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Le ragazze della 414, lacrime di Israele

I corpi dei morti parlano e mostrano le violenze subite. Poi ci sono le donne in ostaggio, tra cui la ragazza con la macchia di sangue sui pantaloni e le soldatesse che controllavano il confine: avevano capito che cosa stava per succedere. Il dolore di non essere credute. Di non essere state ascoltate. Il tormento dell’attesa e il bisogno di cambiare tutto

I corpi che stanno parlando, in Israele, sono morti. Sono le ferite, le mutilazioni, le lacerazioni, il male che è rimasto tatuato su queste donne irriconoscibili che raccontano senza poter parlare il dolore di una fine in massacro. Il 7 ottobre è un racconto lungo e crudele, viene fuori con la lentezza del dolore, con il ritmo immobile degli attimi che non hanno parole. La verità sul giorno dell’attacco di Hamas contro i civili israeliani la conosceremo tra anni perché i terroristi hanno mescolato l’orrore e la brutalità all’umiliazione e la prima reazione, per dimenticare l’umiliazione, è non raccontarla, è nasconderla, lasciare che esca via dalla memoria. Invece rimane, si racconta da sola in ogni momento di silenzio, si imprime con un’immagine feroce. Per questo, i primi a parlare delle violenze di quel giorno di cui ognuno in Israele ha un ricordo scandito secondo per secondo, sono i corpi dei morti, ai quali non è rimasto più nulla, neppure la vergogna. Chi ha avuto il compito di raccogliere, ordinare, riconoscere le israeliane uccise da Hamas ha visto quel racconto davanti a sé, ha visto la storia degli ultimi attimi: le violenze sessuali, le mutilazioni, i proiettili sparati negli organi genitali, i tagli, gli sfregi dell’odio. I terroristi sono arrivati conoscendo qualche parola di ebraico, tra queste: alza le mani, abbassati i pantaloni, apri le gambe. I comandi immondi e mortali che tante israeliane hanno sentito prima di morire. Il racconto della morte, per essere scritto, sarà più lungo di quello della vita e alcuni degli uomini di Hamas catturati dall’esercito hanno raccontato che l’ordine era chiaro: sporcate, violentate, uccidete. Poi c’è quell’immagine che parla in movimento: la ragazza con le mani legate, caricata su una gip con una macchia di sangue sui pantaloni all’altezza dell’inguine. Fa parte delle venti donne che Hamas avrebbe dovuto liberare durante la tregua di fine novembre ma non lo ha fatto. Di queste israeliane non si sa nulla, tra loro c’è questa ragazza con i capelli spettinati, di cui è difficile ricordare il volto per quella macchia che è una risposta alla domanda che nessuno ha voluto porre a voce alta, ma di cui conosciamo già la risposta: cosa ha subìto? Verrebbe da urlarlo. Gli israeliani hanno un rispetto sacro del dolore, non hanno voluto diffondere il filmato di quarantasette minuti che condensa la parte meno brutale delle violenze di Hamas per rispetto a quei corpi offesi, alle loro famiglie, al pianto che stravolge il viso e che nessuno vuole mostrare. Avrebbero potuto far gridare quelle immagini in giro per il mondo, avrebbero potuto pubblicizzare il dolore e le violenze subite, invece l’ha tenute serrate tra le labbra. E quella ragazza, sarà viva? Avrà addosso ancora quei pantaloni? Secondo alcuni funzionari americani le venti donne che non sono state rilasciate sono vittime di abusi, il buio che c’è attorno ai loro nomi, alle loro sorti, è una delle più grandi paure di Israele, un paese che ha imparato a coltivare l’assenza, che sta contando da quasi tre mesi ogni cittadino scomparso, tornato, trattenuto. Un paese che nella settimana di tregua ha atteso tenendosi per mano il rilascio di ogni israeliano. Adesso si pronunciano ogni giorno i nomi di chi ancora deve tornare, i nomi di quelle venti donne. Ogni volta non si capisce quale sia la speranza, quale l’illusione. Tutte sanno quale, tra i mille dolori, si sente più acuto: il dolore di non essere credute.

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Micol Flammini, giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia e Israele. È autrice, con Paola Peduzzi, di EuPorn, che è anche un podcast.