Cerca

Le valchirie dell’impero sconfitto

La rivoluzionaria Aleksandra Kollontaj e la storica Hélène Carrère, madre di Emmanuel, si incontrano in un libro. Entrambe hanno amato la Russia, l’una sapeva che poteva essere la sola a tramortire l’Europa, l’altra vedeva la continuità con l’occidente. Entrambe hanno sbagliato: hanno dato fiducia alle rivoluzioni che non liberano niente

Cosa avrebbe fatto Hélène Carrère se fosse nata nel 1872, in un giorno di marzo, da un amore prima clandestino, inaccettabile, scandaloso, poi legalizzato ma confinato ai margini della società perché iniziato con un tradimento? Quell’amore tra aristocratici appassionati di fine Ottocento in una Russia che dei cambiamenti sentiva l’odore portato da un vento ritardatario fu l’inizio della storia di Aleksandra Kollontaj, la rivoluzionaria che sperava di cambiare non il mondo ma la sua Russia e ci riuscì. Hélène Carrère d’Encausse da quella Russia diventata enorme e troppo stretta assieme, fattasi asfittica e pericolosa, era fuggita ancora prima di nascere, perché la sua famiglia si era trasferita a Parigi, si era opposta al regime sovietico, era aristocratica e per questo andava punita e spogliata, secondo Mosca. Anche Aleksandra era aristocratica, ma sopravvisse alla persecuzione, in parte perché la nuova Russia rivoluzionaria ma sempre uguale aveva contribuito a crearla, in parte perché tutti, da Lenin a Stalin, capivano che era una persona indispensabile, una rivoluzionaria imprescindibile. Come non capirla, Aleksandra Kollontaj, bella e di fuoco, proprio come Hélène Carrère, che invece per passione dedicò la sua vita allo studio della Russia in preda ai distruttori sovietici? Aleksandra al cambiamento ci credeva davvero, credeva nell’uguaglianza, e credeva nella pace, una parola che allora come oggi aveva un prezzo altissimo. Aleksandra quella parola, “mir” – che in russo vuol dire mondo e pace, un unico significante per due significati che si sfiorano appena – l’ha scritta e ripetuta, l’ha insegnata, urlata arringando le folle che si accalcavano ai suoi comizi: era più ascoltata di Lenin. Era contraria alla Prima guerra mondiale, credeva che la fine del conflitto avrebbe finalmente liberato la Russia dagli zar, librando, finalmente, la rivoluzione. Per fare in modo che ciò accadesse, fece viaggi, imparò lingue, moltissime, parlò con intellettuali e con operai, divenne indispensabile. Hélène sarebbe mai potuta essere Aleksandra nascendo cinquantasette anni prima?

