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Non serve deporre un uovo per capire se è buono

Il movimento di Pauline Kael, critica cinematografica del New Yorker che faceva arrabbiare tutti. “Ci vuole più coraggio e più stile”. Quanto era scioccante accettare che una donna partecipasse alle discussioni in modo sensato. L’idea romantica e realistica di andare sempre avanti

Faceva freddo. Il vento Mi tagliava le dita.

Ero senza fiato. Non ero mai stato più contento.

Giorgio Caproni, “Allegria”

 

Pauline Kael è stata la critica cinematografica più importante d’America dalla fine degli anni Sessanta. Prima di arrivare al New Yorker era stata licenziata da parecchi posti, e in certi casi le case cinematografiche cercavano di vietarle l’accesso alle proiezioni, oppure succedeva che si licenziasse da sola perché non la pagavano: “Questa è la mia ultima trasmissione gratis”, disse alla radio, alla fine della recensione di un film, “Non mi interessa più prendere il caffè con la direzione”. La licenziarono anche da una rivista femminile perché aveva ribattezzato Tutti insieme appassionatamente, appena accolto come il più bel film di tutti i tempi, Tutti insieme piagnucolosamente, e la rivista ricevette molte lettere di protesta e molte disdette di abbonamenti.

Pauline Kael, nata un secolo fa, morta vent’anni fa, è stata paragonata a Dorothy Parker, a Susan Sontag, come se fosse necessario trovare sempre un’unità di misura, un gruppetto, una compagnia, per non correre il rischio dell’unicità. Il cammino di Pauline Kael è stato verso l’unicità: comunicava la libertà di una persona (di una donna americana) che parla di cinema, priva di snobismo ma dotata di passione e senso critico – l’ha detto anche sua figlia, abbassando gli occhi con imbarazzo: mia madre giudicava ogni cosa, era più forte di lei –, e voleva che le sue frasi respirassero e avessero il suono di una voce umana. Cercò di ammorbidire la voce scritta e di abbandonare per sempre la pomposità che le avevano insegnato al college. Si infuriò col New Republic perché intervenivano sui suoi pezzi, aggiustavano verbi e aggettivi, e lottava ogni settimana con il suo capo al New Yorker che non voleva sul giornale parole come “latrina” o “cunnilingus” e quindi la supplicava scrivendole a margine dei fogli note piene di punti interrogativi ed esclamativi.

Ma lei non voleva essere elegante, voleva avere uno stile e rafforzarlo, difenderlo, si batteva per mantenere una voce e pretendeva di essere libera dai produttori, dai direttori, dai registi e anche dai lettori. “Bisogna imparare ad avere più coraggio, così da trovarsi in una posizione vantaggiosa”. Uno dei suoi tanti odiatori le scrisse una lettera in cui le chiedeva perché allora non tirava fuori le palle (era pur sempre il secolo scorso) e non ci provava lei a fare un film, visto che era tanto esperta. Lei gli rispose con molta precisione: “Signor Dodo, non è necessario deporre un uovo per capire se è buono”. Non è necessario deporre un uovo per capire se è buono è la risposta che darò a tutto e a tutti d’ora in poi, soprattutto a sproposito, per recuperare le troppe volte in cui non ho risposto niente. Pauline Kael, che si pagava da sola il biglietto del cinema e che ha desiderato che fosse quello il suo futuro fin dalla prima volta che ha visto un film seduta in braccio ai genitori, diceva che il mondo si divide in due categorie di persone: quelle che traggono un profondo piacere dall’avere fatto un buon lavoro e quelle che cercano solo di arrivare alla fine della giornata.

