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L’aria di Kyiv è una pausa per continuare a resistere

Due anni di guerra, se sommati, fanno dieci: è dal 2014 che la Russia ha invaso l’Ucraina. La capitale è un’oasi per la riabilitazione e un museo a cielo aperto in cui macerie e memoria convivono. Anche un finto soldato randagio serve a ricordare che si può andare avanti

Il pupazzo giallo a Piazza Indipendenza chiede un’offerta per ogni foto: sulla pancia ha una mappa con i confini ben noti del suo paese in guerra e vicino la scritta: tutto sarà Ucraina. Sotto il costume, il pupazzo è un ragazzo dalla faccia tatuata, il fronte non lo ha mai visto, non l’ha ancora visto, ma conosce chi combatte. Kyiv per molti è un momento di pausa, si fugge dall’inferno per ritrovarsi in guerra e la guerra fa meno paura dell’inferno. Kyiv ha i suoi codici, le sue precauzioni, i suoi rischi e le parole d’ordine. A Kyiv si balla, si beve, ci si innamora, si sfida il coprifuoco rinchiudendosi in un locale dalle undici di sera fino alle cinque del mattino, ci si scatena a ritmo di techno e durante una festa sembra Berlino, ma è Kyiv e chi oggi balla, domani potrebbe andare al fronte. Per questo il ballo si fa intenso, il cocktail si paga a un cameriere che ricorda senza giudizio, ma con solennità, che parte di questo denaro va ai “nostri soldati”. Due anni di guerra, se sommati, fanno dieci, perché la guerra della Russia contro Kyiv è iniziata nel 2014, non è una guerra lunga, è una guerra infinita. Gli ucraini hanno dovuto trovare un’oasi per sopravvivere e la capitale è la più iconica delle oasi, è un museo a cielo aperto, ci sono turisti, sono ucraini, e qui vedono la loro storia, quella che stanno vivendo. Si guardano allo specchio. È un turismo di guerra a uso interno, un turismo doloroso e dolorante, ci si allontana dal fronte per ricordarsi però che la guerra non è lontana, i confini vanno difesi, i cocktail di Kyiv, le notti nei club, i film al cinema guardati fino alla fine, il coprifuoco trascorso ballando fino alla noia, fino a sentirsi estenuati sono un lusso che va tenuto stretto senza abituarsi troppo.

Kyiv è piena, i dati ufficiali mostrano una popolazione di più di due milioni di persone, secondo altri sarebbero invece il doppio. A Kyiv si vive, a Kyiv si passa, il museo della guerra a cielo aperto ricorda a chiunque che la storia non è finita. Non servono le sirene a scandire gli attacchi, possono essere più o meno frequenti, ma qui ci si sente meno soli. Kyiv è una pausa. Il resto dell’Ucraina ha paura del vuoto e teme che quel vuoto, una volta lasciato dietro le spalle, potrebbe essere divorato dal nemico che non si è fermato nonostante nella capitale non sia riuscito ad arrivare. Ha continuato lo stesso ad attaccare, nonostante i suoi carri armati siano esposti in quella che è una delle piazze che fanno da sale principali di questo museo esteso sotto a un cielo pericoloso: Piazza San Michele. La sconfitta del nemico è esposta a favore di fotocamere, i carri armati russi sono un cimelio, vengono osservati dai curiosi, colorati da chi si illude possano trasformarsi in giocattoli. Questi pezzi di Russia distrutti sono per tutti, sono lì per ricordare che la guerra c’è, ha avuto vittorie, ma continua, impudente e avida. I blindati sono gli sfondi per una foto e il loro numero nella piazza cresce di mese in mese, lo scorso anno erano meno. Tra di loro si aggira un uomo in mimetica, dice di essere un soldato, anche lui insiste per una foto in cambio di un’offerta: attorno nessuno accetta, ognuno in Ucraina ha un soldato in famiglia, non servono militari presunti, non servono le mimetiche sgualcite di altri. È la principessa Olga la guardiana di questa parte del museo, da sempre con una mano si aggiusta la tunica, sembra voler nascondere qualcosa: nasconde la spada, dice la leggenda. Alla guerriera con la spada nascosta hanno messo addosso un giubbotto antiproiettile, se ne sta dritta e attenta, non è impacchettata come altre statue, finite tra i sacchi di sabbia per paura che i bombardamenti le distruggano.

