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Libertà è mia nonna che adora ancora il whisky

Dare la buonanotte allo zio Enver, che amava tanto i bambini, fare la coda per il pane, guardare le pubblicità yugoslave e all’improvviso vedere lo scarto tra apparenza e realtà. Attraverso gli occhi di Lea Ypi, la scoperta del mondo e della facoltà ineliminabile di fare la cosa giusta

Gli esseri umani non fanno la storia per libera scelta.

E tuttavia, fanno la storia.

Rosa Luxemburg

 

Le persone mi hanno resa ciò che sono, mi ha detto Lea Ypi. Persone che si sono amate e combattute, che hanno mentito, tradito, difeso, che hanno fatto del loro meglio per costruirsi una libertà o per sentirsi libere anche mentre non lo erano affatto. Le persone, tutte le persone, hanno dentro di sé una spinta verso qualcosa di più.

Lea Ypi, accademica e scrittrice, nata in Albania nel 1979, cresciuta durante il regime comunista, era convinta di vivere libera nel più libero dei paesi, con la compagna maestra che insegnava a volere tantissimo bene “allo zio Enver”, il primo ministro Enver Hoxha che amava molto i bambini, almeno come Stalin, almeno come Lenin. La maestra Nora aveva stretto la mano un giorno allo zio Enver e aveva raccontato ai bambini che adesso quella mano era più forte e che lei non l’aveva lavata per giorni per conservare al massimo tutta la forza, e che avrebbe usato quella forza per difendere la libertà fino alla fine dei suoi giorni. Ed era quello che avrebbero fatto anche loro, i bambini della scuola, crescendo: avere cura della libertà, difenderla e mettere in una bella cornice la foto dello zio Enver per darle la buonanotte prima di addormentarsi, la sera. Poi fare la coda per il pane e per il cherosene e fare molta attenzione a non dire sciocchezze. Se dicevi sciocchezze, magari davanti a qualche estraneo, se aprivi la porta di casa a qualcuno che non aveva “la biografia” a posto, qualcuno che non aveva combattuto per la libertà e che non abbracciava abbastanza Stalin e lo zio Enver, la tua famiglia poteva passare un guaio. I genitori di Lea, ad esempio, non avevano ancora messo in cornice la foto dello zio Enver dopo il funerale di Stato, non erano nemmeno ancora andati in pellegrinaggio sulla sua tomba, e il giorno della sua morte, quando anche i cieli piangevano, la nonna aveva cucinato, non aveva perso l’appetito e non aveva pianto. Aveva persino impedito a Lea di ritagliare una foto dello zio Enver da un libro. “In questa casa i libri non si vandalizzano”, aveva detto seria. E durante il funerale alla televisione i genitori stavano in silenzio, senza lacrime, e a un certo punto la madre aveva esclamato: “E’ la terza sinfonia di Beethoven! La marcia funebre. È Beethoven” e ne era nata una discussione sulla musica del funerale, invece che sulla disperazione per la perdita dello zio Enver. Lea, la bambina bionda nata e cresciuta nel paese più libero del mondo, al sicuro dall’oppressione che era evidente negli altri paesi, al sicuro dal capitalismo che faceva diventare obesi i bambini americani, era disorientata di fronte alla mancanza di entusiasmo politico della sua famiglia, che ritrovava un grande fervore solo davanti alle pubblicità di saponi e creme trasmesse dalla televisione yugoslava, e lì allora litigavano perché il padre non aveva chiamato in tempo la madre e la nonna, e la pubblicità stava già finendo, e iniziavano delle risse che si placavano solo con la pubblicità successiva. “La mia famiglia litigava sempre su tutto. Tutto, tranne la politica”. I suoi genitori e sua nonna non erano comunisti, ma lei non lo sapeva, amavano altre rivoluzioni, e a casa parlavano in codice, temevano le delazioni, avevano parenti in carcere e nei campi di lavoro, cercavano di tenere i figli al sicuro e soprattutto cercavano di esercitare il massimo della libertà e dei desideri dentro quelle condizioni, dentro quel sistema che una bambina fiduciosa considerava fantastico perché la rendeva felice e salda, oltre che immensamente triste per la morte dello zio Enver e desiderosa di abbracciare la statua di Stalin. Lea però voleva anche scoprire che cosa fosse quella lattina rossa e luccicante, meravigliosa, che si vendeva vuota al mercato nero e che aveva la scritta misteriosa: Coca Cola. Un soprammobile, un vaso, un oggetto d’arte o, come diceva qualcuno, una bibita che una volta un bambino turista, che aveva il permesso di entrare in altri negozi e pagare in dollari, aveva gettato nella spazzatura ancora piena a metà? Forse quella era una leggenda, ma per la lattina sua madre aveva litigato seriamente con la vicina di casa: la madre l’aveva comprata a caro prezzo e messa, vuota, dopo avere discusso in casa se infilarci dentro una rosa avrebbe potuto distogliere l’attenzione dal valore estetico della lattina stessa, sul centrino ricamato più bello della casa. Ma dopo pochi giorni la lattina era sparita, per poi rispuntare a tradimento sopra il televisore della casa dei vicini, i Papas: membri del partito, gente con la biografia a posto e grandi amici sempre solidali, con una casa identica alla loro, identica a tutte le case da cui si entrava e usciva liberamente e ci si scambiava il miele, ci si teneva il posto in coda quando arrivava il camion per la distribuzione, si avvicinavano le panche per mangiare insieme durante i matrimoni. Ma adesso, nel 1986, quella lattina aveva fatto saltare la fiducia reciproca e la solidarietà, aveva insinuato l’invidia e la diffidenza dentro un rapporto di libera amicizia. La madre di Lea aveva accusato di furto di lattina vuota la sua vicina Papas ed era iniziata una faida molto dolorosa che aveva coinvolto tutta la famiglia, ma finita con una pace bellissima piena di brindisi, commozione, allegria e con la proposta generosa di tenere la lattina due settimane per uno.