Non c’è comprensione, non c’è unione, sono due donne che si guardano a distanza e che si sono incontrate in un libro che la storica Hélène Carrère ha dedicato alla rivoluzionaria, Aleksandra Kollontaj. La valchiria della rivoluzione, la signora della rivoluzione, con i suoi modi garbati, la sua testardaggine devota a un’idea per la quale ha cancellato anche gli amori. Hélène ha avuto una vita opposta e ha deciso di studiare Aleksandra come materia storica, mantenendo per lei un’indulgenza non riservata ad altri personaggi della rivoluzione. La rivoluzionaria ha sbagliato molto, così la storica. Hanno dato fiducia a leader che non la meritavano, hanno cercato nelle guide dei loro paesi di provenienza e di approdo la mano che potesse per sempre curare la Russia, l’eterna malata, che Hélène ha continuato a osservare da lontano, con viaggi saltuari, ma con gli occhi di chi non l’ha mai vissuta. Aleksandra si è fidata di Lenin e poi di Stalin, ha visto in loro i leader che potevano portare avanti gli ideali della rivoluzione, della rottura, ha messo a tacere quanto di diverso aveva da loro, e ha continuato a sostenerli, anche quando non era più sostenuta. Hélène ha invece creduto in Vladimir Putin e nella sua capacità di restaurare per sempre la rottura che la Kollontaj aveva contribuito a creare, aveva amato, cullato, per la quale si era battuta, fino a diventare la prima donna ministro in vari ministeri – in realtà fu la seconda ma di colei che l’ha preceduta poco si ricorda – poi prima donna ambasciatrice, carica ambita, ma che lei subì come fosse un esilio. Hélène Carrère nata invece da una famiglia che fuggì dall’Unione sovietica, la cui storia fu raccontata da suo figlio Emmanuel, che indagò il ruolo del nonno, un economista e filosofo georgiano, che aveva lavorato come interprete per i tedeschi e venne ucciso con l’accusa di collaborazionismo con i nazisti. Alla storica parlare della sua famiglia non interessava, piaceva di più studiare il mondo da cui proveniva. Diventata la prima donna a dirigere l’Accademia di Francia, aveva creduto che Vladimir Putin potesse riportare i valori della Russia non deturpata dal bolscevismo. Era stata speranzosa e morbida, anche dopo l’annessione illegittima della Crimea nel 2014. La storica era rimasta dell’idea che la Russia andasse considerata come “altro”, e in base a questo “altro”, in base a questo credo in grado di generare orrore, andasse compresa perché l’occidente senza Russia non poteva stare, e viceversa. La distanza tra l’occidente e la Russia sembra immensa, e l’invasione di Mosca in Ucraina lo dimostra. Hélène sembrava non volerci credere, Aleksandra invece lo aveva capito. Sapeva che soltanto in Russia, nel paese terribilmente arretrato e incredibilmente veloce, sarebbe stata possibile una rivoluzione in grado di tramortire l’Europa, dall’enorme anomalia russa sarebbe poi potuta servire a tutto il mondo. Hélène vedeva invece l’occidente e la Russia in continuità, era la Francia a parlare in lei, quell’idea di interdipendenza, di respiro all’unisono, di storie parallele che prima o poi si sarebbero dovute incontrare che risponde anche alla concezione di Europa che uomini di stato come Charles de Gaulle avevano tramandato ai politici che sono venuti dopo, allo stesso Emmanuel Macron, di un continente fatto di un sentire comune, di valori che si accompagnano, pronto a estendersi dall’Atlantico agli Urali. L’Europa invece si è fermata prima, si è fermata in Ucraina, lungo una frontiera di invidie, possesso e incomprensioni messe su dal Cremlino.

Aleksandra Kollontaj era andata in Ucraina dopo la fine della Prima guerra mondiale, si trasferì con il suo compagno-marito, un contadino diventato lottatore di partito, chiamato Pavel Dybenko, perché aveva ricevuto da Lenin un compito importante: dirigere una campagna di propaganda a Kyiv. La pace di Brest-Litovsk, soprannominata “la pace vergognosa”, era stata siglata da poco e non aveva affatto portato alla pacificazione della Russia, che rimaneva divisa in aree controllate da favorevoli e contrari alla rivoluzione. Il partito era convinto che dall’Ucraina venissero delle forti minacce al potere bolscevico, che aveva stabilito a Kharkiv – città nella parte nord orientale dell’Ucraina oggi bombardata di frequente dall’esercito russo – un governo, che gli ucraini si rifiutavano di riconoscere, rivendicando l’indipendenza del loro paese. Lenin però era fedele a un principio: «L’unità del proletariato – scrive Hélène Carrère – doveva avere per conseguenza l’unità territoriale del vecchio impero». Il compito di Aleksandra era quello di girare l’Ucraina in lungo e in largo e parlare, arringare, convincere, spesso con Dybenko, che nel frattempo era impegnato nel combattere i generali contrari alla rivoluzione. L’Ucraina era già terra di guerra, ideologica e militare, una terra di conquista che il Cremlino considerava necessaria per i suoi interessi interni.

