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Lo so, sono pesante. La festa senza di me

Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, quando la società dello spettacolo è diventata enorme anche in Italia, dev’esserci stata una proliferazione di spicciafaccende promossi dall’oggi al domani al ruolo di agente, di manager, e di conseguenza sono proliferate le truffe, i guai, le carriere troncate sul nascere o rallentate, magari non per dolo dei suddetti spicciafaccende ma per insipienza, inadeguatezza al passaggio dal pub sotto casa alle tv private, al cinema.

Diego Abatantuono è una delle tante vittime di quell’accelerazione. Quando parla dei suoi primi anni Ottanta ricorda sempre l’errore che è stato fare troppi film in troppi pochi anni, logorando il personaggio del terrone inurbato a Milano, ripetendosi, annoiando: sarebbe durato di più se si fosse risparmiato un po’, se avesse saputo amministrarsi come adesso si amministra Checco Zalone, un blockbuster ogni tre anni, ma erano altri tempi, non aveva ancora trent’anni, è stato mal consigliato…

Ma a parte che allora cosa dovrebbero dire Totò o Sordi (le cash cow si mungono, e in fretta), il fatto è che se uno rilegge la lista dei film che Abatantuono ha girato quarant’anni fa, tra il 1981 e il 1983, trova che sono quasi tutti belli, e qualcuno decisamente memorabile, soprattutto quelli girati nell’annus mirabilis 1982:

Una vacanza bestiale, regia di Carlo Vanzina (1980)

Prestami tua moglie, regia di Giuliano Carmineo (1980)

Fico d’India, regia di Steno (1980)

Arrivano i gatti, regia di Carlo Vanzina (1980) Il pap’occhio, regia di Renzo Arbore (1980) Fantozzi contro tutti, regia di Neri Parenti e Paolo Villaggio (1980)

I carabbinieri, regia di Francesco Massaro (1981)

Il tango della gelosia, regia di Steno (1981)

I fichissimi, regia di Carlo Vanzina (1981) Eccezzziunale… veramente, regia di Carlo Vanzina (1982)

Sballato, gasato, completamente fuso, regia di Steno (1982)

Scusa se è poco, regia di Marco Vicario (1982) Grand Hotel Excelsior, regia di Castellano e Pipolo (1982)

Viuuulentemente mia, regia di Carlo Vanzina (1982)

Attila flagello di Dio, regia di Castellano e Pipolo (1982)

Arrivano i miei, regia di Nini Salerno (1982) Il ras del quartiere, regia di Carlo Vanzina (1983).

Quasi tutti belli: quasi. I film corali, a episodi intrecciati, sono un po’ dei pateracchi, anche Grand Hotel Excelsior, nonostante il cast lussuoso (Celentano, Montesano, Abatantuono, Verdone, Giorgi) e il quarto incasso della stagione 1982-83 dopo E.T., Rambo e Amici miei atto II (quinto In viaggio con papà, sesto Tootsie, settimo Scusate il ritardo: erano anni così).

Questo primo tempo della carriera di Abatantuono finisce col Ras del quartiere; il secondo tempo comincia tre anni dopo con Regalo di Natale (1986), cioè con la morte della maschera e la resurrezione del Nostro come attore anche drammatico, preannuncio dei film con Comencini, Mazzacurati, Scola, e ovviamente della trilogia di Salvatores. Nell’autobiografia uscita qualche mese fa (Si potrebbe andare tutti al mio funerale, scritta insieme a Giorgio Terruzzi), Abatantuono fa dire all’amico Giovanni Veronesi che forse il secondo Abatantuono non è mai stato valorizzato come doveva, e perciò non è mai diventato il grande attore comico e drammatico insieme, il grande attore tout court che sono stati Tognazzi, Manfredi, Gassman: “… Eppure credo che a Diego ancora mancasse il film della vita! Sono convinto che non sia stato sfruttato al cento per cento. Soprattutto nell’ultima parte della sua carriera, quando è apparso meno agitato, più sereno. Se lo sarebbe meritato davvero”. Non è vero, risponde Abatantuono, “non può esistere il film della vita perché se così fosse vorrebbe dire ribaltare la mia concezione della vita stessa. Sono stato fortunato ad aver fatto questo mestiere… Per me ogni film è divertente se posso girarlo con i miei amici, se si riesce a ricreare sul set quella magia che permette di stare bene lavorando”.

