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Non ci resta che convivere

Quanto ci manca Amos Oz, che credeva nel compromesso come ingrediente indispensabile della vita, che detestava i fanatici, punti esclamativi ambulanti con un’unica verità in tasca o nella canna del fucile. Le mattine a guardare come sta il deserto, che sembra immobile ma non lo è, e Israele, il paese dell’amore, della delusione, della certezza

Chi più di me s’intende di compromessi: sono sposato con la stessa moglie da più di cinquant’anni… diceva con quel suo mezzo sorriso fatto di indulgenza ed empatia e i due occhi celesti, trasparenti, che ti guardavano fisso ma senza un’ombra di prepotenza, anzi. Amos Oz era davvero un grande specialista e prima ancora un inguaribile appassionato del compromesso, che era secondo lui sinonimo di amore per la vita – altro che segno di debolezza o predisposizione a costose rinunce. Il compromesso, spiegava, è la ricetta per non arrendersi alle difficoltà, il principio primo della socialità.

Lo ripeteva spesso, questo assunto. Certo che in ebraico la parola “compromesso” è più dolce, meno pelosa di quanto non sia in italiano, e poi la lingua di Amos Oz, della Bibbia e di tanto altro è indifferente al principio di non contraddizione e racconta di una logica tutta diversa, fatta di una convinta rassegnazione alle contraddizioni e di una ferma consapevolezza della complessità che esiste in tutto.

In Israele gli scrittori sono ancora – l’avverbio è da prendere con tutta la libertà del caso, come minaccia o speranza, auspicio o sollievo – voci militanti: non tutti, ma molti. È che la realtà, lì, è sempre un po’ al di là dell’immaginazione, è un cimento sempre più sfidante dell’invenzione narrativa, lascia aperto uno spazio sconfinato di cose da dire, su cui pensare, interrogarsi, disperare e augurarsi. Lì, in Israele, tutto può cambiare nello spazio di un secondo, o di quei venti/trenta secondi che la app ti dice che hai per correre nel rifugio, quando parte un missile. Ce l’hanno tutti, la app, e gli israeliani la tengono attiva anche quando sono o vivono all’estero. Tutto può cambiare così, anche le voci degli intellettuali e non soltanto le loro: il paese civile che da decine di settimane si ritrovava in piazza tutti i sabati sera per protestare contro il governo e la riforma della giustizia in corso dal 7 di ottobre ha cambiato registro e affronta l’emergenza ben sapendo che c’è in gioco la sopravvivenza di tutti e ognuno.

Chissà. Chissà che cosa avrebbe detto e scritto Amos Oz, in questi giorni. È un paese pieno di difetti, raccontava di Israele, della terra dov’era nato, nel cuore di Gerusalemme, nel 1939. È un paese che mi fa arrabbiare e mi delude, certo. Ma è l’unico posto al mondo dove ho la certezza che se casco lungo disteso sul marciapiede, per strada, trovo qualcuno che mi porge una mano per aiutarmi a tornare in piedi. E poi magari subito dopo discutere con me, dirmi che di politica e letteratura non capisco niente… I miei nonni, raccontava, vivevano in Europa dove a ogni piè sospinto sentivano gridare “ebrei, andatevene in Palestina!”, prima di arrivare qui giusto in tempo per non finire nei forni crematori e, poco tempo dopo, venire bersagliati da “ebrei, andatevene dalla Palestina!”. Non abbiamo un altro posto al mondo, questa è la verità, concludeva con quel sorriso e quegli occhi trasparenti e infinitamente caldi. Chissà. E quanto manca lui, quanto mancano le sue parole, sempre capaci di far riflettere, di sorprendere, di far risuonare un’eco imprevista, di dare a chi ascolta una visuale nuova mai immaginata prima. Amos Oz diceva sempre che il conflitto fra israeliani e palestinesi – o meglio, fra palestinesi ebrei e palestinesi arabi – è particolare perché mette in gioco non un torto e una ragione bensì due ragioni, una contrapposta all’altra. L’unica strada è la convivenza, e l’unica strada per arrivarci è quel compromesso che diventa qui più che mai un indispensabile ingrediente per la vita, come il lievito per il pane e i ceci per l’humus – che mangiano entrambi i popoli. Non se ne esce, se non così. Al di là di errori gravi e imperdonabili commessi da governi avvicendatisi nei settantacinque anni di storia dello stato ebraico, la necessità del compromesso è molto chiara in gran parte della popolazione d’Israele perché, come diceva lui, i popoli sono quasi sempre più avanti, più lucidi e lungimiranti di coloro che li governano. A incominciare, sì, da quel 29 novembre del 1947 in cui le Nazione Unite votarono la risoluzione che prevedeva, alla fine del governo mandatario britannico provvisorio la nascita in Palestina di due stati, uno ebraico e uno arabo: accolta dagli ebrei e rinnegata da tutto il fronte arabo. Le pagine di Una storia di amore e di tenebra in cui Amos Oz racconta quella notte, il silenzio di attesa e la conta dei voti e la felicità e l’incredulità e l’entusiasmo e tanto altro vissuto dal bambino che era, quelle pagine sono fra le più belle di tutta la letteratura del nostro tempo e non solo in ebraico:

