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Lo psicodramma di Pasolini poeta

La lotta per il riconoscimento. Giorgio Manacorda separa verità e retorica, poesia e ideologia, e libera Pier Paolo Pasolini dalla gabbia che ne considera ovvio il valore a priori. Lo riporta in vita, oltre la sua figura: affascinante, insopportabile, disperata. Ma che cosa sarebbe la letteratura senza le persone che la scrivono?

Che Pier Paolo Pasolini fosse anzitutto un poeta, qualunque cosa scrivesse e facesse, lo pensava lui per primo. Questa fede in sé stesso poeta gli permetteva di dare corso a una produttività ininterrotta, che soprattutto dopo il 1955 gli ha permesso di passare dalla poesia alla narrativa e dalla critica letteraria al cinema, al teatro in versi, al giornalismo di idee e di intervento. È grazie a quella fede che poteva considerare il suo un “cinema di poesia” e un “giornalismo di poesia”. Chi è certo di essere essenzialmente e comunque poeta non può che credere di produrre o emanare poesia con la sua stessa persona. Era dunque la fisiologia del suo stile, e il suo modo di vedere e di vivere la realtà, a essere “poetico”.

Quando altri due poeti e critici, Franco Fortini e Giovanni Raboni, decisero di colpire al cuore la sua opera, il suo comportamento pubblico e la sua fede in sé stesso, mirarono perciò alla sua poesia. In un saggio pubblicato all’inizio degli anni Settanta, Fortini disse tutto fin dal titolo: “Pasolini non è la poesia”. A sua volta Raboni, più ambiguamente e malignamente, ma con qualche ragione in più, disse che Pasolini era sempre poeta, ma lo era meno quando scriveva poesie.

Ora Giorgio Manacorda, nel suo libro Pier Paolo poeta (Castelvecchi, pp. 270, euro 20), isola la produzione in versi mettendo da parte tutto il resto. Se Pasolini era sempre poeta in qualunque linguaggio si esprimesse, allora le sue poesie dovranno risultare capaci di sostenere la responsabilità di legittimare la qualità poetica di tutta la sua opera, nonché il significato della sua presenza pubblica: “Se c’è un autore che sembra vicinissimo, ancora presente nella cultura italiana o, meglio, nell’immaginario degli italiani vagamente acculturati, è Pasolini. Ma di quale Pasolini si tratta? L’immagine di Pasolini che sembra Pasolini, è Pasolini? (…) Spogliato di tutto, il poeta Pasolini esiste?”.

L’interrogativo è radicale e riguarda la coincidenza dell’immagine con la realtà e della “poeticità” del personaggio con la sua opera poetica. Saggiare la materia prima di cui è fatto il mito Pasolini, cioè la consistenza libro dopo libro, testo dopo testo della sua poesia, diventa così il primo compito critico. Il rischio, premette Manacorda, è che la poesia di Pasolini faccia la fine di quella di D’Annunzio: “Talmente espressione del suo tempo (del gusto del suo tempo), che con la sua epoca svanisca anche lui”.

Gli anni non riescono a passare invano.

In questo centenario della nascita di Pasolini, niente può rimanere come prima. Le possibilità sono due. O diventa definitiva la trasformazione ipocrita di questo autore in un’icona buona per ogni uso celebrativo perché svuotata di ogni contenuto reale, o il passare del tempo comporterà un vantaggio critico e permetterà di valutare meglio il valore della sua opera nel suo insieme e nelle sue dimensioni sia artistiche che politiche. Succederà, deve succedere a Pasolini quanto è successo ad altri autori del Novecento da rileggere oggi: da Primo Levi a Nicola Chiaromonte, da Saba e Montale, Luzi e Caproni, a Elsa Morante e Beppe Fenoglio. Per quanto riguarda la poesia, il libro di Manacorda credo che sia il miglior risultato di una distanza critica raggiunta che riguarda la zona simbolicamente più problematica di Pasolini scrittore.

Poeta lui stesso, tra i pochissimi che dagli anni Settanta dei suoi esordi non ha fatto che crescere e sorprendere, Manacorda è anche, fra i poeti della generazione successiva a quella di Pasolini, il solo vero teorico e critico di poesia. Passionalmente lucido e spesso geniale nelle sue analisi stilistico-tematiche, il suo libro ci dice che cosa l’uomo pubblico e l’ideologo Pasolini hanno fatto del giovane poeta in dialetto friulano che era stato: poeta colto ma anche istintivo e in stato di grazia, poeta puro dell’arcaismo sociale, antistorico del dialetto usato da lui come una incontaminata “lingua materna” non italiana, che allude a una comunità aurorale, in realtà fuori dalla storia e antistorica. Questo sentimento e mito della purezza ha poi sempre accompagnato Pasolini mentre consumava i suoi “atti impuri” di autore che come omosessuale deve difendersi dalle diffamazioni programmando la propria carriera, il proprio ruolo e successo di letterato di sinistra impegnato nel dibattito ideologico. Da quel momento in poi la sua poesia è al servizio di uno scopo pratico. Ma la poesia, dice Manacorda, non può avere scopi senza tradire sé stessa. E la poesia di Pasolini, dopo le Poesie a Casarsa (1942), è in cerca di scopi: al primo scopo di essere o apparire storicamente consapevole e rilevante imponendosi così all’attenzione della “sfera pubblica” borghese e antiborghese.

