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Lasciate accese le lanterne, la primavera arriverà

Ci viene naturale avvolgerci e rannicchiarci nella nostra stessa tempesta, cambiando ogni volta prospettiva. Ricalcolo, dice il navigatore. Abbiamo ricalcolato l’idea di difesa e di esercizio della libertà, la confidenza con la morte. Anche la bellezza e la dannazione della solitudine

Splendenti così chiare fin sul far del giorno – chi accompagnate, mie lanterne?

Chi proteggete, incoraggiate, illuminate, mie lanterne?

Marina Cvetaeva, “Ultimi versi, 1938-1941”

A un certo punto viene naturale avvolgerci e rannicchiarci nella nostra tempesta. Anche quando la tempesta riguarda tutti, però, ognuno si rannicchia a modo suo. Sbarrando la porta al mondo, dando torto a chiunque, esercitando la mitezza o la furia, la razionalità o la foresta, o adattandosi e contando i giorni alla fine. Ogni volta, in questi due anni, ho fatto un fiducioso conto alla rovescia: ancora un mese, ancora due mesi, ancora un po’, ogni volta ho cercato un obiettivo temporale ragionevole, un giorno in cui avrei potuto dire, insieme agli altri, che la tempesta era passata. Qualche volta è quasi successo, ci sono stati timidi o perfino arroganti festeggiamenti, naturalmente accompagnati dai moniti di chi non ci ha creduto mai: non è finita, non finirà, siete degli illusi. Non era finita, ci siamo nuovamente avvolti nella tempesta, cambiando prospettiva velocemente e ognuno cercando il suo appiglio come una lanterna: il bollettino quotidiano dei ricoveri, l’ossessione per gli autobus troppo pieni, per le scuole aperte o chiuse, la contrarietà al vaccino, dodicimila passi al giorno, dodicimila obiettivi al mese, la riduzione dei rapporti umani a un minuscolo circolo famigliare, l’esplosione dei rapporti famigliari, ma anche l’individuazione di uno o molti nemici, meglio se frequentabili in tivù, su cui esercitare la voluttà degli insulti e ai quali affibbiare la responsabilità di quasi tutto. Quanta soddisfazione prendere a pugni uno schermo o il sito di un giornale o twitter, magari con il nome di Asparago Indomito, e sentire di avergliele cantate eccome.

E intanto la tempesta, che contiene ciecamente tutte le altre personali e spesso segrete tempeste e non ha più, da molto tempo, il potere di metterle in pausa o di annullarle, procede e si trasforma secondo i suoi ottusi movimenti, e richiede ottuse risposte e nuove attese, nuove prospettive. Ricalcolo, come dice il navigatore quando non svolto a destra. Ricalcolo, ricalcolo, ricalcolo. Ma io ho svoltato a destra, lo giuro, ho seguito le indicazioni, ho contato i giorni, ho contato i passi, ho fatto tutto giusto. Ricalcolo. E va bene cazzo, ricalcola (ci penserà Asparago Indomito a dirvene quattro).

