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La spiritualità dello yoga è tutta corpo e sesso

Attorno a me c’è chi geme, chi sospira, chi niente: sono in un trip allucinatorio, ma non vedo i draghi, vedo me stessa. La disciplina rassicurante e ginnica che abbiamo in mente noi non esiste: nell’ambiguità troviamo l’estasi, la razionalità assoluta è una noia mortale

Sono in una stanza chiusa e semibuia, sdraiata sul pavimento. Alla mia destra c’è una – anche lei per terra – che ride, la risata dolorosa di chi non riesce a smettere, una specie di tic, ride, ride, un po’ mi disturba, ma non riesco a girare la testa, il mio corpo è immobile, le mani un po’ arricciate in un piccolo crampo. Quando finalmente mi giro un uomo è sopra di lei e le dice “ok, ok”. Torno al mio trip, cioè nel mio stato di coscienza alterato, di cui mi riprometto di non perdermi niente, infatti prendo appunti mentali. Attorno a me: chi geme, chi sospira, chi niente. Alcune figure femminili camminano leggere nella stanza, ma di tutto ho una percezione vaga, come di sfondo. Mi faccio un castello della memoria, ripasso le cose che devo ricordare, che sto vedendo. Anche se è un trip allucinatorio, non è che veda i draghi, o forme strane; vedo, in senso figurato, delle questioni esistenziali con massima chiarezza, per esempio mi rendo conto finalmente che, anche se mi sono rotta il piede in più punti in un brutto incidente, anche se penso o ho pensato che odierò per sempre chi quell’incidente l’ha causato, e penso che il piede mi faccia ancora male, in realtà il mio corpo oggi sta bene. So in quel momento che non avrò mai più dolore né al piede né al ginocchio, posso passare oltre. Mi ammorbidisco, abbraccio il cuscino tubolare messo lì per evitare che rotoliamo le une addosso alle altre. Sono in una specie di stato pre-orgasmico, e sono in quello stato da almeno venti minuti; quando apro gli occhi c’è la faccia dell’uomo vicinissima alla mia che mi dice “I’m right here”. Gli prendo la faccia fra le mani, la tiro verso di me, lui sorride, e dice anche a me “ok, ok”.

Lo yoga non è una disciplina casta.

Cioè, può essere casta, soprattutto se lo praticate alla Virgin Active o al contrario siete un sadhu che si è ritirato sulle montagne dell’Himalaya a pregare, congiungersi a Dio e prepararsi alla morte. In tutto lo spettro in mezzo a queste due situazioni, lo yoga è spesso connesso al sesso, in un modo o nell’altro. Qualsiasi forma di spiritualità, del resto, è connessa al corpo, pure le estasi delle sante. Prima o poi farete un corso intensivo, poi un ritiro silenzioso, poi un ritiro spirituale: nel migliore dei casi vi ritroverete a pensare al sesso insistentemente, in uno stato di febbrile sensibilità come le monache di clausura.

Da dieci anni giro tra l’India e Bali a fare esperienze che rimangono lì, irraccontabili, fra il timore del luogo comune e l’alto livello di what the fuckery. Nel senso che molte sono esperienze assurde, prese singolarmente. E’ una vita in cui i luoghi piccoli hanno un’importanza enorme. Questi luoghi sono bar tipo lo Snapshot, quello di Shantaram, in cui si incontrano gli expat di Mumbai; lì conosci uno che ti invita a una ecstatic dance, preceduta da una cerimonia del cacao. In quel cacao, distribuito tra i presenti disposti in cerchio in un rito sacro, potrebbe esserci o non esserci dell’Mdma (ecstasy); il giorno dopo, si potrebbe andare a smaltirla in una contact dance, una danza contemporanea inventata a San Francisco negli anni 70: avrebbe pure delle regole ma lì poi finisce che tutti si abbracciano a lungo, gli ultimi hippy della terra, siamo struggenti ma stupendi, con i nostri chai e i libri di carta ma lavori che escono dai computer; surfano tutti, sono tutti asciutti e bellissimi, dall’India ci spostiamo a Ubud ci spostiamo a Ko Phangan.

Qualche mese fa Vulture, la rivista del New York Mag dedicata alla cultura pop, ha scritto che si inaugurava ufficialmente la stagione delle sette. In effetti, di podcast a tema ne ho ascoltati cinque solo in italiano; di serie tv ce ne sono state dozzine.

Ma non è che uno può guardare un giorno Wild Wild Country (Netflix, 2018) e giudicare tutta l’esperienza di Osho e delle sue comuni (prima in India, a Pune, poi negli Stati Uniti, poi di nuovo in India), un’esperienza durata vent’anni che ha toccato centinaia di migliaia di persone, con i termini di oggi: leader narcisista, setta, abuso, maltrattamento dei bambini (che venivano lasciati spesso soli o mandati in un collegio non troppo accogliente in Inghilterra).

La nostra ossessione per la catalogazione di queste esperienze, in nome di una presunta razionalità, si sta facendo sempre più perversa. Andiamo a vedere cosa fanno oggi i bambini di Osho (perlopiù stanno bene, ma c’è la storia di Amara, che “si è venduta”: raccontiamola). Vediamo se il marketing multilivello è una setta (pare di sì). E i mormoni? (pure).

Quindi, lo yoga è una setta? Anche la religione cattolica? Tutte le religioni, che si ostinano a sfuggire all’“ottusa razionalità meccanica”?

In realtà non c’è una linea chiara, ben definita, al di qua c’è la correttezza e al di là la perversione. Chi si apre a una dimensione meno meccanicistica del mondo lo sa, le linee sono sfumate, là fuori bisogna tornare a farsi carico di sé stessi, non sempre protetti dalle regole della società civile.