Aleksandra amò il suo peregrinare tra Kyiv, Kharkiv e Simferopoli, ma lontana dalla Russia proprio non ci sapeva stare, tornò a Mosca e lungo il cammino del ritorno si imbatté in molti profughi, stanchi di fuggire, stanchi degli scontri per il potere russo che si consumavano sul loro territorio. Le sue parole per confortarli erano in realtà spaventose: arriverà l’Armata rossa a liberare l’Ucraina. Ci credeva, pensava di star regalando il migliore dei mondi possibili, di portare l’uguaglianza e la libertà a tutti, soprattutto alle donne. Si fidava dei suoi compagni di lotta, Hélène non gliene fa una colpa. Anche la storica si è fidata di Putin, credeva che fosse il leader giusto per non tornare mai indietro, per rimettere la Russia dentro a quel progetto di Europa dall’Atlantico agli Urali. Lo vedeva come un ex sovietico, un uomo di apparato che però si era aperto al mondo e aveva capito quanto fosse irresistibile. Al contrario, il presidente russo, il mondo lo aveva trovato insopportabile, lo vedeva come una terra da ammaliare, conquistare, comprare o annettere – a seconda della latitudine – proprio per riportare la Russia indietro.

Hélène non lo aveva capito, continuò a fidarsi e dopo il 24 febbraio del 2022 disse che era stato concesso troppo al Cremlino, gli era stato concesso di sbagliare, di perseverare, dalla guerra in Georgia nel 2008, alla prima invasione dell’Ucraina nel 2014. Tutto era rimasto impunito, Putin è andato avanti e ha sconvolto l’Europa. Non ha ammesso i suoi errori di valutazione, agli storici, giustamente, non si chiede il conto. Da chi spera in una nuova idea di Russia, nella fine dell’enorme anomalia, non si pretendono risarcimenti. Neppure ad Aleksandra Kollontaj sono stati chiesti, a una donna rivoluzionaria in tutto. Nella politica, nella famiglia, come nell’amore. Lasciò Dybenko, come tanti prima di lui, perché era convinta che il rapporto di coppia non potesse essere possesso, che l’unione dovesse essere innanzitutto di ideali, di lotta, di costruzione al servizio di qualcosa di più grande. Da questa storia d’amore trasformata in delusione, nacque un romanzo autobiografico, Gli amori delle api operaie, diventato un manifesto dell’amore comunista, in cui si ama per lottare e si fanno figli che non sono di una madre e di un padre, ma di uno stato, di un progetto, di una società, che se ne occuperà per sempre e che loro contribuiranno a migliorare.

Non era questa la vita di Hélène, non erano questi i suoi pensieri, tra aristocratiche, le due, a distanza di decenni non si comprendevano. Si sono incontrate in un punto, in quello che lega sempre la costruzione e la distruzione, che se si osserva con attenzione sono simmetriche: quando accadono, annullano tutto ciò che c’è stato nel mezzo. Aleksandra Kollontaj immaginò la nascita dell’Unione sovietica, per mantenerla in piedi si fidò anche di Stalin, di quelli che definiva gli unici uomini in grado di mandare avanti il progetto rivoluzionario. Venne risparmiata dalle purghe ma fu messa ai margini, rimase in vita ma fu dimenticata. Prima dell’inizio della rivoluzione, capì quando il vecchio mondo stava per rompersi, e autodistruggersi. Hélène, al contrario ma in continuità, immaginò e predisse la fine dell’Unione sovietica, scrisse un libro sull’enorme schianto che sarebbe arrivato ancora una volta a travolgere l’Europa, L’Empire éclaté del 1978, e che ancora una volta avrebbe coinvolto la Russia per prima. Ma l’effetto sarebbe stato opposto: quel crollo previsto e necessario, avrebbe confinato la grande anomalia, non l’avrebbe portata al di fuori delle sue frontiere e soprattutto non l’avrebbe curata. L’avrebbe lasciata immobile, stretta in se stessa, pronta, ancora una volta a travolgere l’Europa. Hanno amato la Russia, l’hanno compresa, nessuna delle due ha capito quale fosse il suo posto.

Micol Flammini, giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia e Israele. È autrice, con Paola Peduzzi, di EuPorn, che è anche un podcast.