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L’importanza di dirsi: hai fallito

Virgilio bruciò l’Eneide, Ciaijkovskij e Leopardi erano insoddisfatti della loro opera. Oggi il fallimento è vietato, censurato. Ma riconoscere che cos’è fallire è fondamentale, altrimenti produrremo solo miseri, inesistenti capolavori

Da quanto tempo non sentiamo parlare di fallimenti artistici? Il termine “fallimento” semina fra gli artisti una specie di panico. È una realtà, è una possibilità reale che per scaramanzia non viene neppure nominata. Credo che le ragioni di questo silenzio, di questa vera e propria rimozione o censura, derivino dal sospetto generale e non infondato che in verità viviamo insieme a una tale quantità di fallimenti che se fossero riconosciuti e dichiarati potrebbero generare una sfiducia e un crollo di autostima che ci priverebbe di quell’ottimismo creativo senza limiti, di quella fede nell’“io posso” che le psicoterapie consigliano di adottare come un salutare mantra. Si dice che i figli, bambini o adolescenti, non vanno mai scoraggiati, neppure per rafforzare in loro quel consapevole senso di realtà necessario per vivere a occhi aperti. Esiste e si sta diffondendo, però, un infantilismo e giovanilismo degli adulti che li rendono sempre più vulnerabili e sensibili ai messaggi negativi che vengono dai fatti.

Va aggiunto poi che lo “spirito pubblicitario” e il culto dell’applauso sono diventati l’anima promozionale e celebrativa della nostra cultura dominante, soprattutto quando si tratta di creatività e belle arti, di espressione di sé e di immagine di sé. Mania del look, religione dell’apparire, smania della “bella figura” e della lode. La pubblicità (è il suo mestiere) deve idealizzare le qualità di ogni merce, che si tratti di un dentifricio, di un digestivo, di un cantante o di un romanzo appena uscito. La cultura dipende economicamente dagli inserti pubblicitari, che quindi sono intoccabili. Il successo viene dato per immancabile, anche se spesso, come è ovvio, manca. Il fallimento è quindi vietato. Se c’è, non viene riconosciuto né nominato. Di conseguenza, in un tale regime di universale approvazione, la capacità di percepire i fallimenti, distinguendoli dalle riuscite, è deperita fino a sparire.

Ma solo accettando di riconoscere i fallimenti si è in grado di capire che cos’è la riuscita, l’eccellenza, la perfezione. Sarebbe utile, soprattutto oggi che si vede arte dovunque, ridare dignità conoscitiva al termine e all’idea di fallimento. Fallire non è disonorevole: lo diventa se si rifiuta o si è incapaci di riconoscerlo. Non c’è impresa artistica che sia priva di rischi. Osare affrontarli è esattamente il contrario del fare finta che non esistano.

In tutte le arti i fallimenti, i lunghi silenzi, il senso di impotenza creativa, il riconoscimento delle proprie debolezze e dei propri limiti, non sono mancati. Il fallimento, tuttavia, non ha a che fare direttamente con l’insuccesso. Non riguarda la fortuna o sfortuna sociale di ciò che l’artista produce: riguarda il compimento dei prodotti artistici in sé, cioè l’aver raggiunto o l’aver mancato una adeguata realizzazione espressiva. In ogni vero artista l’autocritica è una forza, non una debolezza. Un esempio a caso può essere quello di Ciajkovskij, che disse: “Per tutta la vita ho sofferto della mia insufficienza nel padroneggiare la forma in generale. Ho lottato contro questa innata debolezza e oso dire di aver raggiunto buoni risultati. Tuttavia, arriverò alla tomba senza aver prodotto niente di veramente perfetto nella sua forma”.

Nelle culture artistiche più mature, quando lo spirito critico è molto sviluppato grazie allo studio e all’ammirazione che si ha per i grandi modelli a cui ci si ispira, i fallimenti non passano inosservati. Sono gli stessi autori i primi a riconoscere di aver fallito in qualche misura. Sembra che Virgilio, sul letto di morte, abbia chiesto che l’Eneide fosse distrutta, a causa della sua incompiutezza formale e per l’insufficienza di ritmo narrativo. Secoli dopo, alla fine della sua vita, Leopardi disse in una lettera che quanto aveva scritto non erano “opere” ma solo tentativi, prove, essais: preludio a una carriera di scrittore che non c’era stata.

Ci sono comunque incompiutezze e incompiutezze. L’Eneide, gli scritti di Leopardi, le sculture non finite di Michelangelo, non sono certo da considerare fallimenti, ma promesse di perfezione, e proprio in questo opere a cui non manca niente di cui si senta il bisogno.

Dal Romanticismo in poi, l’idea di genialità ha preso definitivamente il posto dell’idea di classica di perfezione. Le creazioni del genio romantico sono quello che sono proprio perché hanno una qualità di “naturalezza” che può comportare o mancanze o eccessi.

Solo chi aspira alla perfezione e si ispira a modelli perfetti sa precisamente che cos’è un fallimento. Chi invece rifiuta le regole che dovrebbero garantire la riuscita (regole formali ereditate) finisce presto per sentire l’incompiutezza, lo squilibrio, l’abnorme e l’informe come un segno di originalità, di libertà, di fedeltà non alle regole ma alla natura, alla spontaneità, a un’autenticità priva di inibizioni e di quell’autocontrollo che non esclude le reticenze.

