Tra i tanti fastidi dell’invecchiare uno dei peggiori è il fastidio che provo per me. Ho a che fare ogni giorno con una persona, me stessa, che non mi piace più fisicamente e per la quale non ho simpatia. Capirete quanta poca voglia abbia di continuare a raccontarla. Mi rendo conto che questo incipit potrebbe essere considerato una smentita all’affermazione che contiene, ma datemi il tempo di spiegare e scoprirete che ho parlato di me solo per parlare di lei, Federica. E dunque della mia nuova, senile, passione per le vite degli altri. Attenzione: non tutti gli altri. Non sono ancora così vecchia da essere appassionata di umanità. Anzi, nella maggior parte dei casi trovo gli altri, esattamente come quando ero adolescente, noiosi, mitomani, lagnosi e persino brutti. Non sono ancora diventata una persona che va per strada abbracciando tutti, anche se non escludo che un giorno possa accadere. Quello che mi è accaduto è invece che mi sono distratta dalle mie solite fissazioni – i miei minuscoli malesseri, le insignificanti idiosincrasie, gli amori più o meno imbarazzanti – e ho iniziato a fissarmi su quelli di qualcun altro. Sono rimasta un’ossessiva, malgrado l’energia sia in calo, ma la mia ossessione ha cambiato obiettivo. È successo con Raul Gardini, la cui storia ha occupato il mio ultimo romanzo, Il tuffatore. Che però ho iniziato a scrivere alcuni anni fa, quando ero meno vecchia, e quindi meno infastidita da me stessa. L’io narrante aveva quindi la mia età, la mia cadenza, disponeva delle stesse esperienze… insomma: ero io. Qualunque cosa significhi io in letteratura. Ho fatto dunque con Gardini quello che tanti scrittori ci hanno insegnato a fare. Memoria emotiva la chiamano gli attori. Ho frugato nel baule e ho arraffato esperienze, traumi, momenti di felicità che mi aiutassero a comprendere quelli del mio protagonista. Non uguali ma adattabili, di pari intensità, impatto, di assimilabile ambito semantico. Qualunque cosa mi permettesse di abdicare all’imparzialità della biografia. Collusione, emotività, impacci. Come mi sentivo quel giorno che… ecco, uso questo. E per esprimere quest’altra cosa? Può andar bene il dolore di quando… Un lavoro del genere.
Un anno fa, quando ormai il fastidio che provavo nei miei confronti aveva preso ad assediarmi fin dal risveglio la mattina, Elisabetta Sgarbi mi ha fatto una proposta. Ignara del mio stato mentale, casualmente mi ha proposto quello di cui avevo bisogno. Io e Federica Pellegrini ci siamo incontrate per la prima volta in un ristorante di pesce, a Verona. Io non mangio pesce. Ma Federica è così bella che me ne sono dimenticata e ho ordinato del pesce crudo, col quale ho giocato a lungo nel piatto. Elisabetta ci stava proponendo di fare un libro insieme: Federica avrebbe raccontato e io scritto. Si trattava di scrivere quello che lei mi avrebbe raccontato, costrizione alla quale io ho aderito con entusiasmo per le suddette ragioni. Oltre al fatto che il libro, è stato chiarito fin da quel primo incontro al quale partecipava anche l’agente di Federica, sarebbe stato firmato in copertina soltanto da lei e narrato in prima persona. Un’operazione che prima del successo di Open di Agassi si chiamava ghost writing e che adesso si chiama Open di Agassi, nella segreta speranza di ottenere almeno un decimo del successo di quel libro. Suscitando l’entusiasmo di tutti io ho rilanciato dicendo che l’avrei fatto a patto di non partecipare in alcun modo alla promozione. Non solo per evitare l’effetto “chi è quella bionda seduta accanto a Federica Pellegrini”, ma anche per non diventare il filtro che i potenziali lettori del libro di Pellegrini non avrebbero apprezzato. Oro, questo è il titolo, è dunque il libro di Federica Pellegrini. Sulla base di questo accordo io e Federica abbiamo cominciato a vederci e subito è successo che io mi sono innamorata di lei. Ma mi sono innamorata così tanto che mi è venuta voglia di raccontarla da fuori, guardandola. Quindi già dopo un paio di incontri volevo far saltare tutto, il pranzo di pesce l’accordo con l’agente, e scrivere un mio libro su lei. L’ho proposto a Elisabetta Sgarbi la quale, ovviamente, mi ha detto che non era possibile, ma che se ci tenevo potevo scrivere due libri sulla Pellegrini, uno per Federica e uno per me. Ho detto va bene, ci penso. Ma non ci ho più pensato e mi sono messa a scrivere il libro per lei. Ci siamo viste per qualche mese e in vari posti. Lei parlava e io registravo. Registrando senza prendere appunti avevo il doppio vantaggio di poterla guardare mentre parlava (ho già detto che mi sono innamorata di lei?) e di avere a disposizione la sua voce. La sua vita è scandita dai numeri. I tempi delle gare, gli anni, le medaglie. Questo significa che gli avvenimenti