Che naturalmente non è una risposta. Il fatto è che è abbastanza vero: il secondo Abatantuono ha fatto diversi film discreti o buoni, ma non mi pare abbia mai trovato il regista e, prima del regista, lo sceneggiatore che sia stato capace di dargli un copione alla sua altezza. Questo però dice qualcosa non su Abatantuono – che anche negli anni della maturità avrebbe forse potuto fare di meno e meglio – ma sui registi e gli sceneggiatori italiani dell’ultimo trentennio, e sui pochissimi film italiani veramente belli che sono stati realizzati nell’arco di queste due generazioni. Non è stata colpa di Abatantuono, è stata colpa degli altri. (O no? Perché uno – sistemata la famiglia, comprata la terza o la quarta casa, aperto il ristorante a Milano – potrebbe anche astenersi, negarsi, leggere le sceneggiature con occhio più critico, inventarsi qualcosa di originale in tv… Ma magari lo fa, magari i due film all’anno che gira sono ciò che residua dopo decine di scarti, è proprio il sistema italiano che sfrutta male i suoi pochi talenti).

Lo zio materno era proprietario del Derby, dove è nata o cresciuta una buona metà della comicità teatrale-cinematografica-televisiva del tardo Novecento; la madre lavorava al guardaroba; il giovanissimo Diego, lasciata la scuola presto, era addetto alle luci, ma anche a dare una sistemata ai locali se c’era bisogno, nonché a trattare con i clienti problematici, a volte anche malavitosi. Un giorno per caso – così suona l’inizio di tutte le storie di successo, e anche di questa – si ritrova sul palcoscenico. Piace.

Da allora in poi si accompagna ai comici, un po’ in qualità di factotum un po’ in qualità di spalla: ogni sera coi Gatti di Vicolo Miracoli, tra Milano e Verona, poi molta riviera romagnola, molta Versilia: ma comunque sempre mare, inesistente o rara la montagna: per i figli dei poveri la montagna è sempre stata una cosa un po’ complicata, perché andarci costa parecchio, ci vogliono le lezioni di sci, cioè qualcuno che ci pensi e le paghi, e poi l’albergo o la casa, l’attrezzatura tecnica, i vestiti giusti, mentre al mare si può anche dormire in macchina o in spiaggia, basta adattarsi, e a vent’anni ci si adatta facilmente. Un lungo fiume tranquillo? Naturalmente no, la vita è sempre piena d’insidie, specie quando si ha tanto successo, e così in fretta. Come s’è detto, dopo l’overdose di film comici Abatantuono entra in crisi: per un po’ smette di fare film, fa meno tv, congeda il suo agente avido e scriteriato, forse anche truffatore. Poi si separa dalla moglie, dalla quale ha avuto un figlio: cambio d’indirizzo, di città, tutto ciò che sembrava solido svanisce nell’aria. Ma ecco che lo scopre o riscopre Avati in Regalo di Natale. Da lì in poi non si ferma più, e diventa uno dei pochi attori della sua generazione capaci di durare nel tempo alternando i drammi alle commedie, uno di quelli che si guardano sempre con piacere anche se il film non è veramente all’altezza. Anche la vita privata torna sui binari: un nuovo amore, stabile; altri due figli.

Leggendolo, però, più che sentendolo parlare (nelle interviste re-indossa quasi sempre una maschera: non più quella del terrone inurbato ma quella dell’attore blasé, dell’uomo che ne ha viste tante e ormai ride di tutto, soprattutto di chi gli sta intorno), leggendolo si ricava spesso l’impressione di un certo umore malinconico. Niente di strano o di nuovo, gli istrici sono teneri sotto la scorza, ma in lui la malinconia sembra riflettere un tratto peculiare del carattere. In positivo, lo si può descrivere come un’invidiabile capacità di legare con le persone, di fare squadra e famiglia.