In questi due anni, avvolti nella tempesta ognuno a modo nostro, abbiamo ricalcolato molte cose: l’idea di difesa e di esercizio della libertà, quanta stanchezza è ammissibile senza diventare cretina, la confidenza con la morte, la bellezza o la dannazione della solitudine. A volte mi è sembrato che ci si fosse completamente gelato il cuore, a volte che si fosse completamente gelato soltanto a me, a volte invece vedo accese tutte le lanterne. La madre afghana morta di freddo, a piedi nudi e senza nome al confine tra Iran e Turchia, che si era tolta le calze per avvolgerle intorno alle mani dei suoi bambini, è stata infinitamente meno importante, negli sguardi di tutti e negli stessi giorni, di un campione di tennis No vax che voleva il diritto di fare come gli pare. Entrambi cercavano di forzare dei confini, per motivi diversi. Entrambi sono stati espulsi: lei da una bufera di neve, lui da una sentenza, ma la solitudine di lei, sdraiata sul sentiero ghiacciato, sembrava un congedo consapevole. Non poteva fare altro e per lei non era previsto nessun: ricalcolo. Per lei hanno spento tutte le lanterne tranne la confidenza con il morire. Lei l’ha esercitata fino in fondo. Noi, nella nostra esperienza di pandemia, ne siamo prima stati avvinti furiosamente, ma lo spaventoso conteggio quotidiano non ci permetteva né comprensione né confidenza, solo paura (era come se quelle morti non esistessero davvero, senza pianto né pace, era come essere inseguiti dai fantasmi): siamo stati capaci di adattarci anche a quello. Non potevamo fare altro. A poco a poco ci siamo allontanati da lì, con i nostri ricalcoli, con le scoperte che hanno portato protezione e speranza, e qualcuno ha deciso di andare avanti con il cuore gelato, altri hanno deciso di dimenticare il più possibile, costruendo una specie di muraglia liquida di quotidiana superficialità, che a volte è indispensabile per inglobare tutte le irriducibili ambiguità dell’esistenza senza impazzire, senza sentire quella stanchezza totale che certe sere rincretinisce. Altri ancora cercano il punto esatto in cui sviluppare un pensiero autentico, ma per riuscire a farlo non si può stare rannicchiati dentro la tempesta e non si possono detestare le contraddizioni e la complessità (Asparago Indomito deve darsi una calmata, come tutti). Per il pensiero autentico serve un distacco che ancora non abbiamo: non siamo più al centro della tempesta nel suo scatenamento, abbiamo preso confidenza, ma non basta.

Credo che la muraglia liquida di superficialità (ho rubato questa espressione a Rachel Bespaloff, che negli Stati Uniti, dove era emigrata per fuggire alle leggi razziali, si sentiva in esilio e sognava di tornare in Francia, in Europa, ma che negli Stati Uniti, nonostante quello spirito che considerava una muraglia di superficialità, era salva) sia anche molto utile per andare avanti, per cambiare di volta in volta prospettiva, per adattarsi e per divagare. La muraglia è fatta di tante cose insieme e permette anche l’allegria, la vitalità, la creazione di qualcosa di buono. La distrazione finisce per essere una spinta verso il futuro, un allenamento paziente a qualcos’altro che arriverà, o anche un modo per allontanarsi e poi tornare in quel punto con uno sguardo più limpido: il tempo è servito, anche solo per sciogliere tutto quel ghiaccio. Le lanterne restano accese sulle piccole questioni, sui momenti di gioia, su un’incazzatura micidiale che dura due minuti e mezzo, su un pianoforte che suona, su una favolosa passeggiata con panino al prosciutto nel sole ghiacciato di febbraio, sul torpore euforico di una serie tivù che fa ridere come un pazzo mio figlio in quarantena e quindi alla fine rido anche io dalla stanza accanto, ridi anche tu.

Quando è successa una cosa davvero brutta, mia figlia ha detto che non si deve fare come me che mi anniento, ma che invece bisogna sperare a bomba, guardarsi cinque stagioni in un giorno, vestirsi swag, riempire la tazza di latte e cereali a qualunque ora del giorno e della notte, in nessun caso studiare algebra, in nessun caso mettere i sottotitoli in italiano, poi ammazzare tutti gli zombie in un videogioco, usare molti sticker nei messaggi e controllare ogni dodici ore se ti sono cresciute le tette. Sennò che senso ha, ha detto. Sennò che senso ha, ho risposto convinta, e anche questo è il ricalcolo. Ricalcolo, mi distraggo, poi ritorno e capirò meglio. Il ricalcolo nel navigatore di solito comporta che ci metti tempo in più. Che se non hai svoltato a destra cambia l’orario di arrivo e la voce del navigatore diventa piuttosto insistente, ma a volte sono solo cinque minuti e in quei cinque minuti non è cambiata la vita e non è finita la tempesta. In quei cinque minuti non avrei comunque combinato niente, non avrei nemmeno fatto la telefonata che mi angoscia e che rimando da quattro mesi. In quei cinque minuti posso però fare attenzione a tenere accesa la lanterna, non soltanto per me. Per chi passa. Sperare a bomba. La primavera arriverà e arriveremo anche noi, solo un po’ in ritardo perché ci siamo distratti.