Vedo una nuova ondata di bigottismo, di gente che non abbraccia nessuno da anni, che pensa che per regolare gli abusi si debbano eliminare le zone di grigio delle interazioni umane, le relazioni di potere. Che l’unica spiritualità è quella che si coltiva nell’ombra delle chiese e anche quella è sconsigliabile, infatti non la pratica più nessuno, tutti devoti a niente, solo al suono della propria voce moralizzatrice.

Lo yoga rassicurante e ginnico che abbiamo in mente noi non esiste. E’ una cosa che abbiamo perlopiù creato da zero con l’aiuto di due guruji (termine affettuoso per guru) che si sono poi rivelati diversamente pervertiti: Pattabhi Jois (1915-2009), che ha inventato l’Ashtanga yoga e ha violentato un gran numero di donne (non mancano le orrende prove fotografiche) e B.K.S. Iyengar (19182014), che ha inventato l’Iyengar yoga e prendeva a schiaffi i suoi migliori discepoli dicendo “non è con te che sono arrabbiato, è col tuo ginocchio, con la tua mente che non collabora”. Questi due avevano lo stesso maestro, Krishnamacharya, e lo yoga come esercizio fisico e come lo conosciamo oggi deriva perlopiù da questi tre personaggi, che hanno applicato alcuni concetti e termini di un’attività meditativa, spirituale (illustrata nel testo Yoga Sutra, una collezione di 196 aforismi) con la ginnastica occidentale come si praticava nel 1800. Non ci sono antichi vasi, testi che dettagliano il saluto al sole o la posizione del guerriero. Sorry.

Le tecniche meditative hanno come obiettivo l’illuminazione e/o stati di coscienza alterati (che portano all’illuminazione, o a rivelazioni più mondane). Nel caso della meditazione buddista, hanno come obiettivo la riduzione del dolore (e sì, l’illuminazione). Ad avvalorare la tesi che non sono proprio tutte cazzate, oltre al mio piede che non mi fa più male, posso riportare la notizia di questi giorni che l’Mdma e la psilocibina (un fungo allucinogeno) sono stati legalizzati in Australia a uso psichiatrico.

Nella stanza buia stavo facendo breathwork, una tecnica di alterazione dello stato mentale messa a punto per primo (se non contiamo gli sciamani) da Stanislav Grof, quello psichiatra che usava l’Lsd. Quest’alterazione degli stati di coscienza portava talvolta a degli insight, cioè delle realizzazioni subitanee. Alla fine degli anni 60, l’Lsd fu bandita e Grof ricreò un effetto simile attraverso un controllo del respiro guidato. Se non mi fossi fidata di chi c’era nella stanza, la cosa non avrebbe funzionato. Però la mia fiducia non è mai totale. Cioè non abdico mai tutta la mia volontà a un guru, non credo troppo nel concetto di guru, non penso neanche di poterlo capire dal mio punto di vista giudaico-cristiano. E’ forse proprio per questo che l’abbiamo spesso equivocato, veniamo da una tradizione dove Dio si fa uomo e un singolo uomo può essere Dio.

La relazione umana di per sé prevede dei rischi, e questa cosa ci sembra sempre più spaventosa oggi, forse è per questo che vogliamo rassicurarci con tutta la terminologia e i parafernalia: lovebombing, gaslighting, narcisismo. Però queste etichette non ci mettono al sicuro, al contrario, ci lasciano ancora più indifesi, perché ci inducono a pensare di essere perfettamente razionali, e che si possa capire la realtà con la sola ragione. Invece non solo noi non siamo esseri perfettamente razionali, ma è proprio nelle ombre e nell’ambiguità che si trova la vitalità dell’essere umano. La perfetta razionalità insomma, anche se esistesse, sarebbe una noia mortale, un po’ come questa nuova realtà che cercano di farci mandare giù, piena di formule caste e sconcerto (anche nella terminologia: “Si è venduta” – come fossimo nell’Ottocento).

Essere accompagnati in una ricerca spirituale – ma anche ricevere un insegnamento – prevede necessariamente uno squilibrio e dei rischi. Posso dirlo senza per questo condonare alcune mostruosità di Osho, e tutte quelle degli orrendi yogi-predatori. Siamo del tutto impreparati quando veniamo in contatto con l’emotività dentro e fuori di noi, cioè le dinamiche di gruppo, gli squilibri di una relazione discepolo-maestro, ma anche il “vibrare dell’universo” che non è possibile racchiudere in una disciplina specialistica.

Alcuni, anche in occidente, dicono che la musica ci connette con Dio. Gli eventi musicali di massa del secondo Novecento lo confermano: le rockstar sono state i nostri guru, e i guru orientali qui diventavano rockstar. Gli uni e gli altri visti come tramite verso Dio. E cos’erano le groupie se non sacerdotesse, l’inner circle della rockstar, quelle ragazze che seguivano la band in tour e si occupavano di tutti i loro bisogni, dal guardaroba al sesso? Cosa ottenevano in cambio, se non una connessione a qualcosa di superiore?

Sono uscita dalla stanza del breathwork e ho mandato dei lunghi messaggi diaristici al maestro di yoga. Anche l’aria dei tropici rinfresca la sera. Lui, un australiano della mia stessa età che ha vissuto cinque anni in una scuola di tantra in Thailandia, mi ha detto: “Mentre facevo surf ti ho pensato”.

Raffaella Silvestri (Milano, 1984), scrittrice, ha studiato Filosofia di genere a Helsinki e Filosofia delle scienze sociali a Cambridge. Ha scritto i romanzi «La distanza da Helsinki» (Bompiani, 2014) e «La fragilità delle certezze» (Garzanti, 2017). Ha una newsletter, “Velluto”.