L’ex moglie Rita sta con Gabriele Salvatores, e tutti si ritrovano in vacanza insieme andando d’amore e d’accordo; la casa sulla costiera romagnola è sempre piena di amici, le cene non sono cene se non c’è almeno una mezza dozzina di ospiti. In negativo, potrebbe anche essere incapacità di stare da solo: “Ho cercato sempre nella mia vita di ricostruirmi quel senso di protezione ‘da branco’ che avevo vissuto quando ero bambino. Dove non sono riuscito a recuperare i vecchi amici dell’infanzia e dell’adolescenza divenuti adulti ne ho sostituito la presenza con altri simili […]. Non ho mai capito quale sia il vero motivo di questa mia ricerca degli altri. Forse è legato al fatto che sono figlio unico e che ho sempre cercato per questo dei riferimenti che non ho trovato in famiglia” (Eccezzziunale veramente, Milano, Zelig, 1997, pp. 44-45).

Di fatto, il pronome che risuona più spesso nei suoi ricordi non è io ma noi. E’ un bell’atteggiamento, significa essere animali sociali, dare importanza alle amicizie, proteggerle. Il rovescio della medaglia è la dipendenza: se non sai stare da solo hai bisogno degli altri, e gli altri prima o poi ti deluderanno. A Kastellorizo, finito di girare Mediterraneo, si fa una festa con tutto il villaggio. Abatantuono e l’amico Ugo Conti vanno a riposarsi e si svegliano solo quando la festa è finita. Come hanno potuto – gli altri membri del cast, i tecnici – dimenticarli? Perché non li hanno svegliati? In un memoir uscito una decina d’anni fa (Ladri di cotolette, sempre con la collaborazione di Giorgio Terruzzi; e poi ce n’è un terzo ancora precedente, il suddetto Eccezzziunale veramente; e un quarto memoir semi-comico uscito tra questi due, Milanismi: e anche su questa smania di ri-raccontarsi, di “fare il punto” ogni sette-otto anni è forse il caso di farsi qualche domanda), in Ladri di cotolette Abatantuono monta un’inchiesta di sei pagine, con testimonianze di chi “c’era quella sera”, e riflessioni di questo tenore: “Io sono pesante. Lo dico sinceramente riferendomi a questa circostanza della festa mancata di Mediterraneo e, in generale, alle circostanze della mia vita. Sono pesante di natura, me ne accorgo, lo so e non posso farci nulla. Questa pesantezza… deriva dal mio carattere, da un’ansia che riguarda il mio vivere”.

Pesante forse non è l’aggettivo giusto, cioè è un aggettivo troppo gentile: forse – giudicando dal tono delle interviste, da ciò che scrive – calza meglio dominante, anche prevaricante, forse prepotente: e si può capire che ogni tanto amici anche carissimi non abbiano voglia di essere dominati.

“Può essere accaduto così in occasione di quella sera a Kastellorizo. ‘Ecco, adesso arriva questo qui a rompere le balle come al solito’. È un pensiero che ho messo in conto, riflettendo sulla festa in Grecia ma anche su molte altre situazioni meno evidenti. Mi piacerebbe semplicemente che un pensiero del genere venisse esternato. Lo capirei. Più delle frasi di circostanza collezionate durante quella notte. Come se non trovarci, non notare l’assenza, in quel contesto così ristretto e particolare, fosse una casualità, una piccola dimenticanza o, addirittura, incredibilmente, una mia scelta… Credo sia stato impossibile che qualcuno possa aver pensato che fossi capace di ‘non esserci’ proprio quella sera. A Kastellorizo non esisteva, fisicamente, un ‘altrove’. La festa era per tutti e, di fatto, tutti avevano partecipato alla festa. Pazienza. Ci saranno un altro film e un’altra festa e comunque è stato bellissimo” (p. 116). Pagina piuttosto sorprendente, in un libro che s’intitola Ladri di cotolette e racconta la vita di un comico; ma anche molto umana: meglio non sapere cosa gli altri pensano davvero di noi, specie se non sappiamo fare a meno degli altri.