Nel passo più criticamente visionario del suo libro, Manacorda dice che Pasolini non ha scritto, come a volte può sembrare, il suo romanzo autobiografico, ma “ha montato una gigantesca macchina letteraria, una cosa a metà strada fra un tank e una piovra, capace di afferrare tutto e tutto trasformare in armatura: la morbidezza dei tentacoli in artigli, la dolcezza in violenza, la casa della poesia in un carrarmato fornito di ‘ordigni esplosivi’ (come dirà in Trasumanar e organizzar), buoni per tutte le battaglie: personali, giuridiche, morali, politiche, ideologiche, storiche”.

Il problema è che la sua poesia diventa discorso e il discorso poetico diventa sempre più prevedibile e ripetitivo. Quello che viene considerato il capolavoro poetico di Pasolini, Le ceneri di Gramsci (1957), è “il suo primo fallimento” e segna, secondo Manacorda, il culmine del tradimento e della manipolazione opportunistica della poesia, che si perde in letteratura, in oratoria, saggismo, giornalismo versificato e qua e là liricizzato. Dei due libri poetici successivi, La religione del mio tempo (1961) e Poesia in forma di rosa (1964), l’ibrido modello costruito dalle Ceneri comincia a decadere e si sfalda. Ma è proprio con questo progressivo indebolimento della struttura retorica, prima a sprazzi e poi evadendo dal proprio sistema stilistico precedente, è in Trasumanar e organizzar (1971) che Pasolini tenta di ritrovare una nuova immediatezza e verità poetica. Rinuncia alla sua “volontà di essere il cantore di qualcosa”, di varie entità storiche e istituzionali come la Chiesa, Gramsci, la religione del suo tempo. Le ceneri di Gramsci, per Manacorda, sono “il disastro dell’engagement” in cui “la lingua letteraria usata a piene mani produce il rovescio della poesia”. È “la sostituzione della poesia con la mortale, in quanto volgare, ideologia”.

Con spietata pazienza empirica vengono

così smontate le costruzioni stilistiche pasoliniane separando, con una specie di lavoro di editing, poesia e ideologia, verità autobiografica e volontarismo programmatico (risulta dai manoscritti, mi dice Walter Siti, che Pasolini faceva continuamente programmi).

Piuttosto a sorpresa (o sono io a sorprendermi) la linea interpretativa tracciata da Manacorda vira bruscamente quando si arriva al 1971 e all’ultima raccolta poetica Trasumanar e organizzar: “Il paradosso è che Pier Paolo trova sé stesso nella dilapidazione del dono (…) Abbandonando l’armamentario dei suoi corrivi miti personali (…) sgombra il campo, e il suo incontenibile dono poetico riappare nella ‘realtà’, fuori di sé, con un’evidenza indiscutibile, proprio perché non cercato, esente da ogni bovarismo ‘poetico’ (…) Il suicidio della poesia ha prodotto poesia?”. Credo che al paradosso di cui parla Manacorda sia bene lasciare quest’ultimo interrogativo. La sua ipotesi mi sembra sia troppo generosa che fuorviante. Ma forse è anche dovuta al fatto che Manacorda isola la poesia di Pasolini mettendo da parte la sua saggistica, con cui, fin dall’inizio, interagisce. Nelle passioni di Pasolini è compresa l’ideologia, è inevitabile benché a volte sia usata bene e altre volte male. Pasolini stesso incarna la figura dell’ossimoro o coesistenza dei contrari di cui ha ripetutamente parlato: da un lato poesia come purezza mitico-panica, dall’altro vocazione pedagogica, critica, raziocinante, autoesplicativa. È stato uno degli ultimi poeti intellettuali, critici della società in quanto poeti e a partire dalla poesia, ma dotati di una non meno originaria e originale, non meno naturale e istintiva passione dialettica. Come sappiamo nei poeti antichi e moderni questa duplicità non è stata affatto rara. Fra gli intellettuali più eminenti e illuminanti della propria epoca ci sono Novalis e Coleridge, Leopardi e Baudelaire, Eliot e Valéry, Machado, Auden, e in Italia Saba e Montale.