Ci sono molte persone che vogliono solo arrivare alla fine della giornata, ma ce ne sono altrettante che preferiscono trasformare la giornata in notte e in alba finché il lavoro non è abbastanza buono. Ho visto il documentario su Pauline Kael (è su Sky da febbraio, What she said: l’arte di Pauline Kael) mentre iniziavo a rigirarmi nella testa le cose che avrei voluto scrivere qui, su di noi che non siamo rimasti fermi neanche mentre eravamo immobili e ribollenti o aspettavamo soltanto la fine della giornata, sul movimento delle persone che è sempre un passo (o molti passi) più veloce delle classificazioni della realtà, delle categorie che ci inventiamo ogni volta, e dopo aver ascoltato la voce di Pauline Kael ho dovuto muovermi anch’io per farle spazio. Madre single nel 1948, unica donna sindacalista a Berkeley, ruppe con un fidanzato, o almeno così racconta, e quindi è già più vero del vero, per le opinioni discordanti su West Side Story, che lei aveva definito banale e sdolcinato (“discutere i pregi e i difetti di qualcosa con un uomo che vuole solo che tu ti dia una calmata è un’esperienza demoralizzante. Si impara a tacere o a trovare un altro uomo”). Nel 1973, intervistata in una trasmissione televisiva da un giovane giornalista che la fissava con occhi sbarrati dopo averle chiesto perché dovesse ancora difendere il fatto di essere una donna, Pauline Kael ha detto sorridendo che nel cinema le donne sono sempre state accettate, ma che il mestiere della critica richiede intelligenza analitica e razionalità, e questa razionalità per gli uomini è piuttosto sconvolgente da accettare. “E’ ammesso dare prova di sensibilità e talento, due doti che agli uomini piace vedere in una donna, ma è molto molto difficile per loro ammettere che una donna possa discutere in un modo sensato”. Mentre lei sorrideva, gentile e minacciosa, il giovane uomo stava per svenire di paura e di sudore.

Era il 1973, mezzo secolo fa, e il movimento razionale, analitico e sfrontato di Pauline Kael è stato assorbito ed esaltato dal movimento delle donne, senza che lei perdesse unicità o smettesse di scrivere: latrina.

Muoversi, andare in avanti, camminare verso un obiettivo di libertà non significa semplicemente invocarla né uniformare la propria voce alla voce di tutti, cercandone il consenso, parlando in coro. Si arrabbiano? Peggio per loro, rideva Pauline Kael. Un’idea di esistenza esercitata molto tempo prima anche da Jane Austen attraverso Elizabeth Bennet, in Orgoglio e Pregiudizio: “C’è della testardaggine in me che non mi consente di farmi intimidire dal prossimo. Il mio coraggio anzi aumenta a ogni tentativo di spaventarmi”, dice Elizabeth, fiera di avere sempre qualcosa da desiderare, capace di cambiare idea e di ammettere i suoi fraintendimenti, consapevole che niente è perfetto e che sua madre è insopportabile e cretina. La campagna inglese dell’Ottocento è molto lontana da New York negli anni Settanta, e gli anni Settanta sono lontani dal nostro oggi, ma anche allora Elizabeth Bennet tendeva al miglioramento della sua esistenza, sperando nel lieto fine per il maggior numero possibile di persone: realistica e al tempo stesso romantica, capace di negoziare. Non è necessario deporre un uovo per capire se è buono. Così Pauline Kael, che si lascia incantare dal cinema e chiede al cinema di portarla nel regno dell’immaginazione, che si innamora dei film, dei momenti, dei volti, ma con senso critico, e pretende di essere pagata per il buon lavoro svolto, lasciata libera di scrivere quello che vuole e come vuole: un modo meraviglioso di vivere, è questo l’obiettivo romantico e realistico. Il lieto fine di Elizabeth Bennet, senza la sdolcinatezza di West Side Story.

I registi, gli attori, le attrici le mandavano telegrammi e lettere imploranti, ammirate, grate, furiose: tutti compravano il New Yorker per leggere le recensioni di Pauline Kael e si mettevano di nuovo in fila al cinema per rivedere un film a cui lei aveva dato nuova vita, un nuovo punto di vista, un’altra luce. Lo facevano perché quella convinzione era evidente: solo il meglio è degno di essere offerto agli altri. E’ così che ci si muove e che si va avanti. Si depongono buone uova o le si mangiano. Un amico scrittore di Pauline Kael ricorda che, quando lei stava ormai per morire, era al suo capezzale e per intrattenerla le disse: “Non smette mai di stupirmi quante persone che si definiscono scrittori in realtà non sappiano scrivere”. Lei rispose debolmente: “Sì, e pronunciano frasi come: non smette mai di stupirmi”.