Comunque sia, questo è il secondo tempo, il tempo dell’Abatantuono risorto, il trentacinquenne dei film di Salvatores. Qui interessa invece celebrare il primo tempo, l’Abatantuono non ancora trentenne che nel giro di due-tre anni fa qualsiasi cosa, tra cabaret, tv e cinema, e si brucia, e bruciandosi incide il suo nome sulla comicità di un decennio, allo stesso livello di Benigni, Troisi, Verdone: ma in un altro modo.

Prima dei fatti, però, l’antefatto. 1980: Fantozzi contro tutti, il panettiere che seduce la signora Pina.

Who Makes the Movies? è il titolo di un vecchio saggio di Gore Vidal piuttosto tranchant (come gli capitava, specie quando parlava delle arti). Il regista è importante, certo, ma non così importante come vuole la retorica degli auteurs che ha preteso di trasformare questo artigianato, questa abilità – far muovere e parlare sul set in maniera credibile un gruppetto di attori – in un’arte, con tutto un corredo di pseudo-concetti partoriti dai Cahiers du Cinéma; gli attori sono importanti, certo, ma alla fine non sono che “oggetti preziosi che si possono comprare, prendere a prestito, rubare”, spostandoli come pedine “da un palcoscenico all’altro, da un set all’altro, da un film all’altro”. No, il film lo fanno soprattutto gli sceneggiatori: Mankiewicz più di Welles (quando è uscito Mank a dargli ragione, Vidal era già morto da anni), Faulkner più di Renoir, Vidal più di Wyler, Flaiano più di Fellini. La trama, le scene, i dialoghi contano più della tecnica di ripresa; vale a dire che – Vidal cita Kurosawa – “con un’ottima sceneggiatura anche un regista mediocre può fare un film eccellente. Ma con una cattiva sceneggiatura neanche un grande regista può fare un film davvero buono”.

Vidal non conosceva i film di Fantozzi, ma gli avrebbero fatto gioco. Perché che cosa ricordiamo di Fantozzi, cioè dei primi tre film di Fantozzi (gli altri sono irrilevanti)? Ricordiamo i caratteristi di contorno, e lì è merito del casting che ha saputo trovare il “massacratore naturale”, ragionier Filini nel delizioso Gigi Reder, il viscido geometra Calboni in Giuseppe Anatrelli, la moglie rassegnata in Liù Bosisio, la figlia brutta in Plinio Fernando, e poi la teoria di direttori, presidenti mannari e figli di puttana, una squadra di mostri degna di un freak show. E soprattutto abbiamo mandato a memoria gli aneddoti, le scenette, le battute, tutto materiale che in parte viene dai racconti di Villaggio e in parte, ma in gran parte, è nato con la sceneggiatura, cioè dallo sforzo sì di Villaggio ma anche e soprattutto di Salce, Benvenuti e De Bernardi.

In Fantozzi contro tutti il venticinquenne Abatantuono interpreta Cecco, il nipote del fornaio (“un orrendo butterato di 26 anni, con il culo molto basso e un alito agghiacciante tipo fogna di Calcutta”), cioè porta al cinema il personaggio del terrone inurbato, solo che qui l’urbe è Roma anziché Milano.

Ebbene, il panettiere Cecco c’è, sì, nel libro Fantozzi contro tutti, nel racconto La Pina s’innamora, ma è una comparsa senza corpo, un puro nome che entra in scena solo nella penultima pagina del racconto. Fantozzi ha preteso di avere con lui un incontro chiarificatore, così Cecco si presenta all’ora fissata davanti alla porta di casa Fantozzi, solo che nel frattempo Fantozzi, che non è riuscito a entrare perché ha dimenticato le chiavi, dopo una lunghissima penosa resistenza se l’è fatta addosso, e adesso se ne sta accovacciato sul pianerottolo, madido e puzzolente. Ne nasce una scena grottesca, ma di un grottesco infantile – come quello dei bambini, l’immaginario sconcio di Villaggio è legato alle deiezioni più che al sesso:

“Guardi che se lei osa offendere la mia signora io…”.

“Che cosa fai tu?”. Gli si avvicinò minaccioso e lo prese per il naso cominciando una “vite” lentissima: “Che cosa faresti? Ma io ti stacco il naso, poi i denti, le orecchie”, gli diede anche un calcio nel torace che rimbombò nella tromba delle scale, “io ti rompo!”.