Il memoir di Lea Ypi, appena uscito per Feltrinelli, Libera, diventare grandi alla fine della storia, dall’Inghilterra sta facendo il giro del mondo, al di là di ogni previsione editoriale o ambizione personale: un’intellettuale albanese, docente di Filosofia politica alla London School of Economics, ha mostrato con calore, sense of humour e profondità di analisi, ma anche con capacità di critica sociale, il difficile significato della parola libertà. In rapporto alle idee e quindi attraverso le persone che sbagliano o che collezionano carte di chewingum, o che si acconciano i capelli come Margaret Thatcher per affrontare l’ansia del parto. Suo padre aveva scelto per lei un nomignolo: brigatista. La chiamava così e lei non sapeva assolutamente perché, né chi fossero i brigatisti, ma le sembrava un nome carino, molto affettuoso. Ognuna di queste persone aveva un’idea diversa di libertà (brigatisti, Margaret Thatcher, zio Enver, rivoluzione francese), eppure non c’era nessuno che amassero di più al mondo.

“Mentre cadeva il comunismo in Albania ho aperto gli occhi sul mondo – dice Lea Ypi – ho saputo dai miei genitori e da mia nonna la verità sulle loro vite e sui loro segreti, ho scoperto in che cosa credevano e che cosa avevano perso: è stato sconvolgente, un disorientamento completo. Tutte le mie certezze di bambina dogmatica sono cadute, tutto è cambiato e io non sapevo più niente, nemmeno chi ero io. E intanto ero un’adolescente: un giorno ero preoccupata per la mia nuova cotta, il giorno dopo per la mia vita”. Lea Ypi era un’adolescente dentro la fine della storia, con il tempo di capire e di ricominciare, con il desiderio di capire. Per i suoi genitori invece quella nuova, desiderata libertà è arrivata troppo tardi e la sconfitta si è insinuata dentro di loro: la responsabilità personale per il fallimento.

Quando parlo con Lea Ypi della sua capacità di interrogarsi profondamente sul significato della parola libertà, mostrandola come percorso e non come prodotto, osservandone il movimento da dentro, lei mi racconta qualcosa di nuovo a proposito dello scarto tra apparenza e realtà. Aveva deciso di studiare Filosofia in Italia, a Roma, negli anni Novanta. “Ma per i miei genitori Filosofia era Marx, quindi il male, la rovina della loro vita, il motivo del carcere dei loro parenti, mio padre diceva: Filosofia non è una professione! Come farò a chiedere alla gente di prestarmi i soldi per l’università di mia figlia, quando dirò: Filosofia? Penseranno che siamo impazziti!”. Fu la nonna a dire la cosa giusta: perché vuoi condannare tua figlia alla tua stessa infelicità, cioè a non fare mai quello che avresti voluto fare? Perché proprio tu vuoi toglierle la libertà? Il patto allora fu che Lea avrebbe studiato Filosofia ma si sarebbe tenuta alla larga da Marx. La nonna, che era stata ricchissima e poi aveva lavorato nei campi, aveva un’idea di libertà ancora differente: interiore, dentro una dimensione morale: “Noi abbiamo perso tutto, ma non abbiamo perso noi stessi. E non abbiamo perso la dignità, perché la dignità non ha niente a che vedere con i soldi, gli onori o i titoli. Io sono la stessa persona di allora”, diceva la nonna. “E adoro ancora il whisky.”

La nonna ha perso se stessa, Lea non ha perso se stessa quando è arrivata in Italia, su una barca, per studiare Filosofia. “Ma alla Casa dello Studente, senza un soldo, senza niente, solo con la mia faccia e con il mio nome albanese, ho scoperto che la libertà che ti danno gli altri non è mai vera libertà”. Lei era libera, giovane, brava, era stata accolta, poteva studiare ma “ero diversa dagli altri”. “E’ stato un periodo molto faticoso e molto importante: non avevo amici, avevo difficoltà anche a scambiare gli appunti, chiedevo in prestito i libri per la notte, la notte li studiavo e poi li restituivo la mattina, così la mattina rimanevo senza niente. Volevo studiare tedesco ma non potevo permettermi il corso di tedesco. Ma soprattutto sentivo indifferenza, a volte ostilità, nessuna curiosità di sapere chi ero: perché ero un’albanese. Lì ho capito che la libertà dell’Ovest non è per tutti. Ero cresciuta in un paese non libero credendomi libera, e adesso che ero libera scoprivo con grande sgomento l’illibertà”. Lo scarto tra l’apparenza e l’essenza, l’impossibilità di prescindere dalle persone. E la necessità di infilarsi in una zona grigia, sempre, quando si parla di libertà.

Vincitori e oppressi, vittime e carnefici, vanno bene solo per cominciare.

Dopo, comincia la costruzione della vera libertà, della vera autonomia. La responsabilità di quello che fai. Una ragazza albanese che adora le lattine vuote di Coca Cola e vuole studiare Marx, una nonna che vuole bere whisky e parlare francese, un padre che sogna la rivoluzione ma per lui è troppo tardi. La libertà interiore, che non perdiamo mai, in nessun caso, dentro nessun sistema, dentro nessuna guerra, di fare ciò che è giusto.