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Le parole tra noi importanti, a velocità 2x

Ecco che, nel bel mezzo di tutto, con il mondo messo com’è, ci ritroviamo a scriverci di sesso, amicizia, relazioni. C’è altro per cui valga la pena vivere? Non solo Sally Rooney, non solo Marina Cvetaeva. Costruire una vita insieme agli altri e alla stessa altezza. Parlare, andare, esistere

Io, credimi, mi sento troppo degna di tutta la bellezza del mondo, per sopportare con pazienza e tolleranza ogni destino!

Marina Cvetaeva, 10 gennaio 1912

Per cui ecco che, nel bel mezzo di tutto, con il mondo messo com’è, ci ritroviamo qui a scriverci altre lettere a proposito di sesso, amicizia, relazioni e parole fra noi. C’è altro per cui valga la pena vivere?, chiede Sally Rooney nel suo ultimo romanzo, Dove sei, mondo bello, c’è altro per caso?, chiede con il sorriso furbo la ragazza con le treccine gialle e azzurre seduta a gambe incrociate sul lungomare di Odessa, decisa a non farsi portare via nemmeno un altro minuto di giovinezza, c’è altro oltre alle parole?, chiede Marina Cvetaeva agli uomini che ha amato con quella dismisura che l’ha fatta sentire incandescente e custodita, dentro la fortuna e anche dentro la rovina. Trovate parole che mi incantino, diceva a tutti: agli amanti, alle figlie, ai poeti e a sé stessa. Parole d’amore, promesse di futuro, parole anche leggere di quando arriva l’estate e non si può stare in casa mai più: ci sono gli alberi, la luce fino a tardissimo, le persone che aspettano e quelle che si fanno aspettare e ancora più desiderare, ci sono i mille appuntamenti che mia figlia prende con le sue amiche. Grandi idee avventurose (partiamo, la tenda, il sacco a pelo, l’Europa, non torno, anche il cane) che si disfano e si trasformano in un secondo in altri appuntamenti, altri programmi, altre destinazioni e altre parole. Ci vediamo alla stazione Piramide, andiamo al mare con il trenino, viene anche tutta la terza E, mi raccomando puntuali, mi raccomando il costume sotto, le sigarette, le patatine, ma io mi scotto, anzi no ci vediamo a Trastevere alle sei perché, raga, devo parlare con Giorgio. Devo parlare, devo dirgli, devo spiegargli, deve capire, mi vuole parlare, non parliamo mai, oggi parliamo, ha detto che è importante che parliamo io e lui, dimmi come è meglio che io gli parli, allora gli parlo e poi ti dico tutto. Dimmi le parole chiave da dirgli, no vabbè vado, mi ha appena scritto: parlami. Loro sono così veloci e mentre sono veloci parlano, parlano sempre, si scambiano vocali lunghissimi che ascoltano a velocità 2x. La velocità 2x è quella che cambia il timbro della voce ed è il massimo di velocità di WhatsApp, ma per mia figlia è il minimo di velocità. Non si può ascoltare niente a velocità normale, a velocità normale ti crescono le ragnatele nel cervello e anche in faccia, tra i capelli. A velocità normale le parole perdono forza, diventano lumache, sono banali, a velocità supersonica anche le parole diventano supersoniche, importanti, da afferrare al volo come la vita che ha ripreso a correre veloce e anzi a recuperare il tempo perduto. Quando non capisco una cosa che mia figlia mi ha detto con questa sua stupenda velocità, girata di spalle, mentre va in un’altra stanza, di solito una rivelazione che cambia il corso dei prossimi dieci mesi o tre anni, lei mi manda un vocale accelerato (naturalmente accelerato dal suo modo di stare al mondo) così io posso ascoltarlo a velocità 1x, quella normale delle persone molto lente, e tornare indietro ogni volta che non ho capito. Però mi sto abituando e uso sempre la velocità 1,5x, che mi dà una specie di esaltazione perché posso ascoltare più parole in meno tempo, sapere più cose, rispondere prima, lo faccio anche con i podcast, e ho scoperto che è vero: quando torno indietro mi sento un pachiderma, i miei interlocutori vocali sembrano tutti sul punto di addormentarsi o di morire, sono rallentati, penso che quella fila di tartarughe a forma di parole potrebbe anche uccidermi, ma sempre troppo lentamente. Penso di nuovo (ma velocemente) a Jane Austen, come si fa a non pensare a lei che per prima ha offerto le parole alle eroine dei suoi romanzi, Elizabeth, Emma, Fanny, Anne e le altre: con le parole loro contrattano, negoziano la felicità, conversano, fanno pettegolezzi, confronti, sono capaci di analisi interiore e quindi di trasformazione, anche di pentimento. Con le parole parlano con gli uomini: con i padri, gli amici, gli innamorati. Battibeccano, discutono, ammettono gli errori, ragionano, offrono il proprio sguardo sul mondo da un’identica altezza. Non stanno più in basso, non sono derelitte, vittime, non sono poco importanti. Con le parole, esistono. Senza parole, scompaiono. Le ragazze di Jane Austen parlano forse più lentamente di mia figlia e delle sue amiche, parlano più lentamente della ventenne con le treccine gialle e azzurre sul lungomare di Odessa, ma anche loro hanno conosciuto ed esercitato una enorme velocità: la necessaria velocità dell’estrema giovinezza, pochi anni che volano in cui bisogna concentrare tutte le forze e tutto il cervello per prendere in mano la propria vita, fare le scelte giuste e conquistarsi la felicità e la libertà.

Costruire una vita insieme agli altri, ma alla stessa identica altezza. C’è qualcos’altro per cui valga la pena vivere? Ascoltare ed essere ascoltati. Cambiare idea e spiegare perché. Dire sì e dire no, e anche infilarsi a poco a poco nell’adesione alla propria parola interiore. Con le parole si gioca, si mandano a monte gli appuntamenti, si chiede aiuto e ci si diverte, si sta tutti insieme in una piazza, come in questa copertina, e si offrono qua e là pezzetti di sé. Ma con le parole si sceglie.

A Odessa, a Roma, a Kiev, nella campagna inglese, a Dublino, a San Pietroburgo e ovunque: le parole viaggiano a una bella velocità. La fiducia nella loro forza dipende da chi le usa. Marina Cvetaeva ha avuto molto più che fiducia nella parola: ha avuto fede. Solo la fede di una poetessa nella parola, come ha scritto Ezio Mauro, poteva darle in quegli anni il coraggio di avvicinarsi al terrore e al potere: nella sua smisurata velocità di pensiero, nella sua capacità di riempire di parole e di versi perfino i muri della soffitta in cui viveva, Marina Cvetaeva ha avuto la forza di sfidare l’impossibile scrivendo una lettera perfino al “compagno Berija”, il principale collaboratore di Stalin nelle grandi purghe di regime, per chiedergli nel 1939 la liberazione di suo marito, incarcerato in quanto nemico pubblico. Marina Cvetaeva chiede a quest’uomo altre parole, una corrispondenza, la risposta del potere sovietico al suo atto civico e poetico insieme. “Ma prima di parlare di lui, vorrei spendere alcune parole su di me. Io sono la scrittrice Marina Ivanovna Cvetaeva. Se questo è un errore, La prego, lo corregga prima che sia troppo tardi”. Scrive per dovere, per speranza, per dare un senso alle parole. Scrive per non perdere un centimetro della sua altezza e della sua velocità, per non scendere in basso. Scrive senza avere mai una risposta, ma non invano: così rimane degna di tutta la bellezza del mondo. Così per noi, anche a doppia velocità.