La sala della commemorazione è non lontano da qui, davanti a Santa Sofia, l’Ucraina è entrata nel suo terzo anno di guerra totale e ha iniziato un rito ameno che la storia non aveva riservato a nessun altro: Kyiv commemora mentre la guerra va avanti, ogni anno, ogni giorno, tra gli scheletri dei blindati, tra i pupazzi da guerra, tra le bancarelle che vendono reperti dal fronte, tra i soldati che firmano bandierine celesti e gialle con i nomi dei commilitoni morti. La memoria in Ucraina non appartiene al passato, è viva, appartiene al presente e Kyiv, la città che accoglie, la capitale per la riabilitazione di chi non ne può più, ogni anno commemora l’inizio di un conflitto che è sempre qui. È il tempo contratto dell’Ucraina, in cui tutto si sovrappone, in cui il futuro si costruisce mentre si combatte, il passato si racconta mentre è ancora presente.

Volodymyr Yermolenko è un filosofo, un intellettuale, va sempre di fretta perché in Ucraina non c’è mai respiro, tutto è nell’imminenza. Sorride e corregge i significati del vocabolario stravolto della guerra: «Non è una commemorazione, il 24 febbraio è il principio di qualcosa che stiamo vivendo e che è iniziato dieci anni fa». I crimini russi continuano, le sirene suonano, i missili non si fermano, «gli ucraini sentono di essere esausti, sanno però che dopo dieci anni è normale, sanno anche che non hanno altra scelta. Mentre si concentrano su altro, sanno che la realtà è qui, è la guerra, dobbiamo ricordarcelo sempre». E Kyiv lo ricorda, ribadisce l’eroismo, la rabbia, il dolore. In alcuni suoi angoli è vagabonda e macilenta, in altri fiera e guardinga. È la capitale da riempire in un paese svuotato, con un problema demografico allarmante, con una generazione che da dieci anni è ferma: la Russia aveva prima invaso la politica ucraina, e loro, protestando e morendo, l’hanno cacciata. Poi la Russia, cacciata dalla politica, ha invaso la nazione, e loro, armi in mano e morendo, cercano di cacciarla ancora una volta. L’eco delle loro battaglie si sente fino a Kyiv, e sulle loro spalle c’è una responsabilità irragionevole, sono gli ex ragazzi di Euromaidan, oggi adulti in uniforme che non smettono di combattere, sono loro che sentono anche il peso di un paese da proteggere e da rifare insieme: «Dobbiamo produrre ucraini» è una frase che si sente spesso e apre a significati infiniti.

Il rito del ricordo è un dovere nei confronti delle vittime, il museo a cielo aperto lo ha ben chiaro e commemora anche perché la memoria serve a riempire la distanza. In futuro non ci saranno divisioni tra nord e sud, tra ucrainofoni e russofoni, tra ortodossi e cattolici, Yermolenko è convinto che la divisione più rischiosa sarà un’altra e tra la distanza incolmabile tra chi in guerra c’era, chi ha fatto, chi ci ha pensato, e chi si è cullato nella normalità apparente: «C’è un rischio, il fronte si è allontanato e si sta creando una distanza che non possiamo permetterci. La sentono i soldati, la sentono gli ucraini che vivono vicini ai combattimenti. Dobbiamo creare ponti tra le retrovie e il fronte, lo scambio deve essere continuo, altrimenti smetteremo di capirci e questa è una guerra che vinciamo soltanto se uniti, se ci parliamo».

Il museo della guerra in corso è qui per questo. Non ha nulla di allegro, nulla di gioioso, è onesto e schietto. Parla di eroismo e di stanchezza, è il ruggine il colore che domina. Ha i suoi souvenir, fatti di mostrine, di frasi che sono grida di guerra, tutto parla del presente, nulla del passato. Le sue sale sono sempre a disposizione, soltanto il coprifuoco le rende inaccessibili. L’aria di Kyiv per molti è una pausa, poi si torna dove la guerra picchia più forte, dove non si dorme. Si torna nei territori che non si possono lasciare vuoti, dove la presenza è un atto di coraggio. Kyiv è stanca, ne ha il diritto. I turisti di guerra lo sono ancora di più, guardare i carri armati distrutti dall’esercito ucraino e mangiati dal gelo è una consolazione, serve a ricordare che si può andare avanti, ma la piazza vuole essere sgomberata, la principessa Olga deve togliersi il peso del giubbotto antiproiettile, il finto soldato randagio vuole un lavoro e non posare nelle foto altrui. Ma finché la guerra è in corso, Kyiv ricorda, commemora, getta ponti: il museo è aperto, è a ingresso libero.

Micol Flammini, giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia e Israele. È autrice, con Paola Peduzzi, di EuPorn, che è anche un podcast.