“Moderi le parole”, disse Fantozzi ansimando. “Sei tu che devi stare attento!”, e lo portò a vite con la faccia sul marmo del pianerottolo […]. “Dichi a questo stronzo”, disse il fornaio tenendogli la scarpa sulla nuca, “di non rompermi più i coglioni con le sue merdate… a proposito”, si chinò ad annusarlo, “signora gli cambi le mutande perché questo si è cagato addosso…”.

Nella sceneggiatura, lo spunto comico del panettiere che insidia o insidierebbe la signora Pina si dilata. Nel libro sono un paio di pagine, qui è più di un quarto d’ora di film. Cecco, merito degli sceneggiatori e di un Abatantuono in stato di grazia, non è più una comparsa, diventa un personaggio, e la trama scheletrica del racconto si arricchisce di invenzioni notevolissime, molto al di sopra della media del film, che è piuttosto diseguale: la forchettata di spaghetti tirata in faccia alla moglie quando Zoff para il rigore all’Argentina, la pettinatura “Schiaffo” che alla signora Pina è costata “due ore dal parrucchiere”, le cataste di pagnotte accumulate negli armadi di casa, il dialogo chiarificatore che diventa una discesa notturna nel laboratorio del fornaio; la tragica “spiegazione” finale con Cecco. Contestualmente, al comico scatologico si sostituisce un più adulto e molto divertente comico sessuale: “Vuole i’ sfilatino o ci do tutto il filone? So’ tre chili e lascio. Ce lo ficco dentro i’ sacchetto […]? Per lei i’ filoncino speciale c’è sempre!”.

Prima di Fantozzi contro tutti Abatantuono era già sulle mappe, ma non con quella evidenza. Aveva fatto qualcosa nei film degli amici: il sacerdote nel Pap’occhio di Arbore, il capo-carovana turistica in Una vacanza bestiale, il cameriere del ristorante “L’anguilla scotennata” in Arrivano i Gatti, tutti e due diretti da Carlo Vanzina, e tutti e due a distanza di più di quarant’anni ancora molto godibili, cioè pieni di situazioni e battute divertenti nonostante le imperfezioni, le ingenuità, le scene tirate via. In questi due film si collauda il personaggio, cioè la maschera che Abatantuono indosserà nel biennio successivo. Totò è sempre goffo e inopportuno, Sordi è sempre untuoso, Abatantuono è sempre aggressivo, comicamente aggressivo, anche perché è alto e largo, con un testone enorme di capelli e i baffoni. È un marginale – non solo per il fisico ma anche per il pastiche di dialetti meridionali che gli esce dalla bocca, e per il modo in cui maltratta i meridionali come lui – ma un marginale che vuole prevalere, prevaricare: sul ragionier Fantozzi, sui vacanzieri di Una vacanza bestiale, sui malcapitati clienti giapponesi del ristorante (“Senti bello, tu qua puoi mangia’ a crepapelle, poi ci penso io a scarica’ tutto su quei quattro meridionali d’oriente… Ridete, kamikazzi, dopo ci penso io a darvi quattro mazzulate in capo quando vi porto i cconto!”).

Si prepara, dicevo, si collauda l’Abatantuono dei film da protagonista: il capofamiglia-capobanda dei Fichissimi, il capo-ultrà di Eccezzziunale veramente, il teppista tenero e gentile del Ras del quartiere, Attila il re dei barbari. Tutti diversi, tutti resi simili, oltre che da un immaginario accento meridionale, dalla vocazione a una violenza esagerata, quindi farsesca, inoffensiva, e infatti rinominata viuuulenza, che suona appunto come una parola dei fumetti. Sotto questa luce appare chiaro di chi sia erede l’Abatantuono dei primi anni Ottanta, se gli si vogliono trovare degli ascendenti: non Totò, non Sordi, non Fantozzi. Semmai, per la truce e innocua aggressività, un po’ il professor Kranz tedesco di Germania di Villaggio, ma più di tutti Bud Spencer: con la differenza che mentre Villaggio e Bud Spencer erano quasi solo dei corpi, Abatantuono è un attore comico vero, straordinariamente duttile e inventivo, e capace soprattutto di improvvisare su copioni appena abbozzati, di riambientare nei film sketch che avrebbero potuto funzionare benissimo anche sul palcoscenico del Derby, di recitare a soggetto su una trama che s’indovina appena accennata:

Abatantuono (per l’occasione, detective privato sulle tracce di una ragazza scomparsa): “Vorrei sapere qualcosa di più! Dettagli intrinsechi [sic] della sua vita. Che so? Come si comporta. Che so? Come si comporta”.