I romantici sono stati i primi artisti che hanno voluto ubbidire solo all’ispirazione, e l’ispirazione non si può programmare e costringere. Friedrich Schlegel, che è forse il maggiore teorico del romanticismo, mise l’eros al posto della ragione: lo considerava un’energia primordiale che apre le porte al caos per disorganizzare l’ordine coercitivo, cioè sterile, della razionalità. Ciò che contava era il pathos da cui nascono sia il piacere che l’intensità del Sublime, grazie al quale l’artista trascende i confini convenzionali dell’estetica.

Le avanguardie novecentesche hanno portato questo principio artistico fino a una caricaturale, distruttiva, nichilistica oltranza. Il loro paradosso è stato tuttavia che hanno escogitato anche metodi compositivi per esorcizzare i rischi del caos. Il metodo futurista delle “parole in libertà”; il metodo surrealista della “scrittura automatica” che libera associazioni inconsce; il metodo dadaista beffardamente ludico che si affida alle sorprese combinatorie del caso, legalizzano preliminarmente il fallimento formale e l’insignificanza. Il non-senso diventa così un principio e uno scopo artistico. La nonarte non è più un fallimento, è sempre, “a modo suo”, una riuscita. Il guaio è che quando il metodo e l’ideologia di un’avanguardia perdono autorità e spariscono, allora il fallimento dei loro prodotti risulta evidente. Della poesia futurista, dadaista e surrealista resta ben poco, resta solo l’idea che le giustificava. Più o meno lo stesso esito hanno avuto i testi parapoetici del Gruppo 63, di Tel Quel e della Wiener Gruppe.

Oggi che siamo al di là del Novecento, di queste premesse possiamo vedere tutte le conseguenze. Invece che un’ideologia dell’arte abbiamo però il divieto di giudicarla: abbiamo il rifiuto, l’assenza della critica. In tutte le arti, dalla letteratura al cinema, dal teatro alle arti visive, i fallimenti sono all’ordine del giorno, eppure succede che quasi nessuno, neppure la maggior parte dei pochi critici rimasti, li percepisca come fallimenti. E pensare che due dei più originali e influenti critici letterari del secolo scorso hanno osato giudicare un fallimento l’Amleto di Shakespeare e i romanzi di Kafka.

Secondo Thomas S. Eliot, nel giudizio critico andavano distinti l’Amleto come opera drammatica e il personaggio di Amleto. Quest’ultimo ha conquistato gli scrittori e gli intellettuali fino a diventare un archetipo dell’individualismo antipolitico moderno. Il dramma in quanto opera teatrale è invece, secondo Eliot, un fallimento artistico a causa delle sue ridondanze e incongruenze. La ragione di questo sarebbe nel fatto che il personaggio Amleto “è dominato da uno stato emotivo che risulta inesprimibile perché eccede i fatti” sui quali è costruita la vicenda. Questa tesi è discutibile, o forse si può in parte spiegare con l’antipatia critica che Eliot, come poeta e come intellettuale, aveva per l’individualismo romantico che il personaggio di Amleto prefigura.

Il secondo caso è il “parere contrario” che Edmund Wilson formulò su Kafka. Pur apprezzando alcuni dei suoi racconti in quanto affini a quelli di Gogol’ e di Poe, i due romanzi Il processo e Il castello sono condannati da Wilson come “opere grezze, non rifinite e mai veramente risolte”, che è quindi “evidentemente assurdo” accostare a quelle di Proust e Joyce.

Cito questi due casi solo come esempi estremi e sorprendenti di una critica che arriva a considerare fallite o molto prossime al fallimento opere considerate giustamente fondamentali nella letteratura moderna.

Rispetto a quanto è avvenuto in tutte le arti e in filosofia nel primo ventennio del Novecento, i due decenni del Duemila che abbiamo alle spalle sono stati piuttosto miseri. Perfino nella qualità della pop music e delle programmazioni televisive c’è stato un netto declino rispetto agli anni 1960-80. La narrativa e la poesia attuali sono, nel loro insieme e salvo eccezioni, un generale fallimento; eppure sembra che nessuno se ne accorga, nessuno lo dice, i critici e gli studiosi preferiscono sorvolare e tenersi prudenti. Io credo invece che le arti abbiano bisogno di fallimenti riconosciuti come tali. Capire che cos’è un fallimento equivale a capire che cosa non lo è. Se questo non avverrà, avremo la certezza che gli intellettuali si sono trasformati in agenti pubblicitari. Una mutazione, questa, non da poco.

Alfonso Berardinelli (Roma, 1943), saggista e critico letterario. Ha insegnato Letteratura contemporanea all’Università di Venezia. Ha fondato e diretto con Piergiorgio Bellocchio la rivista “Diario” (1985-1993, in volume Quodlibet, 2010). Il suo ultimo libro è “Giornalismo culturale. Un’introduzione al millennio breve” (il Saggiatore, 2021).