sono imbrigliati in uno schema preciso e questo schema è il suo modo di ricordare. Io, quando non ero ancora così infastidita da me stessa, ero abituata a lavorare sulla smarginatura, la luccicanza, il cuscinetto che si crea tra i fatti e l’impressione dei fatti. Mi sono occupata quasi sempre di questo, di aloni. Proprio come quando vernici qualcosa poggiandolo su un foglio bianco. Una volta finito sul foglio rimane una specie di aureola, uno schizzo radiante. Un residuo numinoso come i disegni in fondo alle tazze di caffè. Insomma scrivere per me era sempre stato un gioco tra reale e macchie del reale su qualcos’altro. Federica invece è un’atleta e a lei importa soltanto di arrivare per prima e nel minor tempo possibile. Ma anche lei sapeva che incontrarmi avrebbe significato consegnare la sua geometria a una arruffatrice di rette parallele, a una persona interessata al risvolto, all’alone. Lo sapeva perché è una donna di grande intelligenza, oltre che di una determinazione sovrumana (l’ho già detto che… sì, l’ho già detto). Abbiamo quindi iniziato, dopo esserci arrese l’una all’altra, a cercare un punto di incontro. A lei serviva per fidarsi, a me per trovare la sua voce. Che, mi ero detta, avrebbe dovuto avere almeno l’eco della sua ritmica, delle sue scelte lessicali, del suo trattenuto furore. Mi è stato fatto notare negli anni che ho scritto troppo di uomini e poco di donne. Deve essere vero, anche se per me non fa gran differenza. Ma di certo in questo caso si trattava di una donna, anzi di una ur-donna. Alla quale non potevo guardare con la condiscendenza maliziosa con cui guardo agli uomini (che a volte è stata scambiata per nostalgia).
Federica è una donna alla quale si può guardare soltanto dritto negli occhi, portandole rispetto. Non c’è fuffa, non c’è inganno, ma muscoli e fiato. Per molto tempo ho soltanto ascoltato le registrazioni, cercando di intonarmi alla sua ostinazione. Come secondo esercizio ho stabilito che non avrei scelto, non avrei, come faccio sempre, stabilito una gerarchia dei fatti sulla base dell’importanza (importanza narrativa). Capivo infatti via via che lei mi raccontava che scelte minuscole erano state determinanti per lei, mentre altre che mi sembravano eclatanti tutto sommato avevano avuto un impatto marginale. Che per esteso significa che “being Federica Pellegrini” è stato un esercizio che ha comportato prima di tutto sottomissione, umiltà. E una fede cieca nella sua capacità di vivere, cioè di vivere per vincere. Ho iniziato a pensare che se avessi sfilato un mattoncino che a me sembrava insignificante, forse sarebbe venuto giù tutto, forse il complesso e delicato equilibrio di un’atleta così forte e così longeva sarebbe crollato e la sua progressione sarebbe diventata incomprensibile. Fidanzati, cani, orsacchiotti, lanci col paracadute, ogni pezzo del suo racconto poteva essere quello cruciale, l’architrave della sua sfolgorante carriera. Come dicevo, tecnicamente, sono partita proprio dalle sbobinature, cioè dalla trasposizione su carta delle sue parole, perché questo mi consentiva di gironzolare intorno al suo tono di voce, al suo ritmo. Poi, piano piano, ho trovato un vocabolario mio che andasse bene anche per lei. Ma soprattutto ho individuato una caratteristica comune, qualcosa che partiva da lei ma che era comprensibile anche a me. Di più: che mi apparteneva. Provo a dirlo così: siamo due persone difficili. Lei perché di essere facile non ha avuto tempo, io perché non lo so proprio fare. Andiamo avanti a sportellate col mondo, siamo malinconiche, maestre nell’essere fraintese e quando qualcuno ci dice ho capito di solito rispondiamo no che non hai capito. E di solito abbiamo torto, perché ogni tanto qualcuno capisce. Quel che è accaduto quindi è che io volevo scrivere un libro che mi portasse lontanissimo da me e dalla persona fastidiosa che sono diventata ma non ci sono riuscita. Neanche usando una prima persona che si chiama Federica Pellegrini.
Sono comunque ritornata a me, in un modo o nell’altro. Forse perché un altro modo non c’è? Credo però che, insieme, abbiamo scritto una storia che racconta il miracolo di una persona normale e un’atleta eccezionale, che racconta la fatica, gli allenamenti gli amori ma mai una diserzione, niente di simile all’odio per qualcosa. Certo, raccontare di un tennista che odia il tennis è uno sballo, ma l’epica della normalità è incredibilmente seducente e io, questo, non lo sapevo. Pensavo che sabotare il proprio talento fosse il modo migliore per fortificarlo, per tenerlo sempre sulle spine, per non diventare fastidiosi. E invece non solo è una fatica inutile, ma sono diventata comunque fastidiosa. Peccato, se avessi incontrato Federica prima, la mia vita sarebbe stata diversa. Pazienza.