Parlare dei bambini, non parlare dei bambini, guardare le foto dei bambini in guerra, negli ospedali, rivedere all’infinito il video del bambino palestinese che piange, con un bernoccolo sulla fronte, con un occhio gonfio, le manine tese e dice: dov’è la mamma? Rivedere all’infinito il video della bimba nel kibbutz, che dice: i miei nonni sono stati uccisi ma ho un ricordo, gli orecchini che mi hanno regalato per il compleanno, e mostra i lobi, con orgoglio e con un sorriso serio. Con una gravità adulta e composta che molti veri adulti sui giornali e ovunque sembrano avere perduto per sempre. E poi la bambina ucraina che vuole salvare il suo gatto e non vuole lasciare la nonna, e tutti i bambini che stanno cambiando numero di scarpe in mezzo alle macerie, al lutto e alla paura. Parlare dei bambini in guerra si trova sempre a un centimetro da una retorica un po’ indecente, non parlarne è la bancarotta morale delle nostre vite.
Considerarli ancora e ancora un sacrificio inevitabile, o uno stendardo da sventolare quando serve, è precisamente la misura della disumanità. Abbiamo visto tutti, anche chi non vuole guardare, anche chi ritiene che dietro ogni foto ci sia un inganno, i neonati uno accanto all’altro nell’ospedale di Gaza per conservare il tepore che l’incubatrice spenta non può più dare: ogni volta penso che sto guardando un’immagine che è il limite, e ogni volta ne compare un’altra, ancora più nitida, ancora più imperdonabile.
I bambini ostaggio, i bambini di Gaza, i bambini con la sorella rapita, con la madre ammazzata, il bambino che gira per l’ospedale da solo perché non ha più nessuno, il bambino che batte i denti per la paura mentre qualcuno lo riprende fingendo di consolarlo. E poi noi, giudicanti e decisi a piegare la realtà alle nostre convinzioni. Dove si trova la nostra maturità, adesso? La riconosco soltanto negli occhi di quei bambini, che si portano sulle spalle il disastro, e che nonostante il disastro, un disastro personale, un disastro famigliare e quindi universale, non stanno ancora pensando a odiare. Guardiamoli un po’ meglio, quei bambini: pensano solo ad amare, ad accarezzare, a essere presi in braccio, a salvare un gatto, a proteggere la sorellina. Se cerchiamo l’odio, lo vediamo dimorare in un adulto. Mentre noi diciamo enormità, sventoliamo enormità, ci azzuffiamo tra noi (che spettacolo futile e penoso), loro all’odio resistono. Vogliono un biscotto, una treccia, un cerotto, una mano gentile, e nei loro occhi non c’è rabbia perché non c’è odio. Ma c’è uno sgomento non infantile.
Penso a Urbinek, il bambino raccontato da Primo Levi nella Tregua: nato ad Auschwitz, morto a 3 anni ad Auschwitz. Nessuno sa di lui, non ha genitori, non ha parole, nessuno gli ha insegnato a camminare, è come una marionetta dimenticata nel lager, ma Primo Levi descrive il suo sguardo «selvaggio ed umano a un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno di noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena». Forza e pena, ecco quello che vediamo ogni giorno. Una pena innocente, ma ogni giorno meno ingenua. Sentiamo lo sguardo di Urbinek su di noi e pensiamo: come potranno questi bambini crescere senza odio? L’odio che gli stiamo insegnando, l’odio della ferocia umana? Non c’è scampo. Allora è vero che l’uomo non è artefice del suo destino, e che è il destino a decidere per lui se sarà carnefice o vittima.
Ma poi penso a chi ha conosciuto questa ferocia durante l’infanzia. Penso a Liliana Segre, a Edith Bruck, a Sami Modiano. Penso anche a Lia Levi che era “una bambina e basta” ed è scampata alla Shoah nascosta in un convento di suore. Sono cresciuti con un imperativo morale: non odiare. Erano bambini e bambine, a volte appena ragazzi, con uno sguardo carico di forza e di pena. Hanno resistito all’annientamento, hanno deciso di raccontare, subito o dopo molti anni, e hanno dovuto superare anche il momento in cui nessuno voleva ascoltarli. Liliana Segre, che aveva tredici anni e ha visto sparire tutta la sua famiglia, ha deciso di non odiare. Ha detto di esserci riuscita perché è stata molto amata. Quando ho fatto un viaggio in Italia per raccontare le storie umane dentro le pietre d’inciampo, ho parlato con discendenti, parenti, eredi di persone i cui nomi adesso scintillano su quelle pietre. Anche con i discendenti del vicino di casa eroico che ha nascosto un’intera famiglia in soffitta, o con i parenti della guardia carceraria che è stata deportata per avere portato un po’ di pollo a un bambino ebreo rinchiuso con la sua famiglia nel carcere di San Vittore. Ho parlato con il figlio di una donna toscana, Frida Misul, sopravvissuta ad Auschwitz e arrivata a Terezin marciando nella neve. Era poco più che una bambina, a Livorno, amava cantare (si è salvata anche grazie alla sua bellissima voce), ed è stata denunciata come ebrea dalla sua insegnante di musica. È stata sottoposta anche a tentativi di sterilizzazione, perché niente doveva nascere dal suo grembo. Ha resistito a tutto: alle botte, alla fame, alla marcia forzata, e a Livorno ha avuto un figlio: l’ha fatto battezzare per proteggerlo, ha scritto un diario per non dimenticare ed è andata nelle scuole a ricordare ai bambini di non odiare. La cosa più importante: non odiare. L’ultimo baluardo della nostra umanità: non odiare. Quella cosa che solo una bambina, un bambino, può ancora capire: non odiare.
Quella cosa che preoccupava Leone Ginzburg, picchiato e torturato in carcere a Regina Coeli dai nazisti. Subito dopo l’interrogatorio, con il volto tumefatto, disse a Sandro Pertini: non dobbiamo odiare i tedeschi. Questa è una consapevolezza adulta, un’illuminazione adulta, di immenso valore. Ed è qualcosa che i bambini hanno già naturalmente dentro di sé.
Parlare dei bambini, non parlare dei bambini. Meglio rischiare la retorica che accettare la fine di tutto. Saranno loro a riscattarci: quei bambini, e le loro madri, ristabiliranno l’umanità che deve per forza salire più in alto della disumanità. Non c’è un’altra strada, sennò significa che gli uomini e le donne non possono fare niente. È la strada di Frida Misul, che era poco più che una bambina e che ha insegnato a suo figlio a non odiare e a non dimenticare. È stata la strada di Liliana Segre. È la strada del bimbo di Gaza che tende le mani e dice: dov’è la mia mamma? Se qualcuno lo prenderà in braccio, se qualcuno gli risponderà. «Non odio perché sono stata molto amata». È l’unica strada.