noi abitassimo su un altro pianeta e non sapessimo nulla della vita che viviamo). Scriviamo articoli pensosi e impolverati in cui dimostriamo di non avere interesse ad ascoltare cose nuove. E del resto, perché loro dovrebbero cercare di parlare con noi, che sappiamo già tutto, anche di chi è la colpa? E invece, incredibilmente, loro hanno tantissima voglia di essere ascoltati, e se trovano una fessura ci si infilano raggianti di domande e di racconti.

I ragazzi che provano disagio, lo sappiamo, esercitano questo disagio prevalentemente contro sé stessi. Si tagliano, smettono di mangiare, si chiudono in camera, si chiudono in casa, si escludono dal mondo. A volte succede di peggio. A volte, diciamo, è “solo ansia”. Solo ansia. È normale che la scuola metta ansia. È normale che la scuola metta tristezza. È normale sentirsi inadeguati e mortificati.

Quasi sessant’anni fa, mio padre venne bocciato a settembre dopo essere stato rimandato in tre materie. Era il liceo classico e suo padre si era ammalato gravemente e velocemente: quell’estate è morto. Lui è andato a fare gli esami di riparazione senza avere studiato, credo che non abbia aperto bocca. Nessuno dei professori ha mai saputo che suo padre era morto, lui non l’ha detto perché non gli sembrava giusto, non gli sembrava serio. Nessuno gli ha mai chiesto: ma va tutto bene? Non era una domanda possibile. Aveva diciassette anni e non solo nessuno l’ha consolato, ma è stato anche bocciato e ha creduto sempre che fosse sua responsabilità. Abbiamo fatto molta strada da allora, per fortuna, verso qualcosa che adesso chiamiamo empatia. La scuola si muove, cambia insieme alle persone che la compongono e che la abitano. Cambiano le regole per crescere. Ma una cosa non cambia mai: tutto quello che facciamo, lo facciamo insieme.