«Durante la cena papà mi spiegò che all’Assemblea generale dell’Onu, che si sarebbe svolta il 29 novembre a Lake Success, vicino a New York, era richiesta una maggioranza di non meno dei due terzi, perché venisse approvata la proposta della maggioranza dei membri dell’UNSCOP di creare nei territori del mandato britannico due stati indipendenti, uno ebraico e uno arabo. I paesi del fronte islamico, insieme al governo dell’Inghilterra, avrebbero fatto di tutto per impedire la formazione di tale maggioranza: la loro aspirazione era infatti che tutta la regione diventasse uno stato arabo sotto la protezione degli inglesi, proprio come nel caso di altri paesi arabi, fra i quali l’Egitto, la Transgiordania e l’Iraq, di fatto sotto le ali britanniche…

A Kerem Abraham e negli altri quartieri ebraici vi furono danze e lacrime, comparvero bandiere e slogan scritti su teli di stoffa, e macchine che suonavano il clacson e Verso Sion prodigio e bandiera,

Qui nella terra degli avi e da ogni sinagoga sbucavano i suoni dello shofar, del corno di montone, i rotoli della Torah furono tirati fuori dall’Arca santa e portati in festa nella danza, e A Yavne in Galilea, Cantate guardate e vedete / questo grande giorno e più tardi, alle ore piccole della notte, si aprì improvvisamente il negozio del signor Auster e si aprirono tutti i chioschi in via Sofonia e in via Gheulla e in via Chanselor e in via Giaffa e in via King George, aprirono i bar di tutta la città e ancora all’alba distribuivano gratis bevande leggere e dolci e torte e anche bevande alcoliche, e di mano in mano di bocca in bocca passavano bottiglie di succo e birra e vino, e c’erano sconosciuti che si abbracciavano per le strade e si baciavano piangendo, e poliziotti inglesi sbigottiti trascinati anche loro nelle danze e ammorbiditi con pinte di birra e liquore, e sui corazzati dell’esercito britannico gente in festa che s’arrampicava e issava in cima bandiere di uno stato che non era ancora nato ma quella notte, a Lake Success, era stato deciso che sarebbe potuto nascere…».

Lui teneva sulla scrivania, un vecchio tavolo di legno fatto da un mastro falegname, due matite, una rossa e una blu: quando era d’accordo al cento per cento con se stesso usava quella blu per scrivere un saggio, quando invece non sapeva bene come stavano le cose usava l’altra per creare una storia. Era un uomo e uno scrittore tremendamente paziente e tollerante se non fosse che questo aggettivo – che in italiano è un malsicuro, mobile participio presente – non gli calzava, ma c’era una cosa che non sopportava e che considerava il più grande difetto in seno all’umanità: il fanatismo. Il fanatico, spiegava, è un punto esclamativo ambulante, uno che ha solo una certezza ed è talmente generoso che vuole farti capire da che parte sta la ragione a tutti i costi, anche ammazzandoti. Ha la verità in tasca, o nella canna del fucile: niente dubbi, compromessi, parole.

Lui, cioè Amos Oz, il fanatismo l’ha indagato, sofferto, raccontato. L’ha spiegato a lettori di ogni età, ma soprattutto per i più giovani: diceva che è la grande piaga di oggi ma anche della storia passata, l’ostacolo maggiore non soltanto alla convivenza ma proprio alla costruzione di un futuro per tutti, per chiunque.

Chissà che cosa avrebbe da dire oggi. In parte, forse, ne ha già detto perché le sue parole non erano mai dettate dalla stretta contingenza: guardava il mondo da una prospettiva larga, sempre cercando nel profondo fra le pieghe del reale. Tutte le mattine si alzava molto presto, prima dell’alba, e dopo una tazza di caffè usciva a fare quattro passi nel deserto. Negli ultimi anni si era trasferito a Tel Aviv per stare più vicino a figli e nipoti e anche per ragioni di salute, ma aveva vissuto per decenni ad Arad, una cittadina affacciata sul deserto di Giudea. E tutte le mattine lui usciva a vedere come stava il deserto perché anche laggiù, spiegava, le cose cambiano e succedono anche se tutto sembra immobile. Il deserto era una grande lezione di vita, diceva, giorno per giorno. Per questo, anche per questo, lui vedeva le cose in un modo speciale, con quel suo spirito di osservazione che era penetrante e bonario al tempo stesso. In fondo e malgrado tutto aveva una certa fiducia nell’umanità.

Elena Loewenthal (Torino, 1960) è scrittrice, traduttrice e studiosa di ebraistica. È direttrice del Circolo dei Lettori di Torino. Tra i suoi ultimi libri: «La carezza. Una storia perfetta» (2020), «Libertà vigilata. Perché le donne sono diverse dagli uomini» (2021), entrambi usciti per La Nave di Teseo.