Le poesie di Trasumanar e organizzar a me sembrano un prologo da dimenticare a Scritti corsari e Lettere luterane, in cui Pasolini mette in prosa tutta la poesia di cui era ancora capace, facendone un atto di accusa alle modernizzazioni sociali e culturali. Il fatto che la vera “omologazione” e “mutazione antropologica” sarebbero avvenute soprattutto più tardi, con la “rivoluzione informatica”, ha fatto sembrare nello stesso tempo inattendibile e profetica la socio-critica pasoliniana. Se gli antipasolinisti pregiudiziali, gli ottimisti progressivi di destra e di sinistra, non riescono quasi a leggerlo, è perché non vedono che la polemica antimoderna di Pasolini è molto meno originale di quanto sembri. Il cosiddetto anticapitalismo romantico, moralistico, umanistico, anarchico, liberale o liberalsocialista, è nato in Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti insieme alla rivoluzione industriale. La sola cosa nuova che c’è nel Pasolini corsaro e luterano è la persona di Pasolini, affascinante per alcuni, insopportabile per altri, sempre provocatoria, spesso ricattatoria. Ma che cosa sarebbero la letteratura e la critica senza le persone che le scrivono? Senza i pessimismi, le nevrosi, le fobie e le sociopatie che cosa sarebbero il teatro di Beckett, i reportage e i pamphlet di Orwell, la pittura di Francis Bacon, i film di Kubrick?

Ma torno a Manacorda e al fatto non irrilevante che lui stesso definisce il proprio libro su Pasolini uno “psicodramma critico”. Questa formula può sembrare stravagante, invece allude a due aspetti innegabili del suo discorso: il fatto che un poeta come lui (riconosciuto poeta quando aveva vent’anni proprio da Pasolini) parla di un altro poeta in cerca della sua verità; e il fatto che ogni atto critico, che non sia neutramente filologico, è un confronto che mette in gioco e a rischio due identità. Non c’è critica (in particolare quella di un poeta a proposito di un altro poeta) che non nasca da una passione di leggere che è anche passione di scrivere. Il coinvolgimento del poeta-critico Manacorda nel leggere il poeta-critico Pasolini non poteva che rivelare il rapporto psicodrammatico fra lettore e testo. In passato Manacorda è stato pronto a demolire con selvaggia libertà di giudizio la propria produzione poetica. Ora, giudicando severamente la poesia di Pasolini, la riporta in vita come se la leggesse nel momento in cui è stata scritta. Prima ancora che prendersi la libertà di giudicarlo, Manacorda libera Pasolini dalla gabbia mortale di ogni lettura che ne consideri gratuitamente ovvio e garantito a priori il valore poetico. Si deve a questo la singolare teatralità, appunto psicodrammatica, del suo libro, pensato e scritto “in presenza” e nell’atto di leggere. Una tale inusitata interazione dinamica fra quell’autore e quel lettore evoca anche la teatralità immanente in tutta l’attività di Pasolini personaggio, poeta, intellettuale pubblico. Fra due poeti, contrariamente a quanto si potrebbe credere, non può esserci un rapporto formalmente professionale, ma solo una primordiale “lotta per il riconoscimento”, senza remore né reticenze. Una volta Pasolini ha detto che il peggiore peccato di uno scrittore è la reticenza (forse alludeva a Calvino). Questo vale anche per un critico. Criticando, smontando, rimontando l’opera poetica di Pasolini, Manacorda ha imparato anche da lui e lo tratta col suo stesso metodo: un metodo al di qua e al di là dei metodi, cioè morale, psicologico, politico, estetico. Oggi che è proprio il “Palazzo” delle istituzioni a celebrare Pasolini e a neutralizzarne lo scandalo e la disperazione, gli antipasolinisti viscerali aumenteranno, magari tacendo. Quando poesia e letteratura entrano in politica, la scavalcano e la mettono sotto accusa rifiutandone la logica e il linguaggio, non ci si può certo aspettare né vera comprensione né buona accoglienza.

Per quanto mi riguarda, non sento nessun bisogno né di adottare le idee di Pasolini, né di liberarmene. Continuerò semplicemente a leggerlo come uno scrittore “disperatamente italiano” ogni volta che ne sento il bisogno.

Alfonso Berardinelli (Roma, 1943), saggista e critico letterario. Ha insegnato Letteratura contemporanea all’Università di Venezia. Ha fondato e diretto con Piergiorgio Bellocchio la rivista “Diario” (1985-1993, in volume Quodlibet, 2010). Il suo ultimo libro è “Giornalismo culturale. Un’introduzione al millennio breve” (il Saggiatore, 2021).