Bidello della scuola frequentata dalla ragazza: “Eh, vabbè, qualche particolare…”.

Abatantuono: “Sì, ma… Come si comporta, che so? Cioè…”.

Bidello: “Qualche particolare”.

Abatantuono: “Sì, come si comporta, che so?”.

Bidello: “Sì, ma…”

Abatantuono: “E che facciamo il presepe movibile?”.

Bidello: “Quando aveva undici anni e mezzo, per esempio, si nascondeva nel cesso e andava a fumare ” (il bidello intasca le duemila lire che aveva chiesto per la “soffiata”).

Abatantuono: “Beh, un bel dettaglio, già. Cioè, con questo posso già cominciare, diciamo… a comporre un certo puzzle attorno al caso, cioè diciamo che si stringe la cerchia dell’imputato…”.

Questi sono trenta secondi di dialogo del Ras del quartiere, trenta secondi di una scena che ha l’incredibile durata di tre minuti, senza stacchi, e che certamente non è stata scritta così come la vediamo e ascoltiamo nel film: Abatantuono e Gianni Cajafa (il bidello) hanno brillantemente improvvisato. La scena è sporca, piena di sbavature, ma è molto divertente. E lo stesso si potrebbe dire, nel medesimo film, del dialogo con il padre scalognato che incarica il ras di ritrovargli la figlia (“Cerchi di arrivare incolume al suicidio”), della lezione di filosofia (“So’ supplente di filosofia… Supplisco filosofia… Da molti anni oramai so’ filosofo…”); oppure delle scenette casalinghe dei Fichissimi, delle scene con la Sandrelli di Eccezzziunale… veramente, o del capolavoro che è Viuuulentemente mia, praticamente da cima a fondo (non si può fare a meno di pensare che con un titolo un po’ più sobrio lo si studierebbe nelle scuole: il film comico quasi perfetto, all’altezza di Ricomincio da tre e del primo Verdone). E naturalmente Attila flagello di Dio, un film che a quarant’anni di distanza si rivede ancora con ammirazione per la fantasia e la splendida coralità (parte del divertimento, nel guardarlo o riguardarlo, deriva dal pensiero di quanto devono essersi divertiti a girarlo).

“Venni a sapere che [Gassman] parlava bene di me, in una intervista mi aveva indicato come possibile successore” (Si potrebbe andare tutti al mio funerale, p. 14). Il successore di Gassman? Ma quale? Non il Gassman drammatico, con tutta la buona volontà; forse per certi versi il Gassman vanitoso e pasticcione dei Soliti ignoti; ma certamente il cavaliere errante dell’Armata Brancaleone, che è l’antenato di Attila e dei suoi scalcagnati compagni d’avventura. Salvo che mentre Brancaleone aveva una produzione molto solida alle spalle, cioè molto più budget e attori collaudatissimi, Attila è una specie di Amici miei in costume (ma costumi che surclassano quelli di Brancaleone in buffoneria: sul carro dei barbari, per dire, sventola il bandierone del Milan), il cast semi-professionistico ha un’età media di 25-30 anni, e Abatantuono non ha mai fatto l’Accademia d’arte drammatica, non è cresciuto con Visconti bensì con Teocoli, Boldi, Porcaro, i Gatti di Vicolo Miracoli, è pura natura. Sia ringraziato il manager venale che quarant’anni fa lo ha spremuto come un limone: lo ha costretto a essere uno dei geni comici dell’ultimo mezzo secolo.

Claudio Giunta (Torino, 1971) insegna Letteratura italiana all’Università di Trento. Tra i suoi ultimi libri: “Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca” (il Mulino, 2020) e “Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?” (Rizzoli, 2021).